I sumeri
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I sumeri

Franco D'Agostino

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I sumeri

Franco D'Agostino

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Alla scoperta di una delle più antiche civiltà, i Sumeri, di cui fino alla metà del XIX secolo la cultura occidentale aveva perso ogni conoscenza o ricordo. Prima ancora di Babilonesi e Assiri, sono proprio i Sumeri a fondare le città e a inventare la scrittura cuneiforme, attestata sin dalla fine del IV millennio a.C. Gli scavi nelle città della Mesopotamia meridionale, dove la tradizione sumerica è nata e si è sviluppata, hanno permesso di ricostruire la loro straordinaria fioritura storica, artistica, religiosa e letteraria, durata oltre tre millenni. L'autore presenta la struttura sofisticata e affascinante di questa civiltà, in un viaggio nella Mesopotamia antica attraverso testimonianze archeologiche e testuali, dai tesori delle tombe reali di Ur ai poemi epici ispirati a Gilgamesh.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820397593
1
La lunga via dell’Occidente alla scoperta dei Sumeri
La Mesopotamia nella tradizione anticotestamentaria e greca
La memoria del mondo antico orientale mesopotamico e dei popoli che ne erano stati protagonisti è stata tramandata nella cultura occidentale grazie essenzialmente a due filoni storici e culturali ben definiti. Da un lato, i testi dell’Antico Testamento, quelli storici essenzialmente, raccontavano le vicende che videro contrapposto il popolo di Israele alle grandi potenze babilonese e assira, individuando nell’elemento della cattività a Babilonia il punto focale di uno scontro considerato inconciliabile tra il mondo dell’ortodossia giudaica, che si identificava nel monoteismo antico-testamentario, e quello politeista mesopotamico. Dall’altro, una lunga sequela di scrittori in lingua greca aveva tramandato il ricordo e la storia di popoli e personaggi legati a quello stesso mondo orientale, dove il fulcro era però rappresentato dallo scontro – divenuto epico nella tradizione greca – con quel mondo persiano che erano riusciti a sconfiggere, mentre l’incontro con l’Assiria e Babilonia appariva ai loro occhi assai meno significativo e fondante per la loro tradizione.
L’aspetto più rilevante, in questa duplicità della memoria in Occidente del mondo orientale, è il fatto che entrambe queste tradizioni veicolavano una visione parziale e negativa dell’Oriente antico, mesopotamico essenzialmente. I Greci avevano avuto lunghi e proficui rapporti culturali e storici con Babilonesi e Assiri, e nella loro tradizione dichiaravano espressamente di considerare la città di Babilonia uno dei centri culturali più importanti del loro tempo, tanto che Alessandro Magno – che vi morì nel 323 a.C. – voleva ricostruirla per farne la capitale del suo immenso regno. Tuttavia, essi non avvertirono la civiltà mesopotamica come una fonte culturale della nuova tradizione ellenistica; la sua descrizione e la sua importanza sono infatti oscurate dal mondo persiano, che i Greci avevano invece conosciuto direttamente e la cui contrapposizione era considerata un elemento fondamentale della costruzione identitaria della tradizione greca stessa. A dimostrazione di ciò, durante l’ellenismo, nei secoli IV e III a.C., quando il mondo e la lingua greca avevano preso possesso di gran parte delle aree geografiche mediorientali che avevano visto la straordinaria fioritura e poi la decadenza dei popoli mesopotamici, un prete scongiuratore di Babilonia, Berosso (350-270 a.C.), provò a descrivere al pubblico greco, in greco, la lunghissima storia e la ricca cultura della Mesopotamia, dedicando la sua opera intitolata Le cose babilonesi (Tà Babyloniakà) al re macedone Antioco I (324-261 a.C.). Tuttavia, nonostante il compilatore fosse considerato nella storia culturale di questi ultimi il fondatore dell’astrologia greca, la sua opera non ebbe la diffusione che l’autore aveva sperato e la lunghissima tradizione babilonese e assira cadde presto nell’oblio e nella dimenticanza della cultura ellenistica e quindi della tradizione occidentale tout court.
Gli Ebrei poi, soprattutto l’ortodossia monoteista post-esilica, riconobbero chiaramente il grande e pericoloso fascino che Babilonia esercitava nei confronti di coloro che vi erano stati deportati e la considerarono sempre, conseguentemente, un nemico da dileggiare e annientare. Babilonia, come simbolo dell’intero mondo mesopotamico, divenne così la “grande meretrice” e il suo nome, che significa in origine “la Porta degli Dèi”, venne con malizia ideologica reinterpretato come derivante dalla radice blbl, “balbettare”. Questa tradizione negativa nel libro più fondante del mondo occidentale, cioè l’Antico Testamento, fece sì che Babilonia divenisse nella tradizione cristiana il simbolo del male, la “Città del Diavolo”, in opposizione a Gerusalemme, la “Città di Dio”.
