Oltre il cielo
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Oltre il cielo

Incontri straordinari con esploratori della Luna e dello spazio

Giovanni Caprara

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Oltre il cielo

Incontri straordinari con esploratori della Luna e dello spazio

Giovanni Caprara

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Nel 1969 i primi due uomini mettevano piede su un altro corpo celeste, la Luna. Era un passo storico che segnava il ventesimo secolo, esprimendo il lato buono dell'umanità in un periodo tormentato da grandi tragedie. Dopo cinque decenni ci si sta preparando al ritorno sulle sabbie seleniche, ma adesso per rimanerci costruendo una colonia dove gli esploratori del cosmo potranno vivere e lavorare. Gli uomini e le donne che hanno avuto l'intelligenza e l'ardire di affrontare l'uscita dalla Terra, volando oltre il cielo, sono i protagonisti di questo libro. Assieme ci sono coloro che hanno pensato e costruito i mezzi per affrontare le ardue sfide nelle quali spesso era in gioco la vita. Tutti parlano e raccontano direttamente le loro storie in queste interviste frutto di incontri straordinari avvenuti nei luoghi dove le imprese dello spazio si inventavano, prendevano forma o si controllavano. Il libro è una storia dello spazio raccontata dalla voce dei personaggi che l'hanno realizzata. Ed è stato meraviglioso ascoltare la passione, l'entusiasmo, la visione che animavano le loro parole spesso intrise da una sorprendente umiltà. Testimonianze preziose, che ci portano nel futuro volando dalla fantascienza alla realtà.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2019
ISBN
9788820391010
Dall’Italia alle stelle
46.
Bruno Rossi:
«Nel mistero dei raggi cosmici»
21 MAGGIO 1985
Bruno Rossi era l’uomo che aveva sciolto uno dei più enigmatici misteri del cosmo, quello dei raggi cosmici. Arrivava a Milano nel 1985 dal Massachusetts Institute of Technology di Cambridge, vicino a Boston (Usa), per parlare delle sue straordinarie scoperte nel campo dei raggi cosmici e dell’astronomia dei raggi X nell’ambito delle conferenze “Frontiere” organizzate dal Progetto Cultura della Montedison. Nella stanza ovattata del Grand Hotel Principe di Savoia ci racconta, quasi a bassa voce con un accento veneto mai cancellato, la sua vita difficile e meravigliosa al tempo stesso che lo portava a condividere le ricerche della fisica e della scienza del cielo con i più importanti scienziati del momento. E anche grandi progetti come il Progetto Manhattan, a Los Alamos, per la costruzione della bomba atomica. È una vita di scienza, il privato ha poche parole.
La storia di Bruno Rossi, scienziato, incomincia con un articolo letto su una rivista tedesca. Ne era autore il fisico Bothe e in esso si raccontava di alcuni studi riguardanti uno dei misteri più affascinanti dell’astrofisica, vale a dire l’esistenza dei raggi cosmici provenienti dallo spazio che bombardano in continuazione la nostra Terra e gli altri pianeti. Bothe apre con il suo scritto uno spiraglio nel mistero e tenta di mettere in luce la natura dei raggi che, si pensava, data la loro elevata capacità di penetrazione, fossero dei raggi gamma a elevata energia.
«L’esperienza dello studioso tedesco fu assolutamente affascinante – dice Rossi con un sorriso negli occhi che si riaccende man mano che tornano alla memoria i volti e i fatti della sua storia –, Bothe dimostrò che non si trattava di raggi gamma. L’articolo mi appassionò e mi spinse a iniziare delle ricerche in questo campo. In quel momento ero a Firenze, ad Arcetri, e lavoravo come assistente all’Istituto di fisica.»
L’anno era il 1928 e Bruno Rossi era un giovanissimo scienziato di 23 anni, nato a Venezia nel 1905, da poco laureato all’Università di Bologna. Anche il mistero dei raggi cosmici aveva la sua origine agli inizi del secolo e come spesso succede nelle vicende della scienza la sua esistenza venne scoperta per caso in un mattino d’agosto del 1912. Il fisico tedesco Victor Hess stava compiendo un’ascensione con un pallone aerostatico nel cielo della cittadina di Aussing, in Austria. Nella navicella appesa ai fili c’erano tre elettroscopi di solito usati in laboratorio per rilevare le radiazioni emesse dal radio. Durante il volo gli apparati riescono a testimoniare «che una radiazione di alto potere penetrante entra dall’alto della nostra atmosfera», come scriverà più tardi lo stesso Hess.
