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Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv

Jason Mittell

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Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv

Jason Mittell

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Come fanno le serie tv di nuova generazione a tenerci incollati allo schermo, spingendoci a guardare dieci puntate di fila e parlare dei protagonisti come se fossero i nostri amici più cari? Quasi mai per caso, né per l'idea geniale di un solo showrunner, bensì grazie allo sforzo creativo e collaborativo che avviene nella «stanza degli autori».In Complex Tv lo studioso di televisione e media Jason Mittell ci accompagna lungo la filiera delle serie, dall'ideazione alla produzione, dalla ricezione del pubblico alla gemmazione dei paratesti. In questo percorso l'autore ci spiega cosa distingue la «televisione complessa» da quella del passato, con particolare attenzione allo storytelling e alle tecniche peculiari del mezzo. Emancipandosi dalla narratologia tramite un linguaggio nuovo e dedicato, esamina tutti i capisaldi di questo formato e i fenomeni a essi associati: dalla rivoluzione apportata dai Soprano al successo irripetibile di Lost, dalla struttura comica complessa di Arrested Development e How I Met Your Mother fino alla radicale trasformazione di Walter White in Breaking Bad.Complex Tv non si rivolge solo agli appassionati: oltre a essere lo strumento che mancava per analizzare questa nuova arte, può rivelarsi prezioso per chiunque voglia scoprire (e magari imparare) i segreti dello storytelling.

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LA COMPLESSITÀ E IL SUO CONTESTO

La tesi principale di questo libro è che nell’ultimo ventennio si sia sviluppato un nuovo modello di racconto, alternativo alla forma a episodi e a quella seriale che hanno caratterizzato la televisione americana fin dai suoi esordi, un modello che io chiamo complessità narrativa.1 Esempi di quest’innovativa forma di narrazione si possono trovare in programmi di successo, come Seinfeld, Lost, X-Files o How I Met Your Mother, in serie acclamate dalla critica ma di minore successo, come Arrested Development, Veronica Mars, Boomtown e Firefly, e in serie che si sono rivelate dei flop, come Reunion, Day Break, FlashForward e The Event. La Hbo ha costruito la sua reputazione e il suo successo economico su serie complesse come I Soprano, Six Feet Under, Curb Your Enthusiasm, The Wire e Il trono di spade, e lo stesso hanno fatto cable channels come Showtime (Dexter, Homeland), Fx (The Shield, Justified) e Amc (Mad Men, Breaking Bad). È evidente il fatto che tutte queste serie tv raccontano le proprie storie in un modo alternativo a quello consueto in ambito televisivo, e l’obiettivo di questo capitolo è spiegare il come e il perché di questa differenza. Allo scopo di fornire le basi per la lettura di questo libro, in cui ogni capitolo è dedicato a un tema specifico, quest’introduzione identifica le peculiarità formali di questo tipo di storytelling, ne rivela le attrattive e le modalità di consumo, e ipotizza una serie di ragioni per cui la cosiddetta televisione complessa non ha mai smesso di evolversi e diffondersi fin dalla sua apparizione, avvenuta alla fine degli anni Novanta.
Per comprendere le tecniche dello storytelling della televisione di oggi dobbiamo innanzitutto considerare la complessità narrativa come un modello narrativo a se stante, come già proposto da David Bordwell. Nella sua analisi della narrazione cinematografica, Bordwell definisce modello narrativo «un insieme storicamente identificato di regole per la costruzione e la comprensione di una narrazione», un insieme che attinge a generi, autori e movimenti artistici diversi per creare un bagaglio coeso di tecniche narrative.2 Bordwell identifica modelli cinematografici specifici come il cinema classico di Hollywood, il cinema d’essai e quello del materialismo storico: ognuno di questi modelli ricorre a distinte strategie narrative, ma si rifà agli altri per costruire le proprie specificità. Kristin Thompson ha applicato il metodo critico di Bordwell alla televisione, sostenendo che programmi come Twin Peaks e The Singing Detective possano essere considerati «televisione d’autore», poiché importerebbero sul piccolo schermo regole proprie del cinema d’essai.3 Nonostante sia innegabile che il cinema influenzi molti aspetti della televisione, e in particolare lo stile visivo, preferisco non ricorrere a un modello narrativo legato ai tratti peculiari del cinema per analizzare le serie tv, i cui elementi chiave sono la continuità e la serialità: credo sia più utile creare un vocabolario dedicato alla televisione, basato su termini propri di questo mezzo. Allo stesso modo, le serie tv di oggi sono spesso elogiate perché avrebbero una profondità e una forma «letterarie», ma io credo che questi accostamenti transmediali servano soltanto a sminuire la specificità delle narrazioni televisive, piuttosto che aiutarci a spiegarne i meccanismi. La complessità narrativa delle serie tv dipende da elementi dello storytelling specifici di questo formato, che lo differenziano da quello del cinema e della letteratura, ma anche da quello delle serie episodiche e dei serial convenzionali.

