DallâItalia alle stelle 46.
Bruno Rossi:
«Nel mistero dei raggi cosmici»
21 MAGGIO 1985
Bruno Rossi era lâuomo che aveva sciolto uno dei piĂč enigmatici misteri del cosmo, quello dei raggi cosmici. Arrivava a Milano nel 1985 dal Massachusetts Institute of Technology di Cambridge, vicino a Boston (Usa), per parlare delle sue straordinarie scoperte nel campo dei raggi cosmici e dellâastronomia dei raggi X nellâambito delle conferenze âFrontiereâ organizzate dal Progetto Cultura della Montedison. Nella stanza ovattata del Grand Hotel Principe di Savoia ci racconta, quasi a bassa voce con un accento veneto mai cancellato, la sua vita difficile e meravigliosa al tempo stesso che lo portava a condividere le ricerche della fisica e della scienza del cielo con i piĂč importanti scienziati del momento. E anche grandi progetti come il Progetto Manhattan, a Los Alamos, per la costruzione della bomba atomica. Ă una vita di scienza, il privato ha poche parole.
La storia di Bruno Rossi, scienziato, incomincia con un articolo letto su una rivista tedesca. Ne era autore il fisico Bothe e in esso si raccontava di alcuni studi riguardanti uno dei misteri piĂč affascinanti dellâastrofisica, vale a dire lâesistenza dei raggi cosmici provenienti dallo spazio che bombardano in continuazione la nostra Terra e gli altri pianeti. Bothe apre con il suo scritto uno spiraglio nel mistero e tenta di mettere in luce la natura dei raggi che, si pensava, data la loro elevata capacitĂ di penetrazione, fossero dei raggi gamma a elevata energia.
«Lâesperienza dello studioso tedesco fu assolutamente affascinante â dice Rossi con un sorriso negli occhi che si riaccende man mano che tornano alla memoria i volti e i fatti della sua storia â, Bothe dimostrĂČ che non si trattava di raggi gamma. Lâarticolo mi appassionĂČ e mi spinse a iniziare delle ricerche in questo campo. In quel momento ero a Firenze, ad Arcetri, e lavoravo come assistente allâIstituto di fisica.»
Lâanno era il 1928 e Bruno Rossi era un giovanissimo scienziato di 23 anni, nato a Venezia nel 1905, da poco laureato allâUniversitĂ di Bologna. Anche il mistero dei raggi cosmici aveva la sua origine agli inizi del secolo e come spesso succede nelle vicende della scienza la sua esistenza venne scoperta per caso in un mattino dâagosto del 1912. Il fisico tedesco Victor Hess stava compiendo unâascensione con un pallone aerostatico nel cielo della cittadina di Aussing, in Austria. Nella navicella appesa ai fili câerano tre elettroscopi di solito usati in laboratorio per rilevare le radiazioni emesse dal radio. Durante il volo gli apparati riescono a testimoniare «che una radiazione di alto potere penetrante entra dallâalto della nostra atmosfera», come scriverĂ piĂč tardi lo stesso Hess.
Ma gli anni passano senza spiegazioni sufficienti per lâinaspettata e invisibile pioggia spaziale. «Entusiasmato dallâarticolo â continua Rossi â costruii uno strumento formato da due contatori Geiger-MĂŒller messi uno sopra lâaltro alla distanza di un metro e con in mezzo una lastra di piombo. Inoltre, sviluppai un sistema elettronico per registrare i raggi incidenti. Alla fine avevo in mano un potente apparato di indagine che offriva preziosi dati sperimentali. Contatori e lastra di piombo venivano attraversati dai raggi cosmici. Che ciĂČ potesse accadere era inconcepibile e dovetti faticare non poco nel convincere gli altri scienziati che non avevo fatto qualche sbaglio.»
«Dopo quasi tre anni trascorsi in questi studi â prosegue Rossi â nellâestate del 1930 andai in Germania per alcuni mesi a lavorare con Bothe nel suo laboratorio vicino a Berlino. Con i dati a disposizione riuscii a ottenere due buoni risultati. Innanzitutto dimostrai che verso Ovest si poteva rilevare una maggiore intensitĂ nei raggi cosmici e inoltre che essi erano carichi positivamente. CosĂŹ nei primi anni Trenta riuscimmo a descrivere le caratteristiche della radiazione ma non si era riusciti a spiegare da che cosa fosse formata. Negli anni successivi ci si accorse che i raggi cosmici contengono delle particelle mai osservate prima come il mesone mu allora chiamato mesotrone. Alla sua scoperta io, in qualche modo, partecipai.»