Ma gli anni passano senza spiegazioni sufficienti per l’inaspettata e invisibile pioggia spaziale. «Entusiasmato dall’articolo – continua Rossi – costruii uno strumento formato da due contatori Geiger-Müller messi uno sopra l’altro alla distanza di un metro e con in mezzo una lastra di piombo. Inoltre, sviluppai un sistema elettronico per registrare i raggi incidenti. Alla fine avevo in mano un potente apparato di indagine che offriva preziosi dati sperimentali. Contatori e lastra di piombo venivano attraversati dai raggi cosmici. Che ciò potesse accadere era inconcepibile e dovetti faticare non poco nel convincere gli altri scienziati che non avevo fatto qualche sbaglio.»
«Dopo quasi tre anni trascorsi in questi studi – prosegue Rossi – nell’estate del 1930 andai in Germania per alcuni mesi a lavorare con Bothe nel suo laboratorio vicino a Berlino. Con i dati a disposizione riuscii a ottenere due buoni risultati. Innanzitutto dimostrai che verso Ovest si poteva rilevare una maggiore intensità nei raggi cosmici e inoltre che essi erano carichi positivamente. Così nei primi anni Trenta riuscimmo a descrivere le caratteristiche della radiazione ma non si era riusciti a spiegare da che cosa fosse formata. Negli anni successivi ci si accorse che i raggi cosmici contengono delle particelle mai osservate prima come il mesone mu allora chiamato mesotrone. Alla sua scoperta io, in qualche modo, partecipai.»
A questo punto la storia umana e scientifica di Rossi subisce un profondo cambiamento. Il professore insegnava allora all’Università di Padova dove era arrivato nel 1932. «Coinvolto dalle leggi razziali emanate dal regime ricevo una lettera con la quale venivo esonerato dal servizio», ricorda lo studioso. «Decisi allora di abbandonare l’Italia e in questa scelta ebbe molta parte anche mia moglie Nora.»
Così inizia nel 1938 per lo scienziato un mesto ma prezioso pellegrinaggio. Prima a Copenhagen con Niels Bohr, poi a Manchester con Patrick Blackett e infine a Chicago con Arthur Compton. In compenso egli ha la possibilità di lavorare con tre giganti della storia della fisica. L’incertezza, tuttavia, termina nel 1940 quando diventa professore alla Cornell University di Ithaca nello Stato di New York. Il nuovo corso nella vita di Bruno Rossi ha così inizio. In famiglia arriva la prima figlia, Florence, e all’università avvia nuove ricerche per calcolare esattamente la vita media del mesone mu.
«Costruii un cronometro elettronico ad alta precisione con il quale misuravo l’intervallo tra l’arrivo del mesone mu e l’emissione dell’elettrone che significava la disintegrazione del mesone stesso. Ottenni dei risultati con un ridottissimo margine d’errore pari a quelli che molti anni dopo avrebbero conseguito i grandi acceleratori di particelle.»
Ma è tempo di guerra. «Agli inizi del luglio ‘43 Hans Bethe mi porta l’invito per unirmi al gruppo che a Los Alamos avrebbe costruito la bomba atomica. Ebbi un periodo di grande incertezza. Ma ancora una volta mia moglie mi fu d’aiuto nel riuscire a prendere una decisione. Se la Germania avesse avuto il terribile ordigno per prima, le conseguenze sarebbero state drammatiche. Accettai, quindi, e partii per lavorare al progetto Manhattan. Più tardi arrivò anche Enrico Fermi e così gli italiani presenti erano tre, essendoci anche Emilio Segrè. Tra le baracche apposta costruite a Los Alamos, nella desolata zona del New Mexico, la vita non era poi così difficile come qualcuno ha descritto. È vero che c’era il problema della polvere, di una certa scarsità d’acqua, ma se si pensa che altrove c’era la guerra la nostra condizione non poteva essere così detestabile. E poi c’era la possibilità di lavorare con i migliori cervelli della fisica di quel momento. Certo, questa concentrazione di uomini ad alto livello non era facile da amministrare ma devo dire che Robert Oppenheimer era bravissimo nel governare la grande impresa.»
