La Scala racconta
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La Scala racconta

Nnuova edizione riveduta e ampliata a cura di Silvia Barigazzi

Giuseppe Barigazzi

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La Scala racconta

Nnuova edizione riveduta e ampliata a cura di Silvia Barigazzi

Giuseppe Barigazzi

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Dal 1778 al controverso inizio della gestione Pereira, le vicende, le storie, i personaggi, le musiche, le opere, i compositori, i direttori d'orchestra, i cantanti, i registi, i coreografi, le prime ballerine che hanno fatto del Teatro alla Scala di Milano il "tempio" indiscusso della lirica e della danza. Giuseppe Barigazzi ha trasformato la storia del teatro in un grande racconto di rivalità, odi, amori, gelosie, intrighi, invidie e travolgenti passioni dietro le quinte. Sullo sfondo una città che passa dalla dominazione austriaca al Risorgimento (Viva V.E.R.D.I.), dalle trasformazioni della modernità alle distruzioni della seconda guerra mondiale fino all'inaugurazione del 1946, quando Arturo Toscanini tiene a battesimo l'Italia repubblicana. La storia non si interrompe con le rivalità Callas-Tebaldi, Muti-Abbado, fino all'ultimo periodo, col Teatro che si prepara per la stagione straordinaria legata ad EXPO. Questo classico libro torna in una nuova edizione aggiornata a cura di Silvia Barigazzi, nella quale sono raccontati gli anni della gestione Lissner e, più in generale, la Scala del XXI secolo, con una iconografia rivista e aggiornata, e una serie di utili indici che consentono di rintracciare rapidamente personaggi e interpreti della storia del teatro più celebre al mondo.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2014
ISBN
9788820364953