A questo punto la storia umana e scientifica di Rossi subisce un profondo cambiamento. Il professore insegnava allora allâUniversitĂ di Padova dove era arrivato nel 1932. «Coinvolto dalle leggi razziali emanate dal regime ricevo una lettera con la quale venivo esonerato dal servizio», ricorda lo studioso. «Decisi allora di abbandonare lâItalia e in questa scelta ebbe molta parte anche mia moglie Nora.»
CosĂŹ inizia nel 1938 per lo scienziato un mesto ma prezioso pellegrinaggio. Prima a Copenhagen con Niels Bohr, poi a Manchester con Patrick Blackett e infine a Chicago con Arthur Compton. In compenso egli ha la possibilitĂ di lavorare con tre giganti della storia della fisica. Lâincertezza, tuttavia, termina nel 1940 quando diventa professore alla Cornell University di Ithaca nello Stato di New York. Il nuovo corso nella vita di Bruno Rossi ha cosĂŹ inizio. In famiglia arriva la prima figlia, Florence, e allâuniversitĂ avvia nuove ricerche per calcolare esattamente la vita media del mesone mu.
«Costruii un cronometro elettronico ad alta precisione con il quale misuravo lâintervallo tra lâarrivo del mesone mu e lâemissione dellâelettrone che significava la disintegrazione del mesone stesso. Ottenni dei risultati con un ridottissimo margine dâerrore pari a quelli che molti anni dopo avrebbero conseguito i grandi acceleratori di particelle.»
Ma Ăš tempo di guerra. «Agli inizi del luglio â43 Hans Bethe mi porta lâinvito per unirmi al gruppo che a Los Alamos avrebbe costruito la bomba atomica. Ebbi un periodo di grande incertezza. Ma ancora una volta mia moglie mi fu dâaiuto nel riuscire a prendere una decisione. Se la Germania avesse avuto il terribile ordigno per prima, le conseguenze sarebbero state drammatiche. Accettai, quindi, e partii per lavorare al progetto Manhattan. PiĂč tardi arrivĂČ anche Enrico Fermi e cosĂŹ gli italiani presenti erano tre, essendoci anche Emilio SegrĂš. Tra le baracche apposta costruite a Los Alamos, nella desolata zona del New Mexico, la vita non era poi cosĂŹ difficile come qualcuno ha descritto. Ă vero che câera il problema della polvere, di una certa scarsitĂ dâacqua, ma se si pensa che altrove câera la guerra la nostra condizione non poteva essere cosĂŹ detestabile. E poi câera la possibilitĂ di lavorare con i migliori cervelli della fisica di quel momento. Certo, questa concentrazione di uomini ad alto livello non era facile da amministrare ma devo dire che Robert Oppenheimer era bravissimo nel governare la grande impresa.»
«LâattivitĂ a Los Alamos era estremamente complessa e vasta ma Oppenheimer sapeva in ogni momento ciĂČ che succedeva nelle diverse ricerche ed era in grado di dare consigli utili. E tutto funzionava sempre al meglio nonostante che come uomo fosse un poâ strano e che non fosse facile capirlo. Ma era un grandissimo scienziato e tutti lo ammiravano. Tranne ovviamente qualche eccezione come Teller che poi diventerĂ suo accusatore. Io ero in ottimi rapporti con Oppenheimer, tanto che quando andĂČ allâUniversitĂ di Princeton mi chiese di andare con lui. Ma i rapporti non erano mai semplici. A Los Alamos le mie ricerche riguardavano soprattutto due problemi: il primo era chiamato dellâimplosione, il secondo era legato alla misura del tempo di reazione durante lâaumento di unâemissione radioattiva. Nel 1945 il lavoro terminĂČ e nel febbraio dellâanno successivo me ne andai a Cambridge, al Mit dove sono tuttora.»
