Filosofia contemporanea
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Filosofia contemporanea

Questioni e risposte nelle parole dei filosofi

Maurizio Pancaldi, Mario Trombino, Maurizio Villani

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Questioni e risposte nelle parole dei filosofi

Maurizio Pancaldi, Mario Trombino, Maurizio Villani

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I filosofi del Novecento e dei nostri giorni senza interpretazioni e apparati, ma in presa diretta attraverso i loro scritti e le loro parole.Weber - Freud - Croce - Gentile - Peirce - James - Dewey - Blondel - Bergson - Maritain - Husserl - Frege - Russell - Gödel - Poincaré - Wittgenstein - Popper - Kuhn - Feyerabend - Heidegger - Jaspers - Sartre - Gadamer - Ricoeur - Lukács - Gramsci - Horkheimer - Adorno - Marcuse - Benjamin - Chomsky - Barthes - Foucault - Perelman - McLuhan - Arendt - Rawls - Irigaray - Jonas - Lecaldano - Barth - Bultmann - Rahner - Wiener - Turing - Von Neumann - Searle.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2013
ISBN
9788820360320

Capitolo

1

Scienze dell’uomo

Nell’Ottocento il positivismo sottrae alla filosofia lo studio del mondo
umano, la cui conoscenza passa dall’ambito metafisico a quello della ragione
scientifica: nascono la psicologia sperimentale, la sociologia, l’antropologia
culturale. Tuttavia nella cultura tedesca, memore della lezione degli storicisti
e dei neokantiani, si afferma la tesi che il metodo delle scienze della natura
(finalizzato alla formulazione di leggi necessarie) sia inapplicabile alle
scienze storico-sociali, che indagano l’agire di soggetti liberi. La sociologia
comprendente di Weber è il risultato di questa consapevolezza critica.
Una svolta antropologica radicale si ha con la scoperta freudiana
dell’inconscio: l’io come soggetto razionale si dissolve ed è reinterpretato
all’interno di dinamiche pulsionali, di natura prevalentemente erotica,
che sfuggono in gran parte al controllo della coscienza.
WEBER, Il metodo delle scienze storico-sociali
CONOSCERE SIGNIFICA VALUTARE, OPPURE CONOSCERE QUALCOSA E DARNE UNA VALUTAZIONE SONO DUE OPERAZIONI DELLO SPIRITO DA TENERE DISTINTE?
Tra le scienze dello spirito che all’inizio del Novecento furono oggetto di particolare attenzione ci fu la sociologia, anche per ragioni pratiche: stava nascendo la moderna società di massa e l’obiettivo di governarne le dinamiche appariva sempre più complesso, soprattutto perché una molteplicità di nuovi attori sociali stavano facendo il loro ingresso nella vita collettiva (nuove classi sociali, per esempio, ma anche partiti politici di massa, sindacati e così via). Occorrevano strumenti di analisi raffinati che consentissero di interpretare, e quindi comprendere i movimenti in atto. Weber ritenne che l’obiettivo della sociologia fosse identificare modelli teorici entro i quali inquadrare i fenomeni sociali e diede loro il nome di “tipi ideali”. Escluse che compito della scienza fosse darne una valutazione in nome di qualche valore: si trattava invece di comprenderli, di elaborarne una descrizione teorica e di imparare a seguirne sia le dinamiche che le regole.
L’etica e la politica, non la sociologia, sono la sede della valutazione.
Non la scienza. E la sociologia è una scienza (dello spirito).
[Il compito della sociologia comprendente]
L’atteggiamento umano («esterno» o «interno») mostra nel suo corso connessioni e regolarità, al pari di ogni divenire. Ciò che però, almeno in senso pieno, è proprio soltanto dell’atteggiamento umano, sono connessioni e regolarità il cui corso possa essere interpretato con l’intendere. Una «comprensione» dell’atteggiamento umano, conseguita mediante l’interpretazione, comporta anzitutto una specifica «evidenza» qualitativa, di grado assai differente. Che un’interpretazione possegga tale evidenza in misura particolarmente elevata non prova di per sé ancora nulla intorno alla sua validità empirica. Infatti un comportamento eguale nel suo corso esterno e nel suo risultato può poggiare su costellazioni di motivi quanto mai diverse tra loro, di cui la più evidente per la comprensione non sempre è anche quella realmente in gioco. L’«intendere» rivolto a una certa connessione deve piuttosto essere sempre controllato, per quanto è possibile, con i mezzi del resto consueti dell’imputazione causale, prima che un’interpretazione anche assai evidente divenga una «spiegazione intelligibile» valida. La misura maggiore di evidenza è posseduta dall’interpretazione razionale rispetto allo scopo. Per comportamento razionale rispetto allo scopo si deve intendere un comportamento che sia orientato esclusivamente in vista di mezzi concepiti (soggettivamente) come adeguati per scopi intesi (soggettivamente) in modo univoco. Non già che soltanto l’agire razionale rispetto allo scopo sia per noi intelligibile: noi «intendiamo» anche il corso tipico degli affetti e le loro conseguenze tipiche per l’atteggiamento. […]