Ma né gli Ebrei, né i Greci hanno mai raccontato, nella loro tradizione scritta, del popolo dei Sumeri: la sua evoluzione storica, che si era dipanata nel III millennio a.C., era ormai troppo lontana da loro, che avevano iniziato nel I millennio a.C. a mettere per iscritto la propria storia, perché potessero avere sentore della sua esistenza e della sua importanza e significato. Nulla sapeva più la cultura occidentale dei Sumeri, la cui lingua, tradizione spirituale e storia rappresentano quindi una rivelazione assai recente e la cui entusiasmante riscoperta nel corso del XIX secolo ripercorreremo nei paragrafi che seguono.
E la strada verso la riconquista del mondo dei Sumeri fu aperta, come spesso nella storia europea, dall’archeologia.
La riscoperta archeologica della Mesopotamia
L’incontro con la realtà storica rappresentata da Assiria e Babilonia l’Occidente lo ebbe quando, nei primi decenni del XIX secolo, alcuni pionieri cominciarono a scavare l’area dove era nata e si era sviluppata la Mesopotamia antica, nel caso specifico essenzialmente l’Assiria. L’italo-francese Paul-Emile Botta (1802-1870) e il britannico Austen Henry Layard (1817-1894), infatti, portarono alla luce alla metà del XIX secolo rispettivamente le rovine della città di Dur-Šarrukin, “Fortezza del re Sargon” (odierna Khorsabad) e di Ninive, che si trovavano adiacenti o nelle vicinanze della città di Mosul (Iraq settentrionale). La prima era stata voluta dal sovrano assiro Sargon II (722-705 a.C.), che la fece erigere tra il 717 e il 706 a.C. per essere la sua capitale: essendo egli morto in battaglia nel 705, la città e il suo sontuoso palazzo, ancora non del tutto terminati, vennero abbandonati e non più riabitati. Ninive, invece, che si trova su una collina artificiale detta Kuyunjik a ridosso di Mosul, era divenuta la capitale dell’impero assiro sotto Esarhaddon (681-669 a.C.), poi ampliata e abbellita da suo figlio Assurbanipal (669-626 a.C.). Tra il 1842 e il 1850 un numero straordinario di oggetti provenienti da questi scavi, effettuati da Botta e Layard o dai loro successori, raggiunse le sale del Louvre o del British Museum, dove ancora oggi si possono ammirare e tra i quali spiccano per monumentalità e pregio artistico gli ortostati e le lamassu, geni in forma di tori alati con testa umana (androcefali) che erano posti a guardia delle entrate della città e dei palazzi assiri.
Tra questi reperti, che avevano per l’Occidente anche un valore ideologico in quanto erano considerati la prova della veridicità del racconto biblico, destavano un interesse particolare per il mondo occidentale quelli iscritti con una complessa grafia, detta cuneiforme (a forma di chiodo) a causa della sua sagoma particolare (pare che il termine sia stato coniato tra il XVII e il XVIII secolo da Thomas Hyde ed Engelbert Kämpfer indipendentemente l’uno dall’altro). Queste iscrizioni, incise sulla pietra o sull’argilla, rappresentavano una forma di scrittura che sfidava l’acume e l’intelligenza dei filologi europei, che si misero ben presto al lavoro per decifrarla. La scoperta della celeberrima Biblioteca di Assurbanipal a Ninive da parte di Layard nel 1849, le cui circa 30.000 tavolette e frammenti vennero trasferiti al British Museum l’anno seguente, dette l’impulso definitivo alla decifrazione della lingua che questi testi veicolavano. Sarà proprio all’interno di questa tradizione scritta che si trovarono le prime vestigia di un passato assai più arcaico, la cui esistenza si poteva intuire di quando in quando nei testi babilonesi e assiri. Ma il primo passo fu la decifrazione della lingua babilonese.
