PARTE PRIMA
Dalla unique selling proposition alla unique experience proposition. La creazione di esperienze con focus sui nuovi contesti, sulle persone e sui loro interessi
Marketing e comunicazione hanno, per molto tempo, focalizzato l’attenzione sul prodotto finale. Lo stesso Rosser Reeves, negli anni ’40, parlava di unique selling proposition, intesa come argomentazione unica di vendita: un modello teorico riferito al funzionamento della pubblicità, basato sul beneficio offerto al consumatore che i concorrenti non possono garantire e caratterizzato da esclusività e vantaggio tali da indurre all’acquisto. Elementi, questi, diventati la base per pensare e progettare i brand, soprattutto nel momento del boom economico, caratterizzato da una società in crescita e in sviluppo, nella quale il concetto di “quantità” sembrava prevalere rispetto a quello di “qualità”. In quegli anni, avere un prodotto significava possedere il brand stesso, entrando di diritto in un meccanismo collettivo di identificazione oggettiva.
Persone ed emozioni non erano al centro dell’attenzione progettuale, non perché non fossero importanti, ma semplicemente perché non facevano parte di quel processo specifico, di quell’approccio: il contesto non lo prevedeva e il cambiamento sarebbe arrivato qualche decennio dopo, quando il sistema dell’avere tutto a tutti i costi avrebbe iniziato a mostrare segnali di debolezza.
Potrebbe sembrare una descrizione semplificata, e in parte lo è, ma di questo si tratta: quella che Reeves aveva definito unique selling proposition viene presa e declinata nelle strategie di marketing, vendita e comunicazione, in cui sono gli elementi oggettivi a determinare attività e progettualità. Oggi, in un contesto sociale, culturale ed economico trasformato, in cui le persone hanno un atteggiamento più consapevole e l’esperienza è più rilevante, bisogna chiedersi se abbia senso parlare solo ed esclusivamente di unique selling proposition.
La sfida, a quanto pare, si concretizza nel saper comunicare l’offerta differenziante oggettiva concentrandosi sulla percezione soggettiva di chi quel messaggio lo riceve: così le persone possono vivere a pieno i valori della marca, sentendoli parte integrante di un’esperienza più ampia e completa.
Su questo si deve concentrare chi progetta e governa la marca.
Basti una riflessione su tutte: un prodotto o un servizio che non eccelle tecnicamente più di altri ma, nonostante questo, fa vivere un’esperienza significativa grazie ai valori che rappresenta, porta le persone ad averlo o provarlo, al di là dei tecnicismi.
Si pensi, per esempio, a un ristorante di cui tanto si è sentito parlare, lontano dagli stereotipi della perfezione stellata. I clienti vengono accolti in un ambiente modesto e popolare, nel quale si respira l’atmosfera unica del contesto. La cucina proposta non è troppo elaborata, il servizio è conviviale, si richiamano profumi e abitudini locali che ricordano sapori e immagini dell’infanzia. La comunicazione non segue i trend stilistici dettati dal marketing, non usa gli stratagemmi a cui tutti sono abituati per far leva su un potenziale target turistico-economico. Nella sua apparente genuinità, tutto sembra coerente, tanto che le recensioni e i giudizi delle persone sono positivi, la reputazione è buona e il rapporto di fiducia evidente. Non è una situazione inusuale, l’avrete vissuta tante volte e potrete, così, ben riconoscerne il valore dato dall’esperienza personale, che diventa elemento differenziante. In un ambiente di questo tipo, il punto di forza è la cucina, unita alle sensazioni rievocate, tanto che la perfezione gastronomica passa in secondo piano: ciò che conta è quello che si vive in quel momento e per cui si è disposti a pagare il servizio. Cambia il punto di vista e, di conseguenza, il paradigma attraverso il quale progettare il brand che va oltre il prodotto, perché è molto di più: si parla, in tal senso, di unique experience proposition e tutto prende una nuova forma. La unique experience proposition mette al centro di tutto la persona, i suoi interessi, le sue attitudini e non è un caso che se ne parli sempre di più.
Figura P1.1 Scena del film Fracchia la belva umana che si svolge nel ristorante Da Sergio e Bruno - Gli incivili. Qui l’esperienza promessa non è soltanto la cucina tradizionale romana, ma tutte le colorite espressioni di borgata con cui il personale di sala intrattiene la clientela. Il nome del ristorante è già esplicativo: una precisa promessa di marca che crea aspettative esperienziali diverse rispetto ai ristoranti tradizionali.1
Si inizia a dare maggiore importanza a questo aspetto, tanto che i contesti e i luoghi della marca vengono ideati e progettati andando in tale direzione. Negozi, libri, cosmesi, gastronomia, musica, cinema, turismo, trasporti, moda, architettura, design, musei sono solo alcuni dei settori nei quali è possibile osservare questa trasformazione.