L’evidenza specifica del comportamento razionale rispetto allo scopo non ha naturalmente come conseguenza che l’interpretazione razionale debba essere considerata, in modo particolare, come fine della spiegazione sociologica… Il comportamento interpretabile razionalmente rappresenta piuttosto molto spesso il «tipo ideale» più appropriato per l’analisi sociologica di connessioni intelligibili. La sociologia, al pari della storia, procede anzitutto a un’interpretazione «pragmatica», in base a connessioni razionalmente intelligibili dell’agire.
La sociologia elabora… concetti di tipi e cerca regole generali del divenire, in antitesi alla storia, la quale mira all’analisi causale e all’imputazione di azioni, di formazioni, di personalità individuali che rivestono un’importanza culturale. L’elaborazione concettuale della sociologia trae il suo materiale – in forma di modelli – essenzialmente, anche se non esclusivamente, dalle realtà dell’agire che sono rilevanti pure dal punto di vista della ricerca storica. Essa forma infatti i suoi concetti e va in cerca di regole soprattutto anche in base alla prospettiva che essi possono, per tale motivo, rivestire in vista dell’imputazione storico-causale dei fenomeni di importanza culturale. Come avviene nel caso di ogni scienza generalizzante, il carattere specifico delle sue astrazioni fa sì che i suoi concetti debbano essere relativamente vuoti di contenuto rispetto alla realtà concreta del processo storico. Ciò che essa può offrire in compenso è l’accresciuta univocità dei concetti; e questa viene conseguita in virtù del grado massimo di adeguazione di senso, al quale tende l’elaborazione concettuale della sociologia. Ciò vuol dire che la massima univocità può essere raggiunta con particolare compiutezza nel caso – che abbiamo finora prevalentemente considerato – di concetti e di regole razionali (razionali rispetto al valore o razionali rispetto allo scopo). Ma la sociologia cerca di formulare in concetti teorici, e cioè adeguati nel loro senso, anche i fenomeni irrazionali (e cioè mistici, profetici, pneumatici, affettivi). In tutti i casi, sia di fenomeni razionali sia di fenomeni irrazionali, essa si distacca dalla realtà e serve alla conoscenza di questa in quanto, indicando la misura dell’avvicinamento di un fenomeno storico a uno o a più di tali concetti, consente di comprenderlo in un ordine. Per esempio, il medesimo fenomeno storico può configurarsi in una parte dei suoi elementi come «feudale», in un’altra come «patrimoniale», in un’altra ancora come «burocratico» oppure come «carismatico». Affinché questi termini possano designare qualcosa di univoco la sociologia deve, da parte sua, formulare tipi «puri» (cioè tipi ideali) di formazioni di quel genere, le quali mostrano in sé l’unità coerente della più completa adeguazione di senso, ma appunto perciò non si presentano, in questa forma idealmente pura, nella realtà… Soltanto muovendo dal tipo puro (cioè dal tipo «ideale») è possibile una casistica sociologica.
La capacità di realizzare la distinzione tra il conoscere e il valutare, cioè tra l’adempimento del dovere scientifico di vedere la realtà dei fatti e l’adempimento del dovere pratico di difendere i propri ideali – questo è il principio al quale dobbiamo attenerci più saldamente.
In ogni epoca c’è e rimarrà sempre – questo è ciò che ci interessa – una differenza insormontabile tra un’argomentazione la quale si diriga al nostro sentimento e alla nostra capacità di entusiasmarci per fini pratici concreti o per forme e contenuti culturali, oppure anche alla nostra coscienza – nel caso in cui sia in questione la validità di norme etiche – e un’argomentazione la quale si rivolga invece alla nostra capacità e al nostro bisogno di ordinare concettualmente la realtà empirica, in maniera da pretendere una validità di verità empirica. E questa proposizione rimane corretta nonostante che quei «valori» supremi che stanno a base dell’interesse pratico siano e restino sempre di decisiva importanza, come si porrà ancora in luce, per la direzione che l’attività ordinatrice del pensiero assume ogni volta nel campo delle scienze della cultura.
