Fisica dei rapporti umani
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Fisica dei rapporti umani

Dieci lezioni di comportamento secondo natura

Furio Gramatica

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Fisica dei rapporti umani

Dieci lezioni di comportamento secondo natura

Furio Gramatica

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La fisica spiega il funzionamento della Natura a ogni livello, dall'immensità dell'Universo alle particelle subatomiche, e le sue leggi si possono tradurre anche in formule di comportamento nelle relazioni interpersonali.L'autore conduce in un viaggio dell'intelletto fra concetti che raramente sono stati accostati: la metrica dei comportamenti umani, il principio di azione e reazione nelle relazioni interpersonali, la termodinamica degli esseri umani, le leggi della dinamica e le interazioni tra le persone.Il libro si rivolge a chiunque gestisca rapporti umani, ovvero tutti, negli ambiti familiari, lavorativi e sociali; e racconta come, a fronte del nostro sforzo di coltivare una dimensione "tecnica" e psicologica nei rapporti umani, la nostra natura – o meglio la Natura, di cui facciamo parte – ci mostra qualche scorciatoia per capire meglio noi stessi e gli altri.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820396015
1.
La misura e il senso di giustizia
Le tre ragioni del fascino della misura
Per lavoro viaggio molto e, quasi sempre, in aereo. Se posso, come i bambini, mi metto vicino al finestrino, soprattutto nei viaggi di una-due ore e di giorno. E, anche se mi ripropongo di leggere e lavorare durante il volo, finisco per passare tutto il tempo in cui non sonnecchio a guardare giù, cercando di riconoscere montagne, vallate, coste. Osservo in poco tempo – specie nella rotta dalla mia Milano verso Bruxelles o Parigi o Berlino – il passaggio dalla Pianura Padana alle cime emozionanti e innevate delle Alpi, che mi ricordano i giorni sereni delle estati con la mia famiglia (quattro donne!) a Gressoney, ai piedi del magnifico Monte Rosa, fino alle pianure del Nord Europa.
Una sensazione simile al guardare dal finestrino dell’aereo in una giornata limpida è quella che proviamo quando sfogliamo un atlante o facciamo ruotare lentamente su se stesso un mappamondo: ci sembra di dominare lo spazio che osserviamo e di poterci muovere in esso, anzi, sopra di esso, con una libertà totale. Mentre scorriamo con gli occhi e forse con il dito la mappa, lo sguardo riesce a cogliere finalmente l’interezza delle forme del territorio, i rapporti tra le vere grandezze di regioni, paesi, continenti diversi; l’enormità degli oceani, dei territori ghiacciati ai poli, la regolarità delle catene montuose che spezzano pianure a volte sconfinate. Un’altra esperienza analoga ci viene da strumenti incredibili, come Google Maps (Street View, Earth ecc.), che ci portano a velocità iperbolica da quote elevatissime sul livello del mare fino a trovarci in strada con le persone, le biciclette, le auto, o in percorsi lunghissimi e semideserti in mezzo agli Stati Uniti o in circumnavigazioni con viste mozzafiato lungo le coste di un’isoletta minore nel Pacifico, che rimarrebbero altrimenti sconosciute.
Il piacere e, allo stesso tempo, la vertigine che derivano dalla possibilità di esplorare lo spazio (e intendo non solo in orizzontale, spostandosi da qua a là, in due dimensioni, ma anche in verticale, spostando lo sguardo dal particolare in basso alla comprensione del territorio dall’alto), quel piacere e quella vertigine – dicevo – sono il primo passo, spontaneo, verso il fascino della misura.
Potremmo dire che la misura crea ordine. Anche nei rapporti umani, una valutazione corretta basata sull’osservazione dei comportamenti permette di definire in modo più veritiero i rapporti di grandezza tra le “regioni” delle nostre relazioni, ristabilendo una gerarchia tra di esse.
Un secondo motivo di fascino che il misurare esercita sugli uomini è legato al portafogli. Dare un valore alle cose – al di là del cosiddetto valore affettivo – dipende da due fattori: di che cos’è fatta (o quanto è utile o bella) la cosa che considero e “quanta” ne considero. Per esempio, un campo nella campagna lungo le sponde del Nilo valeva in funzione della sua fertilità, ma ovviamente anche della sua estensione. E, ogni volta che – a metà luglio, cioè all’inizio dell’anno egizio e del periodo di Akhet – il grande fiume esondava, esso cancellava tutti i confini delle proprietà terriere ed era quindi necessario misurare in anticipo i terreni per ristabilire l’ordine al ritirarsi delle acque, a metà novembre, quando iniziava la stagione chiamata Peret, in cui i contadini iniziavano il lavoro nei campi resi fertili dal limo. È proprio da qui che nasce la “geo-metria”, cioè il modo di misurare la terra (non nel senso del pianeta, ma letteralmente della grandezza dei campi).
