La terza mela
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La terza mela

La scienza va a teatro

Maria Rosa Menzio

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La terza mela

La scienza va a teatro

Maria Rosa Menzio

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La 'terza mela' è la terza cultura, ossia l'insieme dei punti di contatto fra scienza e umanesimo, comprensivo di letteratura e arti figurative. La scienza entra nel romanzo, senza quella divisione fra le due culture che fu al centro di un aspro dibattito alla fine degli anni Cinquanta. Da Alice nel paese delle meraviglie alle stranezze dell'operatore somma, dalla possibilità di trattare ogni scoperta scientifica con le stesse categorie che si usano per le fiabe alla visione di ogni romanzo in una prospettiva frattale, fino a osservare come la metafora entri nelle dimostrazioni scientifiche molto più profondamente di quanto appaia. E un perfetto esempio di terza cultura è la scoperta delle onde gravitazionali che ci arrivano da spazi e tempi lontanissimi e che mettono un punto fermo alla scienza di oggi, allacciandosi a quella che Keplero, e prima ancora i Pitagorici, chiamavano la musica dell'Universo.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2019
ISBN
9788820389611
1
La mela himalayana: introduzione alla terza cultura
Definizione
Ha iniziato Charles Snow nel 1959 a parlare di “due culture”, ovvero l’umanesimo e la scienza, e ha continuato affermando che “il numero 2 è un numero molto pericoloso. Bisogna considerare con molto sospetto i tentativi di dividere ogni cosa in due”.
Secondo Snow, la cultura è divisa in due rami: da un lato si trova la cultura umanistica (definita “letteraria”), al lato opposto quella scientifica: queste costituiscono, segnala Snow, due poli divergenti. Divergenti perché gli scienziati preferiscono una visione razionalistica del mondo, quindi disdegnano le materie umanistiche, soprattutto la letteratura. D’altro canto i letterati si vendicano con un comportamento simile: per loro la vera cultura prescinde dalla scienza, anzi a volte diventa antiscientifica.
Da alcuni anni ci si riferisce anche alla terza cultura: che cos’è?
Ne parla per la prima volta John Brockman nel 1995: si tratta di una visione unitaria del sapere, non dissimile dalla bella unità culturale del Rinascimento. Secondo l’autore, oggi sono gli stessi scienziati i rappresentanti, gli autori e i promotori di questa terza cultura, sono loro a voler salvare il mondo attraverso un nuovo umanesimo.
Aggiungerei qualcosa in più: la terza cultura è la visione dall’alto, a trecentosessanta gradi, dei legami che le due culture intrecciano, e della meraviglia che suscitano.
Sessant’anni fa, Richard Feynman scriveva:
Il valore della scienza non viene cantato dai cantanti, siete ridotti ad ascoltarlo non in musica o in versi, ma in una conferenza serale. Non siamo ancora in un’era scientifica.
Tra parentesi, vi siete mai chiesti se abbia dato un maggior contributo all’umanità l’idea di Sofocle (Edipo) o quella di Einstein (relatività)? Io rispondo che dalla tragedia di Edipo (un uomo che ammazza il padre e s’innamora della madre) è nata tutta la moderna psicoanalisi, mentre dalla relatività è nato il GPS, sono nati film e libri di successo. Quale delle due culture ha influenzato maggiormente l’altra? E quali legami vi sono fra questi due ambiti del sapere?
Proprio di questi legami tratta il libro che avete tra le mani.
Lettori, all’inizio questo saggio sembra andare avanti in modo consequenziale, poi le cose si complicano: il libro continua come in un albero o un’enciclopedia, vale a dire che ogni parte del volume si aggancia a molte altre. E non poteva essere diversamente, visto l’argomento.
Inizio personale
Sono di fronte al mare, un mare selvaggio com’ero io da bambina.
Anche allora c’erano onde, cavalloni, sogni di pirati e forzieri colmi di tesori. E la fetta di pane tostato.
Da piccola pensavo: se mangio metà fetta, tagliandola in due parti uguali, poi ne ho di meno, esattamente metà; se a un secondo boccone ne mangio metà della metà, il resto sarà ancora più piccolo, al terzo boccone metà della metà della metà, poi al quarto metà della metà della metà della metà, e così via. I bocconi diventano sempre più piccoli e la fetta rimanente pure.
Ma non riesco a finirla. Se continuo così, boccone dopo boccone, la fetta durerà all’infinito.
Mi sono riproposta il problema quando i miei mi hanno portata a Barcellona, qualche mese dopo. In Spagna ho preso un’altra fetta di pane tostato, ho immaginato di mangiarne metà, poi metà della metà al secondo boccone, eccetera.
