MacroFinance
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Investire sui mercati finanziari utilizzando i fondamentali macroeconomici

Alberto Di Muro, Alberto Peano

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Investire sui mercati finanziari utilizzando i fondamentali macroeconomici

Alberto Di Muro, Alberto Peano

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Il libro è indirizzato all'investitore che vuole conoscere quali sono le variabili che incidono sull'andamento di medio/lungo termine dei vari mercati finanziari. Gli autori, in particolare, descrivono in modo completo e esauriente i fattori di tipo macroeconomico che condizionano il ciclo economico (i tassi di interesse, il livello di disoccupazione, la produzione industriale, il debito/deficit pubblico) e, di riflesso, il comportamento dei principali mercati finanziari. Una parte importante è dedicata al ruolo svolto dalle diverse Banche Centrali nel corso delle varie crisi finanziarie dell'ultimo decennio, con l'utilizzo di politiche monetarie non convenzionali (Quantitative Easing, Ltro, Tapering). Nella seconda parte del volume viene spiegato come tradurre queste informazioni in termini operativi al fine di selezionare le migliori attività finanziarie (azioni, valute, obbligazioni, materie prime) in funzione delle varie fasi del ciclo economico. La parte finale è poi dedicata alla descrizione dei principali strumenti che si possono utilizzare per investire sui diversi mercati finanziari (azioni, obbligazioni, Etf, Fondi comuni, Cfd, opzioni, future).