CAPITOLO

1

Il Regio Ducale Teatro, l’incendio, la Scala

Il Regio Ducale Teatro, situato all’interno
del Palazzo Reale, va a fuoco per la terza volta.
L’architetto Piermarini propone a Maria Teresa d’Austria
la costruzione di un nuovo teatro sull’area
della chiesa di Santa Maria della Scala.
Il 3 agosto 1778 si inaugura la Scala
con l’Europa riconosciuta di Antonio Salieri.
Sono belli i teatri d’opera. Hanno un loro fascino. Ci sono gli ori, le luci, gli stucchi, i velluti, i tappeti, gli specchi; spesso anche i soffitti affrescati, come in certe chiese. Fanno spettacolo a sé, a sipario chiuso: ti danno un senso di opulenza, di protezione, di calore, di complicità. Pensi a che cosa poteva succedere nei palchi quando socchiudevano le tendine, discrete perfino nei colori: azzurro, avorio, un verde che si spegne nel giallo oppure un rosso che non è più rosso. C’era una regia in questo, molto rigorosa: le tendine dovevano essere armonizzate con i parapetti dei palchi, il sipario, la volta dipinta. Le stampe della Scala tramandano l’immagine di un teatro in cui tutto è ordine, simmetria, compostezza, conforto: il conforto del lusso. Ma che cosa succedeva dentro quei palchi? Sonnecchiavano, mangiavano, cospiravano, facevano l’amore, intrecciavano pettegolezzi? E quei poveri diavoli che stavano sotto a cantare, ballare, suonare?
Per molto tempo, all’inizio di una vita che ha oltrepassato i due secoli, la Scala è stata tutto questo: teatro e luogo di ritrovo, assolutamente necessari, più il secondo del primo, alla nobiltà milanese. Dice lo storico Pietro Verri in una lettera al fratello Alessandro, 30 settembre 1778: «Tante sono le passioni, i pregiudizi e la imbecillità che non sappiamo né stare soli, né vivere in compagnia, e il teatro buono o cattivo è una necessità per avere il modo di passare le ore della sera».1 Verri scriveva al fratello che viveva a Roma e lo intratteneva sull’argomento del giorno, l’apertura del nuovo Teatro Grande, la Scala, avvenuta il 3 agosto 1778. Le sue considerazioni, anche se assimilabili a tanti altri ambienti d’Italia e d’Europa, riguardavano proprio la Scala, non la Pergola di Firenze, né l’Argentina di Roma, il Regio di Torino o il San Carlo di Napoli, i maggiori fra gli altri teatri italiani d’opera di allora, attivi, chi da cento e più anni come la Pergola, chi da dieci come il San Carlo. Pietro Verri si lamentava poi con il fratello del fatto che i palchi della Scala fossero carissimi. Tanto che, sebbene dopo il matrimonio ne avesse avuto uno in affitto, per la prima stagione della Scala avrebbe potuto disporne soltanto a metà. Ma questo non gli avrebbe comunque impedito di vedere «due ore almeno ogni sera» il marchese Cesare Beccaria, l’autore famoso del libro-manifesto contro la pena di morte: Dei delitti e delle pene.
L’Accademia dei Pugni, fondata a Milano nel 1761 per iniziativa di Pietro Verri, si proponeva il rinnovamento della società e della cultura mediante la diffusione delle nuove idee illuministiche. Ne facevano parte anche il fratello di Pietro Verri, Alessandro, e Cesare Beccaria. (Antonio Perego, 1766, Milano, Collezione privata)
Verri e Beccaria, tutt’e due investiti di cariche alte nella gestione delle riforme del governo austriaco, i maestri d’opinione più venerati del momento, buoni amici oltre che lontani parenti, facevano parte di quel patriziato che si esprimeva nel Corpo dei Palchettisti e che si era in pratica autotassato pur di costruire il teatro. Gesto che peraltro costerà spesso molto caro alle casse reali, municipali o statali perché la proprietà di un palco si manifesterà in una sequela di diritti (e di pretese) che è ben più lunga di quella dei doveri.
La storia ha intrecciato alla Scala tanti fili: quelli che passano per il palcoscenico, che riguardano la storia della musica e dello spettacolo, e quelli che seguono percorsi che precedono l’apertura del sipario oppure vi si accompagnano come il nostro vivere civile, il nostro costume, la passione politica, l’amore, la trasformazione della società milanese, il modo di gestire il teatro e di infondergli quella carica di professionalità per cui già nel 1816 Stendhal emetterà la sentenza terribile, «Corro a quello che è il primo teatro del mondo». Terribile perché l’impegno da mantenere, pur tra discontinuità ed errori di percorso che sono sempre più difficilmente perdonabili, è tale da far tremare le vene e i polsi a chiunque.
Come tanti altri teatri d’Italia e d’Europa la Scala nasce da un incendio. Il fuoco era un’ipotesi quotidiana nei teatri di allora, come l’abbassamento di voce di un cantante, cosa questa che veniva però risolta molto disinvoltamente perché, a differenza di quanto di regola avviene oggi, lo spettacolo veniva rinviato oppure, se proprio non se ne poteva fare a meno, si tagliava l’atto in cui il cantante afono aveva la sua parte più impegnativa. Succedeva. Se il cantante indisposto era il tenore, si andava poi avanti con il baritono che si limitava a recitare la parte dell’assente. E così via. Il pubblico si divertiva lo stesso, se non di più, perché in fondo non gliene importava granché dell’opera e dei cantanti. Almeno nel teatro del Settecento.