Poco dopo siamo andati a visitare la Sagrada Família, e stavano suonando il quinto concerto brandeburghese di Bach.
Anni dopo, a scuola ho scoperto che quei pensieri sulla divisione infinita li avevano avuti anche Newton e Leibniz e che i due matematici avevano inventato l’analisi, e da allora il calcolo infinitesimale mi fa sempre venire in mente Gaudí, il quinto concerto brandeburghese e pure il pane tostato, tutto insieme. Associo il gusto croccante all’infinito.
La poesia è incontro del suono col senso, sostiene Paul Valéry. Ma questo non vale forse anche in altri campi, per esempio nella scienza? O no?
A prima vista rispondiamo di no, assolutamente, poi però… Forse anche nelle scienze dure, come la matematica, il suono di una formula, quindi la sua notazione, la scrittura, dev’essere bello ed elegante. e=−1. Stupendo! Tutta un’altra cosa rispetto, per esempio, alle odiate (almeno da me) formule di prostaferesi della trigonometria. Ancora, E=mc2 (questa E è tutt’altra cosa rispetto alla prima) è poesia pura. La velocità della luce e l’energia. Da togliere il fiato. Ho fatto una ricerca su un migliaio di maturandi: per otto anni, per cinque classi di studenti all’anno, per quasi trenta allievi in ogni classe, ho insegnato terza cultura e ho posto ai ragazzi la seguente domanda: quale colore dareste alla formula della relatività ristretta? Color rosso fiamma, hanno risposto i miei allievi.
Ho posto una domanda analoga per la letteratura.
Quali colori dareste ai versi di una poesia?
Quali alla seguente frase di Henry David Thoreau?
Andai nei boschi per vivere con saggezza, vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.
Alla maggioranza la citazione pare verde, oppure verde-arancione, sempre come dicevano i miei studenti, in una serie di lezioni su “Teatro e scienza” e più in generale sulle due culture.
La bellezza è sempre sovrana, nelle arti come nelle scienze.
Beauty is truth, truth beauty, ‒ that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.
dice John Keats in Ode on a Grecian Urn.
Unire le emozioni alla razionalità: per l’anelito umano alla conoscenza questo legame punta dritto alla completezza, cioè al sublime.
Procediamo con intermezzi e brevi ragionamenti. Gustiamo insieme le mele fatate dell’albero della conoscenza. Ogni pomo nasconde ciò che è nascosto e visibile allo stesso tempo, e questo processo avviene infinitamente. Ogni cosa che vediamo ne nasconde un’altra; vogliamo sempre vedere quello che è nascosto da ciò che vediamo.
Image
Come la mela dolce rosseggia sull’alto del ramo,
alta sul ramo più alto: la scordarono i coglitori?
No, certo l’hanno vista, non poterono raggiungerla.
Saffo
La beffa dell’elevamento a potenza
Nella Variante di Lüneburg, Paolo Maurensig parla dell’invenzione degli scacchi, che si dice sia legata a un fatto di sangue.
Quando il gioco fu presentato per la prima volta a corte, pare in Persia, nel V secolo d.C., il sultano volle premiare l’oscuro inventore esaudendo un suo desiderio. Questi chiese tanto grano quanto poteva risultare da una semplice moltiplicazione per due: un chicco sulla prima delle sessantaquattro caselle, due chicchi sulla seconda, quattro sulla terza, e così via… Ma quando il sultano si rese conto che a soddisfare una tale richiesta non sarebbero bastati tutti i granai del suo regno, per togliersi dall’imbarazzo stimò opportuno mozzare la testa all’inventore. Problema risolto.
Ancora sull’elevamento a potenza, pensiamo a Pierre de Fermat, quel pazzoide di magistrato (ed essendo magistrato poteva effettivamente ordinare che qualche testa venisse tagliata) che affermava che
non esistono soluzioni intere positive all’equazione an+bn=cn, se n è maggiore di 2.
In pratica, il caso in cui n=2, equivalente al teorema di Pitagora, è un mostro matematico.
Disse Fermat, anzi scrisse:
Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che però non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina.
Se la cosa fosse vera non si sa, ma si suppone di no. Anche perché, se lo fosse, vanificherebbe il lavoro decennale del professor Andrew Wiles, che pochi anni fa ha dimostrato il teorema in un volume di 130 pagine. Tutti i matematici pensano che tale dimostrazione vada molto al di là degli strumenti matematici dei maggiori scienziati odierni, figuriamoci del 1600!
Andrew Wiles stesso ha detto: “È impossibile; questa è una dimostrazione del XX secolo!” Forse può esistere una dimostrazione più breve, ma nessuno finora ha trovato la dimostrazione “semplice” di Fermat. Chi lo facesse meriterebbe la medaglia Fields. E l’eterna riconoscenza (dalla tomba) di Fermat.