«L’attività a Los Alamos era estremamente complessa e vasta ma Oppenheimer sapeva in ogni momento ciò che succedeva nelle diverse ricerche ed era in grado di dare consigli utili. E tutto funzionava sempre al meglio nonostante che come uomo fosse un po’ strano e che non fosse facile capirlo. Ma era un grandissimo scienziato e tutti lo ammiravano. Tranne ovviamente qualche eccezione come Teller che poi diventerà suo accusatore. Io ero in ottimi rapporti con Oppenheimer, tanto che quando andò all’Università di Princeton mi chiese di andare con lui. Ma i rapporti non erano mai semplici. A Los Alamos le mie ricerche riguardavano soprattutto due problemi: il primo era chiamato dell’implosione, il secondo era legato alla misura del tempo di reazione durante l’aumento di un’emissione radioattiva. Nel 1945 il lavoro terminò e nel febbraio dell’anno successivo me ne andai a Cambridge, al Mit dove sono tuttora.»
«Negli anni successivi – racconta Rossi – mi occupai di particelle elementari ma nello stesso tempo mi ero posto il problema di misurare lo spettro d’energia della radiazione cosmica che ancora non si conosceva. Avevamo solo il sospetto che esso si estendesse sino alle grandi energie e ciò serviva già a distinguerla dalle altre forme di radiazione. Alla questione lavorò anche Livio Scarsi. Ma dal momento che i raggi cosmici non si potevano osservare direttamente le difficoltà erano notevoli. Quando entrano nell’atmosfera, infatti, i raggi cosmici per una sequela di interazioni elettromagnetiche e nucleari provocano degli sciami di particelle che nei casi estremi osservati sono arrivati a contenerne sino a 10 miliardi e tutte distribuite su chilometri quadrati di superficie. Livio Scarsi, quindi, andò nel New Mexico dove era stato costruito un rilevatore del diametro di quasi 2 chilometri. Alla fine riuscimmo a stabilire che l’energia arrivava sino a 100 miliardi di miliardi di elettronvolt; un’enorme energia, dunque.»
«Negli anni Cinquanta – prosegue Rossi – vengono costruiti i primi acceleratori di particelle e gli scienziati che si occupano di raggi cosmici entrano in crisi. Le stesse particelle generate dall’impatto dei raggi cosmici con l’atmosfera vengono ora fabbricate nelle nuove macchine dove è più facile studiarle. Quindi, alcuni ricercatori scelgono questa strada mentre altri spostano il loro interesse al campo dell’astrofisica. Io stesso incominciai a occuparmi di indagini diverse ma sempre legate al cosmo.»
In conclusione, quindi, quali risultati si sono ottenuti attraverso lo studio dei raggi cosmici?
«Essenzialmente due. Come dicevo – risponde Rossi – è stato possibile scoprire nuove particelle e in astrofisica si è posto il problema dell’esistenza di corpi celesti che emettono questa radiazione a elevatissima energia.»
Dai nuovi interessi di Bruno Rossi nasce il campo dell’astronomia a raggi X, suggerendo al giovane fisico Riccardo Giacconi di compiere esperimenti su questa nuova frontiera. Giacconi si mette al lavoro, costruisce dei rivelatori adeguati ed effettua con dei razzi sonda nel New Mexico le prime osservazioni. E così scopre la prima sorgente X nel cosmo e dietro di lui c’è, appunto, la presenza di Bruno Rossi che Giacconi definisce scherzosamente “il mio nonno scientifico”.
Lo “scienziato dei raggi cosmici” è professore emerito al Mit e dopo la prima figlia nata a Ithaca un’altra è arrivata a Los Alamos e una terza a Cambridge. E i maestri di Bruno Rossi chi erano?
«Ho avuto un solo buon insegnante di fisica; si chiamava Brunetti ed era una donna. In matematica, invece, sono stato più fortunato e tra i miei docenti avevo grandi matematici come Pincherle e Ricci-Curbastro. Questo a Padova, dove incominciai i corsi di ingegneria ma poi cambiai andando a fisica accorgendomi che mi interessava molto di più. Quando mi trasferii all’Università di Bologna ebbi come professore Quirino Majorana, un fisico allora di notevole fama. Invece fu per me una grande delusione: passò tutta la sua vita a dimostrare che la teoria della relatività di Einstein era sbagliata. Naturalmente non ci riuscì.»
Bruno Rossi, diventato cittadino americano, tornava in Italia nel 1974 per insegnare fisica generale all’Università di Palermo. Vi rimarrà per sei anni rientrando poi negli Stati Uniti dove il 21 novembre 1993 cesserà di vivere per arresto cardiaco nella sua casa di Cambridge, vicino a Boston. Le sue ceneri riposano nel cimitero della chiesa di San Miniato al Monte, a Firenze, davanti alla collina di Arcetri dove aveva iniziato la sua storia di scienziato. Lascerà traccia della sua straordinaria vita nell’autobiografia Moment in the Life of a Scientist, pubblicato da Cambridge University Press, mentre per ricordare la sua figura e le sue scoperte l’American Astronomical Society nel 1985 istituiva il Bruno Rossi Prize che ogni anno viene assegnato a un ricercatore che nel mondo contribuisce con le sue scoperte all’avanzamento della fisica delle alte energie.