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Max Weber (Erfurt 1864 - Monaco 1920) ha scritto i due brani citati in due saggi pubblicati rispettivamente nel 1913 (Über einige Kategorien der verstehenden Soziologie) e nel volume, uscito postumo nel 1922, Wirtschaft und Gesellschaft.
I testi riportati sono tratti da: La metodologia delle scienze storico-sociali. Weber, in Lo storicismo contemporaneo, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1969, pp. 129-131.
FREUD, L’inconscio
POICHÉ LA COSCIENZA UMANA HA ZONE OSCURE, È BEN FONDATA L’IPOTESI DELL’ESISTENZA DI UN INCONSCIO?
Nella storia della filosofia è spesso comparsa l’ipotesi che nella psiche dell’uomo vi siano elementi che sfuggono alla coscienza in modo integrale o parziale. Per esempio Leibniz ha introdotto la nozione di “piccole percezioni” per indicare alcune percezioni intuitive, l’atto della mente con cui intuiamo qualcosa ma non siamo ben coscienti dei processi che ci hanno portato ad avere proprio quella determinata intuizione e non altre.
Anche nell’idealismo, per esempio in Schelling, compare una nozione di spirito non cosciente, a proposito della natura (alla quale apparteniamo) e Nietzsche, pochi anni prima di Freud, è andato alla ricerca delle radici nascoste (alla coscienza) delle convinzioni, dei valori, delle “verità” in cui crediamo. Concezioni di questo tipo compaiono anche in Schopenhauer. La psicoanalisi nasce quando Freud elabora in modo compiuto l’ipotesi che la maggior parte della vita cosciente dell’uomo dipenda da pulsioni che rimangono del tutto nascoste alla coscienza, e tuttavia ritiene che sia possibile indagare in questa sfera della psiche. La pratica psicoanalitica ha innanzitutto questo obiettivo: far riemergere dall’inconscio ciò che è al di là della coscienza, acquisendo così la possibilità di dare una più completa interpretazione della psiche umana nel suo complesso.
Il diritto di ammettere l’esistenza di una psiche inconscia e di lavorare scientificamente in base a questa ipotesi ci viene contestato da più parti. A nostra volta possiamo replicare che l’ipotesi è necessaria e legittima, e che abbiamo parecchie prove dell’esistenza dell’inconscio.
Tale ipotesi è necessaria perché i dati della coscienza sono molto lacunosi; nei sani non meno che nei malati si verificano spesso atti psichici che possono essere spiegati solo presupponendo altri atti che non sono invece testimoniati dalla coscienza. Atti del genere non sono solo le azioni mancate e i sogni delle persone sane, o tutto ciò che nei malati rientra nella denominazione di sintomo psichico e manifestazione ossessiva; la nostra più personale esperienza quotidiana ci fa costatare l’esistenza tanto di idee improvvise di cui non conosciamo l’origine quanto di risultati intellettuali la cui elaborazione ci è rimasta oscura.
Tutti questi atti coscienti restano slegati e incomprensibili se ci ostiniamo a pretendere che ogni atto psichico che compare in noi debba essere sperimentato dalla coscienza; mentre si organizzano in una connessione ostensibile se li interpoliamo con gli atti inconsci di cui abbiamo ammesso l’esistenza. Ma guadagnare in significato e in connessione è una ragione perfettamente legittima per andare al di là dell’esperienza immediata. Se poi risulterà altresì che l’ipotesi dell’inconscio ci consente di costruire un efficace procedimento con cui influenzare utilmente il decorso dei processi consci, tale successo costituirà un’inoppugnabile testimonianza della validità di quel che abbiamo assunto. Stando così le cose, dobbiamo ritenere che, se si esige che tutto ciò che accade nella psiche debba per forza esser noto alla coscienza, si avanza in effetti una pretesa insostenibile.