A Milano, il teatro d’opera che precedette la Scala fu il Regio Ducal Teatro che aveva sede nel Palazzo Reale: era nella parte compresa fra via Rastrelli all’esterno e il lato destro dell’attuale cortile che allora era un giardino. Il cortile del palazzo era l’attuale piazzetta Reale, a quel tempo a forma pentagonale, con ingresso molto prossimo al Duomo.
Un politico ed erudito francese, Charles de Brosses, presidente del Parlamento di Digione, in visita a Milano nel 1739, andò al Teatro Ducale e uscì sconcertato dal pubblico che vi aveva trovato. «La platea» scrisse nelle sue Lettere familiari «è pazza o ubriaca: o piuttosto l’una cosa e l’altra insieme. Credo non vi sia nulla di più desolante e di più impertinente del rumore che essa fa: neppure un mercato ci si avvicinerebbe. E non basta che uno conversi gridando più che può e applaudisca urlando non già il canto, ma i cantanti appena compaiono e durante tutto il tempo che cantano, e ciò senza ascoltarli. I signori della platea poi hanno dei lunghi bastoni che battono a più non posso sulle panche, in segno di ammirazione. Essi hanno dei corrispondenti nelle logge del quinto ordine che a quel segnale lanciano miriadi di foglietti con stampato un sonetto in lode della signora o del virtuoso che hanno cantato. Tutti si sporgono dai palchi per afferrarli a volo. La platea scatta e la scena si termina con un “Ah!” generale come ai fuochi d’artificio. Tanti sono gli attori, tanti sono i partiti, altrettante le scene come questa. La gazzarra più chiassosa segna il trionfo più grande e la fine dello spettacolo si conclude in un mal di testa spaventoso inflitto agli spettatori. Il governatore era presente a tutto questo e per poco io non mi recai da lui a reclamare perché tollerava un tale scandalo. Solo dopo qualche rappresentazione cominciai ad avere un dubbio che il soggetto dello spettacolo fosse La continenza di Scipione e che un tal Salimbeni, che vi rappresentava il marito, avesse una delle belle voci d’Italia».2
Alla Pergola di Firenze o al Tor di Nona di Roma non stavano meglio, secondo la testimonianza di un illustre autore teatrale spagnolo, Leandro Fernández de Moratín, l’autore de Il sì delle ragazze. Dice che a Firenze il pubblico non faceva che ripetere i passaggi che più gli piacevano e che a Roma ha visto uno mangiare in un gran piatto posato sul parapetto di un palco di prima fila. Lo sfrontato beveva poi da una gran bottiglia «in vista e tolleranza della nobiltà e cittadinanza attraendo a sé la curiosità e i cannocchiali di tanta rispettabile assemblea».3
Non c’è da meravigliarsi quindi che i teatri andassero tanto facilmente a fuoco. Erano tutti costruiti in legno, l’illuminazione era possibile soltanto con le candele e le lampade a olio, non erano riscaldati e c’era un unico sistema per rimediare: portare i bracieri in palco, cosa che avveniva con tanto di permesso dell’impresa. Ma i pericoli non si esaurivano qui: fino al 1750 succedeva addirittura che si accendessero fuochi in teatro e che i lacchè e gli staffieri arrivassero fin sulla soglia del teatro con torce a vento con cui illuminavano la strada alle carrozze dei padroni. Assieme a tutto questo c’era quel pubblico così chiassoso e imprevedibile, tanto che nei teatri esisteva un corpo di guardia con un proprio locale, locale che l’architetto Giuseppe Piermarini prevederà anche nell’impianto della Scala, accanto all’ingresso, a destra. L’eventualità dell’incendio era insomma così scontata che in un trattato di architettura del 1760 si raccomandava di costruire i teatri «vicino alle acque e separati dall’abitato».
Si può dire, senza scivolare nel paradosso, che fino al primo Ottocento la storia dei teatri lirici è fatta di opere, balli, impresari, giochi d’azzardo e incendi. Brucia a Verona nel 1749 il Filarmonico costruito da Francesco Bibiena, brucia a Venezia nel 1773 il San Benedetto, a Torino nel 1745 il Teatro Ducale, a Roma nel 1781 il Tor di Nona. A Londra, il Covent Garden viene distrutto da un incendio nel 1808 e riaperto l’anno dopo; a Mosca, mentre si costruisce il Bol’šoj fra il 1776 e il 1780, si recita in un teatro provvisorio che non regge fino al completamento di quello nuovo; a Parigi il teatro del Palais-Royal è sempre sotto tiro: l’ultima volta, nel 1781, si è incendiato per colpa, pare, della polvere «lycopode» usata per raffigurare le fiamme dell’inferno nell’Orfeo ed Euridice di Gluck. È consolante: il vero colpevole era proprio il diavolo.