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2019
ISBN
9788820390150
CAPITOLO 1
La macroeconomia per l’investitore
GLI SCENARI ECONOMICI E IL RUOLO DELL’INFLAZIONE
Premessa
Investire in Borsa direttamente (tramite una piattaforma di trading online o impartendo ordini telefonici a un operatore) o tramite un gestore richiede, come qualsiasi altra azione, la piena consapevolezza delle conseguenze dirette che da essa deriveranno.
Il lettore dovrebbe prendere coscienza del fatto che ogni sua singola decisione di investire anche un solo euro sul mercato (decisione definibile “micro”, nel senso di microeconomica) assumerà grande rilevanza sul mercato macro (macroeconomico).
E questo non è affatto banale. Quando dobbiamo acquistare un bene siamo abituati a leggere, informarci, visitare più negozi. Cerchiamo di farci un’idea dei prezzi, delle caratteristiche dei prodotti, della qualità. Cerchiamo “l’affare”. Questo accade anche per l’acquisto di titoli azionari e obbligazionari, ma con la differenza che spesso si è meno informati sui prezzi, sulla valutazione dei titoli, sulla rischiosità insita nell’investimento.
Possiamo collegare a questo discorso la volatilità dei mercati: una delle sue origini è proprio la scarsa conoscenza da parte dei piccoli investitori delle conseguenze delle loro azioni di investimento; la riduzione dei tassi di interesse ha generato tanti nuovi esperti dei mercati finanziari che hanno cominciato ad acquistare titoli con una consapevolezza inferiore a quella necessaria per acquistare un abito o un telefonino.
Il contesto economico internazionale in generale e quello italiano in particolare sono profondamente mutati da quella lontana e drammatica estate del 1992, nella quale gli operatori economici presero atto dell’impossibilità delle banche centrali di difendere, tramite operazioni sul mercato valutario, il valore delle monete nazionali. La crisi dello SME3, latente già da alcuni mesi e sfociata improvvisamente nel settembre di quell’anno nella svalutazione di varie monete nazionali, tra le quali la lira, ha rappresentato la caduta di uno degli ultimi baluardi – la difesa artificiale del cambio – di un mondo finanziario in veloce trasformazione nel quale stava facendo irruzione prepotentemente un nuovo modus operandi sui singoli mercati, sempre più correlati e interdipendenti e soprattutto sempre più orientati verso la creazione di un mercato unico e globale.
Il nuovo scenario economico e finanziario internazionale derivante dalla creazione di un’area europea nella quale si utilizza un’unica moneta è caratterizzato dall’unitarietà della politica monetaria, che avrebbe dovuto consentire nel tempo la stabilità dei prezzi e dei tassi di interesse, facilitando l’avvicinamento del risparmiatore italiano ai mercati azionari.
I mutamenti avvenuti in Italia e in Europa nella seconda metà degli anni Novanta, in termini normativi e di politiche economiche, avevano rivitalizzato l’interesse per il mercato azionario così come accadde durante il boom degli anni 1983-1986. Vediamo i fattori più rilevanti:
la nascita dell’euro;
la riduzione dei tassi di interesse;
il cambiamento culturale delle imprese (quotate e non);
il cambiamento delle abitudini di investimento dei risparmiatori.
La nascita dell’euro. La formazione di un’area di oltre 400 milioni di cittadini che utilizzano la stessa moneta è certamente una delle novità più importanti del secolo appena trascorso. La moneta unica ha avuto e ha un impatto notevole sulla vita quotidiana dei cittadini e degli investitori. Semplificando, ricordiamo:
l’omogeneità dei beni di consumo;
l’ampliamento delle opportunità di investimento sui mercati finanziari senza rischio di cambio;
l’approccio settoriale internazionale agli investimenti azionari;
il maggiore controllo nelle politiche economiche.
La riduzione dei tassi di interesse. Gli sforzi compiuti per il risanamento del debito pubblico e il controllo dell’inflazione hanno fatto avvicinare il nostro Paese agli standard europei. Il rapporto deficit/PIL vicino al 3%, il tasso di inflazione stabile sotto il 2%, il cammino lento delle privatizzazioni, il tentativo di riforma della pubblica amministrazione rappresentano senza dubbio dei traguardi raggiunti nel corso degli ultimi anni. Tuttavia non bisogna dimenticare che il prezzo pagato per questo risanamento si misura in termini di tasso di disoccupazione.
È necessario prendere atto dell’esplosione del paradosso finanziario italiano: le famiglie sono oggi più povere perché lo Stato è più ricco.
La flessione del rendimento dei titoli di stato si è tradotta nella mancata percezione di quel flusso aggiuntivo che ha determinato l’illusione della ricchezza finanziaria nominale. La nascita dell’euro si è tradotta nel superamento delle logiche nazionali e nell’utilizzo di un unico tasso di interesse a breve termine manovrato dalla BCE (Banca Centrale Europea), mentre i tassi a lungo termine – allineati ma non identici in relazione allo stock di debito dei singoli Paesi – sono determinati dal mercato finanziario. In questo senso la moneta unica si traduce nella minore importanza della politica dei singoli Paesi rispetto all’economia dell’Area Euro, pur nel rispetto delle problematiche sociali.