Ovviamente, agli inizi (e in verità per lungo tempo) le misure furono basate su “campioni” di riferimento non molto precisi, come la lunghezza di un piede, l’ampiezza di un palmo della mano, l’avambraccio del faraone (il “cubito”), ma si trattava comunque di un buon inizio. Ciò che mancava era una caratteristica piuttosto importante della misura: la riproducibilità. Riferirsi a parametri antropometrici come quelli elencati introduceva una certa variabilità nel valore misurato. Ecco perché dalla rivoluzione scientifica in poi, invece, quando si parla di campioni di riferimento, si elencano con minuzia tutte le condizioni in cui viene definito il valore della sua misura (per esempio, la caloria è la quantità di calore necessaria a innalzare di un grado, ed esattamente da 14,5 °C a 15,5 °C la temperatura di un grammo di acqua distillata alla pressione di 1 atmosfera). Una delle prime cose che i genitori insegnano ai figli, quando fanno la spesa, è di guardare il prezzo unitario (euro al kilo, al pezzo, al litro), normalmente scritto in piccolo sul cartellino, per comprendere quale sia il prodotto più conveniente e non farsi ingannare dal prezzo finale della confezione, magari abbagliati da qualche fantomatica promozione.
La misura crea valore. Misurare correttamente ci permette, nei rapporti con gli altri, di mantenere il valore delle cose in un’ottica oggettiva, serena e conveniente, non di emotivo attaccamento a esse, né piegandoci a parametri di riferimento imposti da altri.
Il terzo motivo di fascino della misura è che essa permette di valutare le differenze in modo oggettivo e difendibile, proteggendoci dalle false impressioni (quanto ci servirebbe usare questo fantastico metodo nell’era delle fake news!). Quella di misurare prima di decidere o di giudicare, sfortunatamente, nella vita quotidiana non è un’abitudine.
La misura crea rapporti. Ci sono campi delle attività umane in cui un supplemento di misura sarebbe di grande giovamento (come, per esempio, la medicina, l’economia e il management). Nelle relazioni quotidiane la contezza dei fatti sarebbe utile per mantenere buoni rapporti (o cattivi, ma a ragion veduta e non sulla base di mere impressioni o emotività).
Perché allora la misura il più possibile oggettiva non è il mezzo più diffuso alla base del nostro agire, anche e soprattutto nei rapporti con gli altri?
Ma che cosa sto misurando?
Il problema sta nella scelta del modo di misurare. Partiamo mettendo ordine nei ruoli dei quattro grandi protagonisti: l’osservatore (colui che misura), l’osservato (la cosa o la persona misurata), il “mediatore” (ciò che permette all’osservatore di interagire con l’osservato per misurarlo) e l’unità di riferimento (o unità di misura).
Facciamo subito un esempio. Il piccolo Antonio, un paffuto bimbetto di nove anni, da quando è tornato da scuola pare un po’ in tono minore. La nonna, osservandolo, afferma “starà covando qualcosa!”; la mamma, che si fida del giudizio della nonna, misura la temperatura “all’antica”, mettendo la sua mano sulla fronte del bimbo, concludendo che “però è fresco”. La nonna, con la stessa operazione, deduce che “il bimbo è caldo”. Ora, la sensazione di caldo o freddo sui palmi delle mani di mamma e nonna (gli strumenti degli osservatori) dipendono dalla differenza di temperatura tra la fronte di Antonio (l’osservato) e le loro mani, che a sua volta, è la causa del passaggio di calore dalla fronte alle mani (il calore è il mediatore). Da qui la differenza di opinione tra le due: probabilmente la nonna aveva le mani più fredde di quelle della mamma. Saggiamente, il papà di Antonio interviene con un termometro che, posto sotto l’ascella del bimbo, rileva il cambiamento di temperatura in modo univoco, riflettendolo nella dilatazione del liquido colorato nel tubo capillare e indicando con oggettività la temperatura corporea in un’unità di misura nota (i gradi centigradi).
Un giudizio oggettivo si basa su dati oggettivi e condivisibili. Le sensazioni derivano certamente da ciò che osserviamo, ma anche dal nostro stato di osservatori, di cui spesso non abbiamo piena consapevolezza.