La decifrazione del cuneiforme assiro-babilonese
Alla decifrazione del cuneiforme si giunse attorno alla metà del XIX secolo, alla fine di un lungo percorso iniziato nel 1621, quando il pellegrino romano Pietro Della Valle aveva inviato per lettera a un amico, per la prima volta nella storia occidentale, cinque segni cuneiformi che aveva copiato su una stele a Persepoli, in Iran. In realtà, benché si trattasse formalmente di una grafia cuneiforme, la lingua che quella stele veicolava era l’antico persiano, la lingua con cui si esprimevano il potere e la cancelleria dell’impero achemenide e della sua capitale Persepoli. Inventato, secondo la tradizione, nel V secolo a.C. da Dario I il Grande (550-486 a.C.), l’antico persiano rappresentava in realtà solo una delle lingue in cui si esprimeva la propaganda regale degli Achemenidi: le altre due erano il babilonese, con centro principale Babilonia, e l’elamita, incentrato sulla città e l’area di Susa, anch’essa oggi in Iran. Ogni iscrizione reale dei sovrani achemenidi ripeteva lo stesso testo in tutte e tre queste lingue fondamentali del loro immenso impero, sempre rispettando l’ordine seguente: persiano antico, elamita, babilonese (dette quindi a quel tempo rispettivamente prima, seconda e terza scrittura persepolitana). Fu proprio il persiano antico a essere decifrato per primo, grazie al numero relativamente ristretto di segni (42) e alla sua parentela, riconosciuta assai presto, con il ceppo linguistico indoeuropeo. Questo permise a sua volta la decifrazione del babilonese, lingua del ceppo semitico, nella cui grafia si potevano riconoscere alcune centinaia di segni; l’elamita invece, scritto con circa 110 segni, è a tutt’oggi lingua non perfettamente nota. Non è il caso qui di ripercorrere la lunga via che condusse i filologi occidentali a poter leggere i testi assiro-babilonesi, perché questo sarebbe l’argomento di un libro diverso, ma bisogna almeno ricordare una data fondamentale di questa storia.
Il 25 maggio 1857 è tradizionalmente considerato, all’interno degli studi sul mondo antico mesopotamico che si espresse in grafia cuneiforme, la data di nascita dell’assiriologia, la scienza che studia la tradizione antica scritta in cuneiforme di quest’area mediorientale. La ragione di una data così precisa è presto detta. Al fine di dirimere la questione se il cuneiforme fosse stato decifrato, o fosse in via di esserlo, come affermavano alcuni, oppure se esistessero ancora dubbi e interpretazioni tanto differenti nelle traduzioni dei testi da impedire di parlare della nascita di una nuova “scienza” filologica, come invece dicevano altri, la britannica Royal Asiatic Society decise di fare un esperimento che chiarisse definitivamente la situazione. Assegnò a quattro studiosi internazionali un testo che era stato appena ritrovato nelle rovine dell’antica città di Assur affinché lo traducessero e studiassero, senza però potersi consultare gli uni con gli altri: in seguito le buste sigillate con le traduzioni sarebbero state aperte in seduta plenaria e confrontate tra loro per confermare o meno la realtà della decifrazione. Era chiaro che se le traduzioni del testo fossero state simili tanto da poter essere comparate, allora si sarebbe potuto parlare di decifrazione compiuta e dell’assiriologia come ultima scienza filologica dell’Occidente. I quattro studiosi contattati per questo particolare esperimento erano gli inglesi Henry Rawlinson (1810-1895), uno dei primi e più illustri esperti di cuneiforme del British Museum, e William Henry Fox Talbot (1800-1877), l’irlandese reverendo Edward Hincks (1792-1866) e il franco-tedesco Jules Oppert (1825-1905) – di costoro riparleremo anche a proposito della ricostruzione della lingua sumerica.
Ebbene, riassumendo quanto è ricordato nel volumetto che venne stampato dalla Royal Asiatic Society di Londra a memoria dell’evento, gli esaminatori attestarono che le coincidenze fra le traduzioni erano davvero notevoli, sia per quanto riguarda il senso generale che la resa specifica delle singole frasi. Nella maggior parte dei casi c’era una forte corrispondenza nel significato proposto, e occasionalmente anche un’evidente identità di espressione rispetto a parole particolari. Nei casi in cui versioni differivano significativamente tra loro, spesso ogni traduttore aveva segnato il passaggio come dubbio o non chiaro; infine, nell’interpretazione dei numeri c’era una corrispondenza quasi univoca. Insomma, seguendo la conclusione che si legge nel verdetto emesso, le somiglianze nella traduzione erano talmente precise da rendere irragionevole supporre che l’interpretazione potesse essere casuale, considerata arbitraria o fondata su basi incerte. Era nata una scienza, e poiché il testo dato in traduzione proveniva da Assur e apparteneva, per la cronaca, al sovrano Tiglath-pileser I (1114-1076 a.C.), essa fu chiamata assiriologia.