A Milano, il Teatro Ducale che precedette la Scala era stato costruito nel 1717 sulle ceneri di un precedente Teatro Ducale (o Regio Ducal Teatro) andato a fuoco nel 1708, teatro, questo, che a sua volta, pur passando attraverso diverse trasformazioni, costituiva la diretta discendenza di quello che fu forse il primo teatro milanese, il primo Regio Ducale Teatro costruito nel 1598 all’interno di Palazzo Ducale, o Palazzo di Corte, o Palazzo Reale. Quel teatro era stato costruito per festeggiare degnamente il passaggio da Milano di Margherita d’Austria, la sposa promessa del nuovo re di Spagna e Portogallo, Filippo III il Pio, il quale era anche il re dei milanesi perché a quell’epoca, e già da oltre mezzo secolo, Milano era sotto la dominazione spagnola. In quel 1598 Filippo III succedeva a suo padre Filippo II assumendo un ruolo che avrebbe potuto essere del fratellastro Don Carlos se questi avesse avuto un diverso destino: siamo in area di melodramma. Don Carlos e Filippo II, tenore e basso, saranno i due protagonisti del Don Carlos di Verdi. Lo spettacolo dato in onore di Margherita d’Austria fu comunque tale che il Regio Ducale Teatro si chiamò anche Salone Margherita e, terzo nome, La Cavalchina, perché verso la fine del Seicento venne usato come maneggio per i nobili di corte. Nel 1599, il passaggio di donna Isabella e dell’arciduca Alberto d’Austria, i genitori di Margherita di ritorno a Vienna dopo le nozze della figlia, fu l’occasione per la rappresentazione di Orfeo e gli Argonauti nell’Arminia, che il musicologo Guglielmo Barblan ritiene essere stato «il primo spettacolo della musica in stile recitativo allestito a Milano». Era una composizione di genere mitologico-pastorale di cui erano autori Giovanni Battista Visconte e Camillo Schiaffenati, «dottori del Collegio di Milano». A parte il nostro personalissimo richiamo al Don Carlos di Verdi, il melodramma era effettivamente nell’aria, con occhio a Firenze e a quanto andavano facendo i Medici. L’anno dopo, 1600, con l’Euridice di Jacopo Peri e Ottavio Rinuccini, spettacolo provocato da altro matrimonio regale, prenderà il volo. E così l’opera, che nasce come spettacolo di corte, resterà in pratica sempre condizionata da questa sua matrice: per eseguirla occorrono un’orchestra, un coro, un corpo di ballo, dei cantanti, degli scenografi, tutte cose che messe assieme possono lasciare indifferente soltanto chi ha facoltà di battere moneta; e quando non ci sarà più il principe, dovrà sempre esserci qualcuno che paga il disavanzo. Oggi chi entra alla Scala paga un prezzo che può apparire non a buon mercato ma è comunque politico, addomesticato. Al resto provvedono, anche se sempre meno, le sovvenzioni dello Stato, cui si aggiungono quelle del Comune, di altri Enti, dei soci fondatori privati e, in misura crescente, i contributi degli sponsor. La storia dell’opera non è fatta soltanto dei trionfi (e dei fiaschi) di autori ed esecutori, ma anche dei lamenti di chi deve tenere il conto della spesa.
Maria Teresa d’Austria convinse l’arciduca Ferdinando, suo figlio, a respingere la richiesta del giovane Mozart che ambiva a diventare musicista di corte a Milano. Si tratta di «gente inutile» scrisse. (Jean-Étienne Liotard, Ritratto dell’Imperatrice Maria Teresa, Vienna, Graphische Sammlung Albertina)
Il primo Regio Ducale Teatro subì tanti rifacimenti. L’ultimo fu provocato da un incendio, non devastante, nel 1699. In seguito andò a fuoco totalmente nel 1708. Perché bruciò? Solita fragilità dei teatri. Un verbale concluse col dire che l’incendio era da attribuire «a mera casualità occasionata dal pericolo evidente in cui sogliono essere sempre li teatri». Bella consolazione. Lo ricostruirono soltanto nove anni dopo perché l’erario era senza soldi. E provvide il patriziato milanese per cui il teatro era già diventato una tale consuetudine da non poterne fare assolutamente a meno, neppure per un giorno. In attesa di chiarire la situazione adattarono in gran fretta allo spettacolo musicale un altro teatro, molto più piccolo, esistente nel Palazzo di Corte, il Teatrino della Commedia che si trovava sul lato opposto del Palazzo, verso l’attuale via Palazzo Reale, mentre il Teatro Ducale era sul lato di via Rastrelli.
Per il progetto del nuovo Teatro Ducale venne chiamato l’architetto parmigiano Giandomenico Barbieri, allievo dei celeberrimi Bibiena, scenografi e progettisti di teatri in tutta Europa. Barbieri fece un teatro di 800 posti, a cinque ordini di palchi (l’ultimo, come al solito, era la piccionaia), un teatro grandioso ed elegante, fra i più belli d’Europa. Una stampa del Teatro Ducale, trionfante in tutto il suo fasto, è il regalo che la Scala farà al sovrintendente Ghiringhelli quando questi, nel 1972, lascerà il teatro dopo 27 anni.