47.
Riccardo Giacconi:
«La scoperta del cielo a raggi X»
19 MARZO 1985
Nella penombra di un albergo milanese aspettiamo Riccardo Giacconi. Arriva dagli Stati Uniti dove abita, ormai, da trent’anni. Quattro anni fa, nel 1981, dopo un’accesa selezione tra i cervelli che in America avrebbero potuto dirigere con successo quella che alcuni scienziati hanno definito la più grande impresa astronomica finora realizzata, scelgono lui, Riccardo Giacconi, professore di astronomia all’Harvard University di Cambridge. E così egli diventa il direttore dello Space Telescope Science Institute, un’istituzione creata a Baltimora per gestire le ricerche che saranno condotte con lo “space telescope”, il telescopio spaziale che la Nasa porterà in orbita con la navetta verso la fine dell’anno prossimo. Ormai, per la grande impresa, si respira aria di vigilia. In California nelle camere pulite della Lockeed Missiles and Space i tecnici stanno già dando forma alla preziosa macchina che una volta completata avrà l’aspetto di un poderoso cilindro lungo 13 metri, largo poco più di 4 e pesante 11 tonnellate. Al suo interno è nascosto uno specchio di 240 centimetri di diametro: esso raccoglierà immagini sconosciute dell’universo perché quest’occhio-robotizzato, al di fuori della maschera atmosferica che ricopre la Terra, può spingere lo sguardo in luoghi lontanissimi e inesplorati. E tale possibilità lo farà rassomigliare a una macchina del tempo.
Infatti, osservare più lontano nello spazio significa raccogliere quei segni luminosi emessi in epoche remote e non ancora giunti sino a noi per l’immensa distanza che ci separa, anche se la luce viaggia alla velocità di 300 mila chilometri al secondo. Ecco perché con il telescopio spaziale vedremo mondi in formazione che potrebbero anche non esistere più.
«Dal 1984, quando venne costruito l’osservatorio di Monte Palomar che rimane il più grande in funzione perché quello sovietico realizzato dopo con dimensioni maggiori ha sempre avuto dei problemi, il telescopio spaziale rappresenta il primo massiccio investimento attuato nell’astronomia ottica», dice il professor Giacconi a Milano per una delle conferenze del “Progetto Cultura” della Montedison. L’anno scorso incontrammo lo scienziato di origine italiana (è nato a Genova 54 anni fa) durante il conferimento, all’Università di Padova, della laurea ad honorem in astronomia.
Questo era uno dei tanti riconoscimenti meritati dallo studioso che iniziò la sua vita di scienziato trent’anni fa laureandosi in fisica all’Università di Milano con un grande maestro, Giuseppe Occhialini. Il primo riconoscimento lo conquistò proprio appena laureato vincendo una borsa di studio Fulbright che gli permise di fare il ricercatore presso l’Università dell’Indiana. «Fu Occhialini a suggerirmi di andare in quell’università – dice Giacconi – perché vi lavorava un grande esperto di raggi cosmici.»
Ma negli Stati Uniti Giacconi si incontra con un altro maestro della fisica di origine italiana, Bruno Rossi, che egli chiama “il nonno scientifico” perché Rossi era stato a sua volta maestro di Occhialini. E il contatto sarà prezioso, determinante. Quando nel 1959 Giacconi dovrebbe ritornare in Italia per la scadenza della sua borsa di studio egli entra, invece, come ricercatore in una società americana, l’American Science and Engineering che lavorava per la Nasa, per il dipartimento della Difesa e nel campo delle tecnologie educative e della quale Rossi era uno dei personaggi chiave.
«Mi piaceva – ricorda lo scienziato – vivere negli Stati Uniti. Ero affascinato dalle possibilità che esistevano, dal tipo di società più aperta; c’era un maggior respiro nelle scelte. Dovevo prendere, quindi, una decisione. Allora pensai anche al Cern di Ginevra. Ma in realtà non mi interessava impegnarmi in questa scienza dei grandi gruppi come succede quando si lavora con gli acceleratori di particelle. Preferivo cose più personali e così ...

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