C’è un altro aspetto del mistero. Forse Fermat, intuendo la verità della sua congettura ma non riuscendo a dimostrarla, ha voluto prendersi una vendetta postuma sui matematici a venire, facendoli arrovellare per quasi quattrocento anni. Un po’ come la vendetta della “vecchia signora” di Friedrich Dürrenmatt. La signora torna al paese natio da cui era stata cacciata, oltre cinquant’anni prima, perché in attesa di un figlio senza essere sposata, mentre altre nozze aspettavano il seduttore. Ora la donna è anziana, ha una fortuna immensa, per oltre mezzo secolo ha pensato alla vendetta ed è pronta a compierla con un terribile scambio: il paese ucciderà il vecchio seduttore e lei al paese regalerà un miliardo di franchi. Un modo come un altro per comprarsi la giustizia.
Oppure come capita nelle prime pagine di Uccelli di rovo in cui l’anziana Mary Carson si vendica di padre Ralph: lo divide per sempre dall’amata lasciandogli in eredità ben 13 milioni di sterline. Alla morte di Mary, il giovane prete si ritrova improvvisamente con una somma di denaro tale da consentirgli l’ambita scalata nelle gerarchie ecclesiastiche. E da obbligarlo a fare l’errore più grande della sua vita: lasciare l’unica donna che abbia mai amato.
Ma il teorema di Fermat ha anche ispirato romanzi storici, come Il teorema del pappagallo di Denis Guedj, un altro esempio di terza cultura. Ecco ciò che si legge sulla quarta di copertina di questo libro:
Dove comincia questa storia? In Amazzonia, quando un cercatore d’oro che ha deciso di raccogliere tutte le opere matematiche più importanti del mondo, scompare misteriosamente? […] Dove finisce questa storia? In Sicilia, in un altipiano spazzato dal vento in cui sorge la presunta tomba di Pitagora? Oppure a Cambridge, quando un giovane studioso offre al mondo la dimostrazione di uno dei teoremi più discussi della storia, quello di Fermat? […] È la storia della matematica. Provate a seguire tre vivaci ragazzini, la loro enigmatica madre, un libraio-filosofo e il pappagallo Nofutur in questa avventura. Scoprite con loro com’è stato inventato lo zero, gli oscuri segreti dei matematici persiani, le incredibili vicissitudini di Cardano e Tartaglia…
Racconto bizzarro, atto a suscitare l’interesse del lettore meno avvezzo agli studi della matematica con un’avventura “surreale” partorita da una delle più agili menti del nostro tempo per la divulgazione scientifica.
Sempre il teorema di Fermat dà il titolo a un altro famoso romanzo, L’ultimo teorema di Fermat, di Simon Singh.
“Dispongo di una meravigliosa dimostrazione…” Come abbiamo detto, così scriveva a metà Seicento il “matematico principe dei dilettanti” Pierre de Fermat, riguardo a quello che da allora tutti avremmo denominato come la “congettura” di Fermat.
La storia dell’ultimo teorema di Fermat è legata con catene pesanti alla storia della matematica: in fondo, tratta tutti i temi più importanti della teoria dei numeri. Per questo, il libro di Simon Singh non è solo la storia del passaggio dalla congettura al teorema ‒ cioè la sua dimostrazione ‒, ma è anche la storia della matematica.
Si inizia dalla Grecia antica e si arriva ai giorni nostri, passando per gli sforzi dei cervelli più creativi che si sono affaticati a tentare di dimostrare il teorema, forse non riuscendovi del tutto ma comunque dimostrando altre proposizioni in altri campi, che paiono abbastanza lontani dalla teoria dei numeri. Il libro è la storia di una dimostrazione che non fu mai trovata, almeno da chi la enunciò, e quella frase divenne un duello matematico fra ricercatori e congettura: una frase così semplice, ma così impenetrabile, e soprattutto così straordinaria.
Fra i matematici antichi, Pitagora è degno del massimo rispetto perché comprese che l’esistenza dei numeri è indipendente dal mondo sensibile: ma i fenomeni naturali sono governati da leggi descritte con equazioni matematiche. Di qui il motto della sua scuola: “Tutto è numero.”
Più tardi Euclide dimostrò, però soltanto in modo geometrico, l’esistenza dei numeri irrazionali, e Diofanto di Alessandria compilò l’Arithmetica, grande opera sulla teoria dei numeri, comprendente l’intero sapere dell’epoca in materia: la sua caratteristica era di esaminare problemi che richiedevano una soluzione con numeri interi.
Nel millennio successivo, la matematica continuò a evolversi solamente con cervelli provenienti dall’India e dall’Arabia: i matematici orientali copiarono le formule dei manoscritti greci, reinventarono molti teoremi ormai perduti e aggiunsero nuovi elementi. Nel 1453, quando i turchi saccheggiarono Costantinopoli, i sapienti della città fuggirono in Occidente con tutti i manoscritti che riuscirono a portare con sé; cont...

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