Ci si fa contaminare dall’esperienza, che diventa l’elemento distintivo usato per costruire nuove narrazioni di marca, capaci di passare dal fisico al virtuale e viceversa. Tutto è studiato nei minimi dettagli, la persona rappresenta il soggetto principale di un’analisi che non è più soltanto strategica, ma evolutiva, sociologica e culturale. La persona è al centro ed è per lei che si costruiscono scenari esperienziali unici, nei quali vivere il momento a 360 gradi. Un’esperienza indotta, a volte subita, ma indispensabile, perché sa attirare l’attenzione e af fascinare. Un tempo il bisogno veniva soddisfatto attraverso il possesso di qualcosa, ora lo si soddisfa vivendo in prima persona.
Le persone vogliono essere protagoniste e i brand che vinceranno la sfida saranno quelli capaci di coniugare tutti questi elementi con equilibrio e visione lungimirante.
La progettazione diventa, così, un percorso estremamente complesso, ma entusiasmante. I dati oggettivi saranno complementari a quelli soggettivi, le variabili innumerevoli, serviranno capacità di adattamento e competenze professionali che non potranno essere solo tecniche.
Si tratta di iniziare un viaggio di cui non si hanno tutte le coordinate precise, ma di cui si possiedono alcuni elementi che aiuteranno e stimoleranno l’ideazione e la creazione di brand più consapevoli del loro valore e del loro impatto. Un viaggio, questo, che andrà analizzato e osservato con attenzione, perché da qui nasceranno altri linguaggi: tutti saranno chiamati a far parte di un percorso basato sul concetto di identità. Le regole studiate e applicate finora in questo momento non funzionano più, tutto è in discussione e, se la direzione è segnata, ciò a cui si andrà incontro non è certo.
Serve avere voglia di contaminarsi con nuovi approcci e attitudini. Scrivere e parlare di brand è complesso, ma è in questa complessità che si trovano spunti di riflessione e di confronto, in modo da comprendere meglio quello che sta accadendo, osservando il tutto da un punto di vista diverso.
CAPITOLO 1
L’emozione oltre il prodotto
In un’epoca in cui la tecnologia e i nuovi scenari digitali la fanno da padrone, ricoprendo un ruolo a dir poco interessante, è fondamentale spostare l’attenzione dal prodotto all’esperienza.
Le percezioni e le emozioni vissute dalla persona sono il fulcro da cui partire per creare un percorso progettuale della marca coerente rispetto ai cambiamenti sociali e culturali in atto.
Il senso del libro lo si ritrova proprio in questo: cercare di dare nuove chiavi di lettura per avere una visione meno strumentale quando si analizzano le dinamiche identitarie della marca.
Mentre si sviluppa la creazione di un brand è essenziale, allora, partire dal binomio azienda-prodotto, com’è ovvio, e puntare l’attenzione sul piano esperienziale/sensoriale. Quali sensazioni genera nelle persone e che comportamenti induce? Quante reazioni ne scaturiscono, quali e quanti ricordi evoca, che informazioni trasmette?
Domande a cui bisogna cercare di dare risposte coerenti, che influenzeranno un pubblico di riferimento già inserito in un contesto che ha abitudini e stili propri.
Quella attuale è l’epoca della fluidità: le persone sono informate, attente, consapevoli, hanno maggiori possibilità e opportunità, ci sono più stimoli e le nuove generazioni giocano un ruolo fondamentale. Si sentono, infatti, tanto coinvolte e partecipi da riuscire a intercettare tematiche e principi su cui puntare in un futuro non troppo lontano. Sono generazioni che si fanno portavoce di ideali che sentono propri, ricordando, alle marche prima di tutto, che saranno consumatori diversi da quelli a cui sono state abituate.
I mercati devono considerare questi stimoli così come lo devono fare le aziende, le agenzie, i media e tutti coloro che, in questo scenario evolutivo, cercano posizionamento, vendita e consenso non solo in termini di acquisto, ma anche di forte partecipazione ai valori della marca.
Tutto quello che s’innesca sul piano delle percezioni diventa davvero rilevante al pari dell’esperienza: entrambi possono, infatti, sviluppare un processo di adesione, capace di andare ben oltre il prodotto e il profitto. Appare in tal modo evidente come questa riflessione tocchi ogni aspetto della creazione di un brand, compresa la sua progettualità, che cambia radicalmente nel momento in cui scopre di dover andare più in profondità: si deve avere la volontà di provare a studiare e comprendere la complessità in cui si è immersi e si vive.
Il tempo della creatività fine a se stessa è terminato o, forse, applicato al business non è mai esistito. È il momento di lasciare spazio a una creatività più consapevole e matura, che miri alla performance della marca attraverso progetti identitari più strutturati.
Il messaggio deve tornare ad avere centralità ...