La poetica delle serie tv complesse

Ma cosa intendiamo esattamente con complessità narrativa? Al livello più basilare, la complessità narrativa ridefinisce le forme a episodi in accordo a una narrazione seriale, il che non significa necessariamente una fusione totale tra la struttura a episodi e quella seriale, quanto piuttosto un equilibrio variabile tra i due modelli. Rifiutando il bisogno di trame autoconclusive che caratterizza la forma a episodi, la complessità narrativa dà vita a storie continuative che spaziano tra i generi. La tv complessa ricorre a una gamma di tecniche seriali, partendo dal presupposto che una serie sia una narrazione cumulativa che si espande nel tempo, invece di ristabilire un equilibrio stazionario alla fine di ogni episodio, com’è tipico del modello a episodi. Le narrazioni complesse di oggi sono molto diverse dai loro archetipi novecenteschi, e si sono sviluppate sulla base di numerose innovazioni emerse a partire dagli anni Settanta. Questo nuovo modello non è uniforme e normato, come per tradizione lo sono state le serie a episodi o i serial (non a caso la caratteristica più rappresentativa della tv complessa è, in linea di massima, la sua non convenzionalità), ma è comunque possibile raggruppare un numero crescente di programmi che rifiutano le convenzioni delle serie a episodi e dei serial, proponendo una vasta gamma di affascinanti alternative.4
I prototipi della televisione complessa sono apparsi negli anni Novanta e hanno costituito dei precedenti che i programmi più recenti hanno adottato e raffinato. La serie cult X-Files rappresenta bene quello che può essere il punto di svolta della complessità narrativa: un’interazione tra le necessità dello storytelling a episodi e di quello seriale, spesso oscillante tra episodi autoconclusivi e una macrostoria a lungo termine. Jeffrey Sconce fa notare che ogni singolo episodio di X-Files può riguardare la «mitologia» del programma (un’articolata trama cospiratoria la cui risoluzione viene rimandata all’infinito), ma può anche proporre storie autoconclusive del genere «mostro-della-settimana», che prescindono dall’immaginario più ampio della suddetta mitologia.5 Nonostante X-Files abbia proposto un’ampia gamma di influenti innovazioni narrative, il fatto che verso la fine abbia conosciuto un graduale declino, in termini sia di critica che di ascolti, rivela una delle difficoltà principali della complessità narrativa: trovare un equilibrio tra le esigenze della forma a episodi e di quella seriale, spesso in contrasto tra loro. Secondo molti spettatori e critici di X-Files, con il passare del tempo la serie ha risentito delle troppe incongruenze tra la propria mitologia, complessa, vasta e irrisolta, e l’autonomia degli episodi stile «mostro-della-settimana», che spesso non solo ignoravano, ma addirittura contraddicevano la suddetta mitologia. Per esempio, l’acclamato episodio «Dov’è la verità?», considerato tra i più autoreferenziali, prende in giro le stesse cospirazioni ipotizzate dalla serie, mettendo in discussione alcune delle rivelazioni sulla presenza degli alieni sulla Terra. Nonostante la dedizione degli spettatori, appassionati ai misteri alla base dell’infinita indagine dell’agente Mulder, questo episodio (così come tanti altri) ha reso difficile persino ai fan l’impresa di collocare gli eventi all’interno dell’universo narrativo della serie. Gli spettatori si sono così divisi in due categorie: da un lato, gli appassionati della cospirazione, che consideravano gli episodi autoreferenziali e autoconclusivi come distrazioni dalla mitologia della serie; dall’altro i fan che, in seguito a una macrostoria sempre più inestricabile, hanno cominciato ad apprezzare la libertà e la coerenza interna degli episodi autoconclusivi. Personalmente, mi sono ritrovato in questa seconda categoria, prima però di abbandonare del tutto la serie.