Grande importanza assume il Patto di Stabilità, ossia il patto siglato dai Paesi aderenti alla moneta unica che sancisce a loro carico l’obbligo di attuare politiche economiche che tengano conto e che rispettino i criteri economici che hanno portato alla nascita dell’euro. Conseguenze dirette della centralità della politica monetaria e del superamento delle singole valute sono:
la stabilità dei prezzi;
la necessità di attuare politiche economiche convergenti tra i vari Paesi;
la definizione di un’area economica in concorrenza con l’area del dollaro (Usa) e del Far East (Cina soprattutto) ma al cui interno la concorrenza tra le singole realtà industriali diviene sempre più stringente e nella quale viene meno il tasso di cambio come vantaggio competitivo;
la disponibilità di un mercato finanziario molto più ampio e quindi l’ampliamento delle possibilità di diversificazione sul comparto obbligazionario e azionario;
la continuazione delle politiche di privatizzazione.
Il cambiamento culturale delle imprese. La globalizzazione economica e finanziaria determina una maggiore concorrenza tra le imprese dove il vero vantaggio competitivo è dato dalla loro capacità di innovazione. È opportuno prendere coscienza del pericolo derivante dalla globalizzazione dell’economia, che come abbiamo potuto constatare negli ultimi anni (dal 2000 a oggi) si è tradotto in una deindustrializzazione del nostro Paese, ricercata o imposta. In particolare, la deindustrializzazione e marginalizzazione del settore produttivo italiano può ricondursi ad alcuni fattori:
La ricerca di infrastrutture più adeguate, di una minore fiscalità, di una minore burocrazia e di un minor costo del lavoro per poter competere in termini di prezzo ha spinto molte imprese a spostare e delocalizzare all’estero le strutture produttive, specialmente in zone asiatiche e nell’Europa orientale.
La necessità di affrontare ingenti investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione ha reso inadatte le strutture finanziarie delle nostre imprese familiari che si sono trovate di fronte alla scelta di:
a.cedere il controllo e uscire dal mercato;
b.quotarsi e incrementare gli investimenti;
c.entrare in partnership con grandi gruppi internazionali.
La concorrenza dei prodotti dei Paesi emergenti, tecnologicamente e qualitativamente avanzati, ha eroso quote di mercato alle nostre imprese sul mercato europeo.
In questo senso il risparmio rappresenta una grande risorsa per la nuova competizione globale, un fattore critico di successo che va difeso e gestito. L’ingresso del risparmio nel finanziamento del settore produttivo ha il duplice effetto di creare (soprattutto in Italia) il capitalismo diffuso e soprattutto di rafforzare la competitività del made in Italy. È quindi necessario recuperare il rapporto di fiducia mercato-imprese-famiglie.
Il cambiamento delle abitudini di investimento dei risparmiatori. Dal 1997 in poi si è assistito a un primo cambiamento di mentalità da parte dei risparmiatori italiani: la convergenza verso la moneta unica ha determinato una sensibile riduzione dei tassi di interesse e il contestuale avvicinamento del surplus delle famiglie al risparmio gestito (fondi e gestioni patrimoniali) e al mercato azionario.
L’euro ha determinato un profondo cambiamento nelle abitudini dei risparmiatori europei, che, in considerazione del maggior numero di aziende quotate, si esprime:
nel superamento di logiche di mercato e in nuove strategie di investimento orientate per settori merceologici;
nella maggiore specializzazione negli investimenti per settori e per dimensione delle aziende quotate;
nel maggiore legame dei prezzi azionari con il ciclo economico;
nella maggiore possibilità di diversificazione in relazione al ciclo economico.
Particolare rilevanza assume la corretta chiave di lettura di quegli indicatori che anticipano l’andamento del ciclo economico produttivo tra cui possiamo elencare:
l’andamento degli ordinativi (anticipatori della produzione);
i consumi di energia (indicatore di status);
il grado di utilizzo della capacità produttiva;
il ciclo delle scorte e prezzi delle materie prime;
le immatricolazioni di auto (anticipatore della produzione industriale);
la concessione per edificazione immobiliare (anticipatore della produzione industriale);
il lavoro straordinario;
la domanda a livello mondiale e l’andamento dei tassi di interesse reali.
Un approccio globale analitico può e deve essere integrato da altri fattori quali:
l’evoluzione degli aggregati monetari (anticipatori di una futura crescita);
la dinamica di alcuni indici rappresentativi della percezione di imprenditori e consumatori nei confronti dello stato di salute dell’economia (per esempio IFO e PMI in Germania, indice Tankan in Giappone);
l’indice dei prezzi al consumo, il tasso di disoccupazione e il PIL (prodotto interno lordo);
i NFP (non farm payroll), cioè il numero di nuovi impiegati nell’industria e servizi negli Stati Uniti;
il Jobless Claim, ossia il livello di disoccupazione negli Stati Uniti;
l’indice NAPM manifatturiero;
il rapporto Debito/PIL;
il rapporto Risparmi/PIL;
l’andamento della bilancia dei pagamenti di un Paese;
l’evoluzione degli utili aziendali e l’entità delle...

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