«Negli anni successivi â racconta Rossi â mi occupai di particelle elementari ma nello stesso tempo mi ero posto il problema di misurare lo spettro dâenergia della radiazione cosmica che ancora non si conosceva. Avevamo solo il sospetto che esso si estendesse sino alle grandi energie e ciĂČ serviva giĂ a distinguerla dalle altre forme di radiazione. Alla questione lavorĂČ anche Livio Scarsi. Ma dal momento che i raggi cosmici non si potevano osservare direttamente le difficoltĂ erano notevoli. Quando entrano nellâatmosfera, infatti, i raggi cosmici per una sequela di interazioni elettromagnetiche e nucleari provocano degli sciami di particelle che nei casi estremi osservati sono arrivati a contenerne sino a 10 miliardi e tutte distribuite su chilometri quadrati di superficie. Livio Scarsi, quindi, andĂČ nel New Mexico dove era stato costruito un rilevatore del diametro di quasi 2 chilometri. Alla fine riuscimmo a stabilire che lâenergia arrivava sino a 100 miliardi di miliardi di elettronvolt; unâenorme energia, dunque.»
«Negli anni Cinquanta â prosegue Rossi â vengono costruiti i primi acceleratori di particelle e gli scienziati che si occupano di raggi cosmici entrano in crisi. Le stesse particelle generate dallâimpatto dei raggi cosmici con lâatmosfera vengono ora fabbricate nelle nuove macchine dove Ăš piĂč facile studiarle. Quindi, alcuni ricercatori scelgono questa strada mentre altri spostano il loro interesse al campo dellâastrofisica. Io stesso incominciai a occuparmi di indagini diverse ma sempre legate al cosmo.»
In conclusione, quindi, quali risultati si sono ottenuti attraverso lo studio dei raggi cosmici?
«Essenzialmente due. Come dicevo â risponde Rossi â Ăš stato possibile scoprire nuove particelle e in astrofisica si Ăš posto il problema dellâesistenza di corpi celesti che emettono questa radiazione a elevatissima energia.»
Dai nuovi interessi di Bruno Rossi nasce il campo dellâastronomia a raggi X, suggerendo al giovane fisico Riccardo Giacconi di compiere esperimenti su questa nuova frontiera. Giacconi si mette al lavoro, costruisce dei rivelatori adeguati ed effettua con dei razzi sonda nel New Mexico le prime osservazioni. E cosĂŹ scopre la prima sorgente X nel cosmo e dietro di lui câĂš, appunto, la presenza di Bruno Rossi che Giacconi definisce scherzosamente âil mio nonno scientificoâ.
Lo âscienziato dei raggi cosmiciâ Ăš professore emerito al Mit e dopo la prima figlia nata a Ithaca unâaltra Ăš arrivata a Los Alamos e una terza a Cambridge. E i maestri di Bruno Rossi chi erano?
«Ho avuto un solo buon insegnante di fisica; si chiamava Brunetti ed era una donna. In matematica, invece, sono stato piĂč fortunato e tra i miei docenti avevo grandi matematici come Pincherle e Ricci-Curbastro. Questo a Padova, dove incominciai i corsi di ingegneria ma poi cambiai andando a fisica accorgendomi che mi interessava molto di piĂč. Quando mi trasferii allâUniversitĂ di Bologna ebbi come professore Quirino Majorana, un fisico allora di notevole fama. Invece fu per me una grande delusione: passĂČ tutta la sua vita a dimostrare che la teoria della relativitĂ di Einstein era sbagliata. Naturalmente non ci riuscĂŹ.»
Bruno Rossi, diventato cittadino americano, tornava in Italia nel 1974 per insegnare fisica generale allâUniversitĂ di Palermo. Vi rimarrĂ per sei anni rientrando poi negli Stati Uniti dove il 21 novembre 1993 cesserĂ di vivere per arresto cardiaco nella sua casa di Cambridge, vicino a Boston. Le sue ceneri riposano nel cimitero della chiesa di San Miniato al Monte, a Firenze, davanti alla collina di Arcetri dove aveva iniziato la sua storia di scienziato. LascerĂ traccia della sua straordinaria vita nellâautobiografia Moment in the Life of a Scientist, pubblicato da Cambridge University Press, mentre per ricordare la sua figura e le sue scoperte lâAmerican Astronomical Society nel 1985 istituiva il Bruno Rossi Prize che ogni anno viene assegnato a un ricercatore che nel mondo contribuisce con le sue scoperte allâavanzamento della fisica delle alte energie.
47.