Buffy e Angel sono probabilmente riuscite meglio di X-Files a trovare un equilibrio tra le necessità del formato a episodi e di quello seriale. Benché entrambe le serie propongano una mitologia complessa e condivisa che racconta la battaglia tra le forze del bene e quelle del male, le loro sottotrame sono legate all’arco temporale delle singole stagioni, ognuna delle quali ruota intorno al cattivo di turno. All’interno di una data stagione, quasi ogni episodio aggiunge qualcosa alla macrostoria, ma ha anche una sua coerenza interna e una sua conclusione. Persino gli episodi più atipici o sperimentali riescono a mantenere l’equilibrio tra le esigenze dell’episodio e quelle della serie: ad esempio, la puntata di Buffy intitolata «L’urlo che uccide» presenta dei mostri-della-settimana, conosciuti come i Gentiluomini, che rubano le voci agli abitanti di Sunnydale, e tutto ciò dà vita a un episodio dalla narrazione magistralmente efficace, pur se quasi priva di dialoghi. Nonostante la presenza di cattivi alla loro unica apparizione, e l’inusuale modalità narrativa muta, «L’urlo che uccide» riesce comunque a contribuire su più piani alla narrazione, facendo sì che i personaggi rivelino segreti fondamentali e al contempo approfondiscano i rapporti che alimentano la macrostoria. Ma sono molti gli episodi di Buffy e di Angel che, come questo, riescono a essere sia autoconclusivi sia funzionali alla macrostoria. Entrambe le serie inoltre intrecciano i drammi relazionali e l’evoluzione dei personaggi con le varie sottotrame e macrostorie. Buffy, nei casi più riusciti, ricorre ad accelerazioni narrative per suscitare reazioni emotive nei confronti dei personaggi, e fa sì che siano i loro rapporti a far procedere la trama: «L’urlo che uccide» costituisce un esempio perfetto di questa dinamica, poiché è autoconclusivo nel modo in cui approfondisce il rapporto tra Buffy e Riley, e al contempo aggiunge alla macrostoria dettagli riguardanti l’Organizzazione. Molte altre serie hanno elaborato un proprio modello per riuscire a inserire elementi della macrostoria all’interno di un episodio dalla struttura chiusa: Lost e Orange Is the New Black, ad esempio, ricorrono ai flashback individuali, mentre gli episodi di Veronica Mars e Pushing Daisies sono strutturati su un «caso-della-settimana».
Ma una serie tv complessa non può essere ridotta a una serie a episodi serializzata e trasmessa in prima serata: molte delle serie che adottano questo modello non solo si oppongono alle regole della serialità, ma ricorrono anche a strategie narrative che rifiutano la convenzionalità della forma a episodi. Seinfeld, ad esempio, ha un approccio ibrido e incostante: alcune stagioni sono incentrate su una situazione continuativa, come le riprese della sitcom di Jerry sulla Nbc, l’imminente matrimonio di George o il nuovo lavoro di Elaine. Queste macrostorie servono principalmente da sotto-testo per realizzare degli inside jokes (battute comprensibili soltanto a chi conosce gli antefatti) o dei riferimenti metanarrativi, come quando George propone una storia per un episodio della sitcom «sul nulla» cui sta lavorando con Jerry, e questa storia racconta la serata che i due hanno passato in un ristorante cinese ad aspettare un tavolo, ovvero ciò che è successo nell’episodio precedente. Queste sottotrame fisse richiedono comunque una conoscenza degli antefatti minima, poiché le azioni e gli eventi in esse contenuti di rado si spingono al di là del singolo episodio, come d’altronde rare sono le azioni e gli eventi rilevanti, considerato che la serie si propone di raccontare soltanto cose insignificanti. Se è pur vero che l’apprezzamento dell’universo narrativo da parte dello spettatore aumenta di pari passo con la comprensione delle citazioni interne (come Art Vandelay o Bob Sacamano), per comprendere le singole storie non è necessario sapere qualcosa della macrostoria, come succede invece con X-Files o Buffy. Seinfeld presenta un alto livello di complessità narrativa, poiché si rifiuta spesso di attenersi alle regole su conclusione, risoluzione e distinzione delle sottotrame tipiche della forma a episodi. Molte puntate si chiudono infatti lasciando i personaggi in situazioni insostenibili: Kramer che viene arrestato per aver fatto il pappone, Jerry che corre nei boschi perché è diventato un «lupo mannaro», George bloccato all’interno del bagno di un aereo insieme a un serial killer. Queste situazioni non hanno la funzione di un «cliffhanger», ossia di un finale sospeso, ma piuttosto quella della battuta conclusiva di una barzelletta, di cui però non si parlerà più.