Le tre opere di Mozart per il teatro di Palazzo Reale

Il Ducale visse sessant’anni. Passarono da lì tutti i generali e i marescialli dell’opera e del balletto di quel periodo, fra il 1717 e il 1776. Non badò mai a spese il Ducale, né per pagare i compositori che scrivevano su commissione né per scenografi, cantanti e ballerini. Il giovanissimo Mozart, che fra i 14 e i 16 anni scrisse tre opere per il Ducale, ricevette mediamente per ogni opera una somma pari a cinque volte quella che guadagnava in una intera stagione il violino di spalla, personaggio che allora svolgeva anche di fatto il lavoro che sarà poi del direttore d’orchestra. Mozart ebbe in più l’alloggio per sé e per il padre Leopold, e fu un soggiorno di mesi ogni volta, nel 1770, nel 1771 e nel 1772, per Mitridate re di Ponto, Ascanio in Alba e Lucio Silla. E non è che per il giovane genio, che andava raccogliendo onori dappertutto, si fossero fatte delle eccezioni. Successe anzi che Mozart, il quale avrebbe gradito un posto di musicista di corte a Milano, si vide respingere brutalmente la richiesta proprio da Maria Teresa, imperatrice d’Austria e guida suprema del figlio arciduca Ferdinando che la rappresentava nella Lombardia austriaca. Se vuoi prendertelo, scrisse in sostanza Maria Teresa al figlio, fai pure, ma per me si tratta di «gente inutile».4 Parlando al plurale, si riferiva al fatto che la richiesta di assunzione per Wolfgang Amadeus Mozart comprendeva anche quella per il padre Leopold.
Poi aggiungeva che quei due non erano che dei «pitocchi» che giravano il mondo come accattoni. Visto che le porte di Milano erano chiuse, i Mozart tentarono con Firenze dove il granduca era un altro figlio di Maria Teresa, Leopoldo, ma la risposta non fu diversa, nonostante la mediazione intelligente del conte Firmian, ministro plenipotenziario dell’arciduca Ferdinando in Lombardia, una specie di re di Milano che fu il vero tessitore della politica culturale austriaca in terra milanese. Protettore del Beccaria e del poeta Giuseppe Parini, presentatore di Giuseppe Piermarini come architetto di corte, il conte Carlo Giuseppe Firmian teneva salotto ...

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