Fin qui, è vita vissuta. Ma è interessante notare un aspetto su cui, quasi certamente, non abbiamo riflettuto spesso: la mano della mamma o della nonna, la cui estensione e la cui massa sono simili a quelle della fronte del bambino, possono effettivamente cambiare la temperatura della fronte stessa, falsando la misura. Il termometro, invece, ha capacità termica (la capacità di assorbire o cedere calore variando di poco la propria temperatura) molto bassa rispetto a quella della fronte e, di conseguenza, subirà la variazione di temperatura senza influenzare la temperatura della fronte, effettuando una misura “non invasiva” e “trasparente” per il soggetto osservato. Ovviamente, se usassimo lo stesso termometro per misurare la temperatura di una formica, le cui dimensioni (e la cui capacità termica) sono molto inferiori a quelle del termometro, influenzeremmo con la misura la reale temperatura della formica, falsando il risultato.
Quando vogliamo osservare o misurare qualche parametro che consideriamo importante nei rapporti con gli altri, dobbiamo porci il problema del modo in cui lo facciamo. Un metodo non adeguato per esempio troppo invasivo o troppo remissivo, potrebbe perturbare quanto vorremmo dire o sapere, falsando l’informazione scambiata.
La misura come metodo di giudizio
Per un motivo o per l’altro, tutti siamo abituati a comunicare misure: “Butta 2 etti di pasta”, “Ci vediamo tra 20 minuti”, “Il negozio dista 3 chilometri da casa mia”… Misurare è una parte importante della nostra comunicazione con gli altri e dei nostri criteri decisionali. Un concetto importante in questo contesto è quello dell’unità di misura, che deve essere nota e condivisa. Misurare significa confrontare l’osservazione di una grandezza con un campione di riferimento: il numero che mettiamo davanti è semplicemente il rapporto tra ciò che osserviamo e quell’unità, ma questo lo sappiamo dalla scuola elementare. Il problema è che, in alcuni casi, si dà per scontato che l’unità di riferimento sia la stessa, mentre non lo è. Pensiamo alla valutazione dei collaboratori sul posto di lavoro. Nelle aziende, gli specialisti delle Risorse Umane si fanno in quattro per definire griglie di valutazione, sistemi di benchmarking, criteri di stratificazione dei potenziali degli impiegati. Dall’altra parte, i capi e i capetti – spesso ignari di questo immane (e talvolta un po’ oscuro) sforzo delle Risorse Umane –, per valutare differenze e prendere decisioni in modo affidabile utilizzano il riferimento a essi più noto: se stessi. Questo, per quanto comprensibile e talvolta accettabile come prima approssimazione, rischia di portare a conseguenze nefaste e di diminuire di gran lunga l’esercizio di un giudizio giusto.
Vediamo che cosa ha da dirci in merito l’apparato matematico che usano i fisici.
Il metodo che i matematici e i fisici usano per misurare è quello di definire una “metrica”. Una metrica ci serve a calcolare quanto due oggetti sono “distanti”. In pratica, la metrica è la procedura di calcolo per misurare la distanza.
Esistono vari tipi di metriche. Vediamo due esempi particolarmente interessanti: la “metrica euclidea”, che – coscientemente o no – usiamo continuamente, e la bizzarra “metrica discreta”, che modellizza bene i capi un po’ autocentrati di cui abbiamo appena parlato.
La metrica euclidea è quella che normalmente usiamo e a cui siamo abituati per misurare le distanze nel nostro ambiente di vita. Nella metrica euclidea, un oggetto dista zero solo da se stesso, mentre gli altri oggetti hanno distanze diverse da esso, realmente proporzionali a quanto sono lontani nello spazio (figura 1.1).
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Figura 1.1 – Particolari con Pitagora ed Euclide nella Scuola di Atene (1509-1511) di Raffaello Sanzio.
La metrica euclidea si basa sul noto Teorema di Pitagora, che afferma che il lato obliquo (ipotenusa) di un triangolo rettangolo si ottiene sommando i quadrati dei lati perpendicolari (cateti) ed estraendo poi la radice quadrata della somma ottenuta.
Prendiamo l’esempio della figura 1.2 seguente e calcoliamo, usando il Teorema di Pitagora, le distanze AB e AC:
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Figura 1.2 – La distanza nella “metrica euclidea” è quella a cui siamo abituati.
Osservando la figura e facendo i conti otteniamo:
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Quindi, rispetto...

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