Si può andare più in là, e corroborare la tesi dell’esistenza di uno stato psichico inconscio osservando come in ciascun momento la coscienza comprenda solo un contenuto assai limitato, talché la massima parte di quello che chiamiamo sapere cosciente deve comunque trovarsi per lunghissimi periodi di tempo in uno stato di latenza, e cioè di inconsapevolezza psichica. Se si considerano tutti i nostri ricordi latenti, il fatto che sia contestata l’esistenza dell’inconscio diventa assolutamente incomprensibile.
Ma a questo proposito ci viene obiettato che tali ricordi latenti non vanno più definiti come alcunché di psichico, ma corrispondono invece ai residui di processi somatici dai quali può nuovamente venir fuori lo psichico. Sarebbe facile ribattere che al contrario il ricordo latente è l’inequivocabile sedimento di un processo psichico. Ma è più importante rendersi conto che l’obiezione si basa sull’equiparazione – non dichiarata, e tuttavia assunta a priori – dello psichico con il cosciente. Questa equiparazione o è una petitio principii, la quale non ammette che venga posto il problema se tutto ciò che è psichico debba anche essere cosciente, oppure si tratta di una convenzione, di una faccenda terminologica. In questo secondo caso è ovviamente inoppugnabile, come ogni altra convenzione. Resta solo da domandarsi se essa sia davvero così opportuna da dover essere adottata per forza. Possiamo rispondere che l’equiparazione convenzionale dello psichico con il cosciente è assolutamente inopportuna. Lacera le continuità psichiche, ci irretisce nelle insolubili difficoltà del parallelismo psicofisico, è soggetta all’obiezione di sopravvalutare la funzione della coscienza senza alcuna ragione plausibile, e ci costringe ad abbandonare prematuramente il terreno della ricerca psicologica senza essere in grado di portarci un risarcimento a partire da altri ambiti di indagine. […]
Ma la postulazione dell’inconscio è anche pienamente legittima giacché, adottando tale ipotesi, non ci discostiamo di un passo dal nostro abituale modo di pensare […]. La coscienza trasmette a tutti noi soltanto la nozione dei nostri personali stati d’animo; che anche altre persone abbiano una coscienza, è una conclusione analogica che, in base alle azioni e manifestazioni osservabili degli altri, ci permette di farci una ragione del loro comportamento. […]
Nella psicoanalisi non abbiamo altra scelta: dobbiamo dichiarare che i processi psichici in quanto tali sono inconsci e paragonare la loro percezione da parte della coscienza con la percezione del mondo esterno da parte degli organi di senso. Nutriamo addirittura la speranza che questo confronto giovi allo sviluppo delle nostre conoscenze. L’ipotesi psicoanalitica di un’attività psichica inconscia ci appare, da un lato, come un ulteriore sviluppo dell’animismo primitivo che ci induceva a ravvisare per ogni dove immagini speculari della nostra stessa coscienza, e d’altro lato come la prosecuzione della rettifica operata da Kant a proposito delle nostre vedute sulla percezione esterna. Come Kant ci ha messo in guardia contro il duplice errore di trascurare il condizionamento soggettivo della nostra percezione e di identificare quest’ultima con il suo oggetto inconoscibile, così la psicoanalisi ci avverte che non è lecito porre la percezione della coscienza al posto del processo psichico inconscio che ne è l’oggetto. Allo stesso modo della realtà fisica, anche la realtà psichica non è necessariamente tale quale ci appare. Saremo tuttavia lieti di apprendere che l’opera di rettifica della percezione interna presenta difficoltà minori di quella della percezione esterna, che l’oggetto interno è meno inconoscibile del mondo esterno.
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Sigmund Freud (Freiberg in Moravia 1856 - Londra 1939) scrisse L’inconscio nel 1915.
Il testo riportato è tratto da: S. Freud, L’inconscio, in Opere, vol. VIII, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1966, pp. 49-53.
FREUD, Compendio di psicoanalisi
SE LA PSICHE UMANA NON È INTERAMENTE SOTTO IL CONTROLLO DELLA COSCIENZA, È POSSIBILE SCOPRIRE QUAL È LA SUA STRUTTURA?
La risposta alla domanda che abbiamo posto sarebbe naturalmente negativa se non avessimo la possibilità di studiare le manifestazioni dell’inconscio nella sfera della coscienza. È infatti del tutto escluso che l’io cosciente possa penetrare direttamente nella sfera dell’inconscio. Tutto quello che si può fare è interpretare i segni con cui esso “parla”, per esempio attravers...

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