Riccardo Giacconi:
«La scoperta del cielo a raggi X»
19 MARZO 1985
Nella penombra di un albergo milanese aspettiamo Riccardo Giacconi. Arriva dagli Stati Uniti dove abita, ormai, da trentâanni. Quattro anni fa, nel 1981, dopo unâaccesa selezione tra i cervelli che in America avrebbero potuto dirigere con successo quella che alcuni scienziati hanno definito la piĂč grande impresa astronomica finora realizzata, scelgono lui, Riccardo Giacconi, professore di astronomia allâHarvard University di Cambridge. E cosĂŹ egli diventa il direttore dello Space Telescope Science Institute, unâistituzione creata a Baltimora per gestire le ricerche che saranno condotte con lo âspace telescopeâ, il telescopio spaziale che la Nasa porterĂ in orbita con la navetta verso la fine dellâanno prossimo. Ormai, per la grande impresa, si respira aria di vigilia. In California nelle camere pulite della Lockeed Missiles and Space i tecnici stanno giĂ dando forma alla preziosa macchina che una volta completata avrĂ lâaspetto di un poderoso cilindro lungo 13 metri, largo poco piĂč di 4 e pesante 11 tonnellate. Al suo interno Ăš nascosto uno specchio di 240 centimetri di diametro: esso raccoglierĂ immagini sconosciute dellâuniverso perchĂ© questâocchio-robotizzato, al di fuori della maschera atmosferica che ricopre la Terra, puĂČ spingere lo sguardo in luoghi lontanissimi e inesplorati. E tale possibilitĂ lo farĂ rassomigliare a una macchina del tempo.
Infatti, osservare piĂč lontano nello spazio significa raccogliere quei segni luminosi emessi in epoche remote e non ancora giunti sino a noi per lâimmensa distanza che ci separa, anche se la luce viaggia alla velocitĂ di 300 mila chilometri al secondo. Ecco perchĂ© con il telescopio spaziale vedremo mondi in formazione che potrebbero anche non esistere piĂč.
«Dal 1984, quando venne costruito lâosservatorio di Monte Palomar che rimane il piĂč grande in funzione perchĂ© quello sovietico realizzato dopo con dimensioni maggiori ha sempre avuto dei problemi, il telescopio spaziale rappresenta il primo massiccio investimento attuato nellâastronomia ottica», dice il professor Giacconi a Milano per una delle conferenze del âProgetto Culturaâ della Montedison. Lâanno scorso incontrammo lo scienziato di origine italiana (Ăš nato a Genova 54 anni fa) durante il conferimento, allâUniversitĂ di Padova, della laurea ad honorem in astronomia.
Questo era uno dei tanti riconoscimenti meritati dallo studioso che iniziĂČ la sua vita di scienziato trentâanni fa laureandosi in fisica allâUniversitĂ di Milano con un grande maestro, Giuseppe Occhialini. Il primo riconoscimento lo conquistĂČ proprio appena laureato vincendo una borsa di studio Fulbright che gli permise di fare il ricercatore presso lâUniversitĂ dellâIndiana. «Fu Occhialini a suggerirmi di andare in quellâuniversitĂ â dice Giacconi â perchĂ© vi lavorava un grande esperto di raggi cosmici.»
Ma negli Stati Uniti Giacconi si incontra con un altro maestro della fisica di origine italiana, Bruno Rossi, che egli chiama âil nonno scientificoâ perchĂ© Rossi era stato a sua volta maestro di Occhialini. E il contatto sarĂ prezioso, determinante. Quando nel 1959 Giacconi dovrebbe ritornare in Italia per la scadenza della sua borsa di studio egli entra, invece, come ricercatore in una societĂ americana, lâAmerican Science and Engineering che lavorava per la Nasa, per il dipartimento della Difesa e nel campo delle tecnologie educative e della quale Rossi era uno dei personaggi chiave.
«Mi piaceva â ricorda lo scienziato â vivere negli Stati Uniti. Ero affascinato dalle possibilitĂ che esistevano, dal tipo di societĂ piĂč aperta; câera un maggior respiro nelle scelte. Dovevo prendere, quindi, una decisione. Allora pensai anche al Cern di Ginevra. Ma in realtĂ non mi interessava impegnarmi in questa scienza dei grandi gruppi come succede quando si lavora con gli acceleratori di particelle. Preferivo cose piĂč personali e cosĂŹ ...