Seinfeld e altre comedy complesse come I Simpson, Malcolm, Curb Your Enthusiasm, Arrested Development e C’è sempre il sole a Philadelphia ricorrono alla forma a episodi mettendone però in discussione alcune convenzioni, come il ritorno all’equilibrio iniziale o la continuità delle vicende, e adottando la serialità a fasi alterne: alcune sottotrame vengono portate avanti, mentre ad altre non si fa mai più riferimento. Arrested Development, una comedy più serializzata di altre, sovverte in modo ancora più deciso queste convenzioni: la maggior parte degli episodi si conclude con un teaser che annuncia «la settimana prossima ad Arrested Development» e contiene delle scene che riprendono le sottotrame della puntata appena terminata. Gli spettatori abituali, però, si rendono conto ben presto che gli episodi successivi non contengono mai queste scene, e che esse non si integrano all’universo narrativo della serie tv (anche se nella terza stagione la serie trasgredirà questa regola, consentendo a una parte delle scene dei teaser di inserirsi nella diegesi). Per contro, I Simpson dimostra di solito un approccio eccessivamente fedele alla forma a episodi, quasi parodistico, rifiutando la continuità tra gli episodi e tornando all’infinito a uno stato di equilibrio perpetuo, in cui Bart è sempre in quarta elementare, Maggie è un’eterna lattante e tutta la famiglia vive in una condizione di stasi disfunzionale. A queste regole ci sono però delle eccezioni: Apu si sposa e ha otto figli, che nell’arco di varie stagioni crescono fino all’età di circa due anni, il che suggerisce che nel ciclo vitale di Springfield debbano essere trascorsi almeno tre anni, benché nessun altro sia invecchiato. Prendendo spesso in giro lo stesso bisogno di ripristinare l’equilibrio iniziale, I Simpson non rende mai facile capire quali trasformazioni verranno «resettate» dopo ogni episodio (sono frequenti i licenziamenti, le demolizioni e i danni nei rapporti umani che vengono annullati nell’episodio successivo) e quali invece saranno portate avanti in un’ottica seriale (come la famiglia di Apu, la relazione tra Skinner e la Signora Caprapall e la morte di Maude Flanders). Queste comedy complesse adottano quindi le norme seriali in modo selettivo, intrecciando alcuni eventi con i loro antefatti e archiviando altri momenti nel dimenticatoio, una distinzione che gli spettatori possono sia ignorare, immaginando che si tratti semplicemente di incoerenza, sia apprezzare, riconoscendo uno dei tratti più sofisticati della complessità narrativa. Analizzando le reazioni dei fan online si evince che il secondo atteggiamento è quello più comune: gli spettatori accolgono la mutevolezza delle norme intrinseche come una delle attrattive di queste comedy complesse.
Questi esempi dimostrano che oggi la serialità narrativa non può essere ridotta alla continuità di una trama, ma va considerata come una variabile sfaccettata, che offre tutta una gamma di potenziali risvolti narrativi. In genere identifichiamo la serialità televisiva con i finali eternamente rinviati delle soap opera, caratterizzate da narrazioni decennali che si accumulano nella memoria di più generazioni di fan. Come vedremo nel capitolo 7, in America le soap opera sono state sinonimo di serialità televisiva per decenni, ma sono tanti gli elementi di continuità seriale che vanno al di là del modello di cui questi melodrammi in daytime sono stati pionieri. Nell’introduzione ho evidenziato quelli che per me sono i quattro elementi costitutivi principali di una narrazione seriale, ovvero il mondo narrativo, i personaggi, gli eventi e la temporalità: scomponendo la serialità in questi quattro elementi si nota subito come anche le serie più episodiche siano comunque serializzate, in qualche modo. Quasi tutte le serie tv finzionali hanno un proprio universo narrativo e propri personaggi, che costituiscono un importante elemento di continuità.6 Tutti gli episodi del famoso procedural Dragnet si svolgono a Los Angeles e hanno lo stesso protagonista, Joe Friday, nonostante gli eventi del singolo episodio non si accumulino a quelli dei precedenti. Anche serie tv considerate a episodi, come il crime procedural Law and Order o la sitcom Due uomini e mezzo, hanno un mondo narrativo coerente e personaggi fissi che permettono agli spettatori di riconoscere i luoghi e le persone già incontrati nelle puntate precedenti. È raro che una serie trasgredisca la natura dei personaggi o la coerenza del proprio immaginario, il che...

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