Ma ben presto ci si accorse che nel mondo che i testi assiro-babilonesi raccontavano ai filologi si nascondeva una realtà più arcaica che ne era alle fondamenta grafiche, linguistiche e culturali, misteriosa ed evanescente...
Una nuova lingua, un nuovo popolo
Il sistema grafico di fronte al quale si trovarono i decifratori, infatti, aveva una caratteristica assai peculiare. I segni cuneiformi potevano essere utilizzati allo stesso tempo sia come sillabogrammi per il loro valore fonetico, che come ideogrammi a indicare da soli una parola specifica. Per citare un esempio, al fine di esprimere la parola “cane”, in assiro-babilonese kalbum, i babilonesi e gli assiri potevano usare quattro segni come sillabe, ka-al-bu-um, oppure scrivere un unico segno che da solo indicava la parola “cane”, nel caso specifico il segno che aveva lettura u r (maggiori dettagli sulla struttura del sistema cuneiforme sumerico si ritroveranno nel capitolo 2).
Questa caratteristica rendeva assai complessa l’identificazione dei nomi di persona (antroponimi), i quali, quando si decifra una lingua scritta in una grafia ignota sulla base di un testo noto, sono ciò che si cerca di individuare prima di ogni altra cosa: si tratta, infatti, di realtà linguistiche che teoricamente non mutano in modo eccessivo e dovrebbero essere in genere chiaramente riconoscibili, permettendo così di ricostruire il suono di segni ignoti. Si osservi che nel mondo antico mesopotamico gli antroponimi hanno sempre un significato trasparente e chiaro, che spesso rappresenta una frase giaculatoria o un’esortazione. Dunque, così come una parola poteva essere resa usando i segni come sillabogrammi o come ideogrammi, così anche uno stesso antroponimo poteva essere scritto in modi diversi. Per esempio Nabû-kudurrī-uṣur, nome babilonese del biblico Nabucodonosor (Nebuchadnezzar) II (604-561 a.C.), che significa in babilonese “O dio Nabû, proteggi la mia progenie!”, il quale poteva essere scritto in molti differenti modi, tra i quali:
Nabû
kudurrī
uṣur
dNa-bu-u2
ku-dur2-ri
u2-ṣu-ur
d
niĝ2-du
šeš
Il piccolo segno “d” in apice davanti al nome del dio Nabû è il suono iniziale del termine sumerico “diĝir”: questo segno, detto classificatore o determinativo, viene utilizzato nella grafia cuneiforme per indicare che ciò che segue è il nome di un dio; il segno /ĝ/ si legge /ng/ come nell’italiano “stanga”; la ragione del numero in pedice in taluni segni, che si legge semplicemente come il numero cardinale corrispondente (es. “u due”, “dur due” ecc.), viene spiegata nel capitolo secondo.
Si noti che ogni parte del nome può essere scritta in ciascuno dei modi presentati (e altri ancora), cosa che rendeva la procedura della decifrazione molto laboriosa. In sintesi, uno scriba babilonese o assiro poteva usare indistintamente una grafia completamente fonetico-sillabica (es. dNa-bu-u2-ku-dur2-ri-u2-ṣur ed eventuali varianti) oppure una del tutto ideografico-logografica (dAĝ-niĝ2-du-šeš) per esprimere lo stesso nome.
Ma a questo punto sorse spontanea una considerazione ai decifratori, che li obbligò a dubitare dell’origine babilonese di quel sistema grafico. Infatti, se chi aveva inventato la scrittura fosse stato di ceppo semitico, come appunto erano i Babilonesi e gli Assiri, i valori ideografici dati ai segni sarebbero dovuti essere simili, o almeno vicini, ai suoni delle rispettive parole usate in quel gruppo linguistico. In altre parole, e dall’altro punto di vista, era impossibile che l’inventore del sistema grafico cuneiforme parlasse una lingua semitica, perché in nessuna lingua di questo ceppo “cane” si dice ur, “progenie” appare come niĝ2-du o “proteggere” suona šeš: chi aveva dato il nome ai segni non era stato un semita (pare che il primo a formulare questa ipotesi sia stato Edward Hincks).
I Sumeri cominciavano a fare capolino attraverso i testi assiro-babilonesi e l’Occidente era pronto ad accoglierli. Mentre si rimanda al capitolo 2 per una descrizione generale del sistema grafico cuneiforme e della lingua che questo veicolava, seguiamo ora quello che accadde in Europa dopo questa inaspettata e affascinante scoperta.
E finalmente i Sumeri!
Per comprendere quale fu la reazione dell’intellighencija europea all’apparire sulla rib...

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