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Storia, miti e personaggi delle serie tv più popolari

Sue Turnbull, Mauro Maraschi

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Storia, miti e personaggi delle serie tv più popolari

Sue Turnbull, Mauro Maraschi

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Poliziotti e criminali. Delitti e investigazioni. Affari loschi e condotte integerrime. Fin dalle origini della narrazione seriale, il genere crime – nelle sue molte varianti, con le sue evoluzioni progressive – occupa una posizione di assoluto primo piano in televisione, negli ascolti come nei gusti di pubblico e critica, dando vita a personaggi memorabili, raccontando situazioni altrimenti inaccessibili, appassionando gli spettatori episodio dopo episodio, caso dopo caso. Sue Turnbull racconta le storie parallele e intrecciate di questo genere nella televisione statunitense e in quella britannica, senza però dimenticare che il crime si presta molto bene anche a essere esportato, a circolare sui canali tv di tutto il mondo, a venire riproposto in innumerevoli traduzioni. Da Dragnet a Law & Order, da Hill Street Blues a CSI, da Dexter a The Killing, per citare solo alcuni titoli, tra le pagine di questo libro si dipana una storia che parte dalla radio e approda alle piattaforme digitali. Sono messe in fila le parole chiave del genere, le case history più rilevanti, le principali traiettorie nella rappresentazione del male e della lotta contro di esso, le ibridazioni e contaminazioni con altri generi, le possibili chiavi di lettura. Il libro è arricchito inoltre da alcune riflessioni conclusive sul ruolo del genere nello scenario mediale contemporaneo, dove gli stabili archetipi narrativi e l'appeal globale sono diventati un punto di forza ulteriore per un tipo di serialità che non invecchia ma mantiene intatta tutta la sua rilevanza. E, persino, la accresce.Questo volume è stato realizzato grazie alla collaborazione con Tivù S.r.l.

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LE ORIGINI DEL CRIME

Le storie che parlano di delitti e castighi occupano un ruolo centrale nella matrice narrativa della maggior parte delle culture. Secondo John Cawelti, a «sdoganare il tema» fu Omero con l’Iliade; l’omicidio era il tema preferito dei drammaturghi greci e romani, ma anche di Shakespeare e di altri autori a lui contemporanei, ed è pertanto ragionevole affermare che «il crimine è presente nella letteratura fin dai suoi inizi».1 Sempre secondo Cawelti, gli esseri umani sono «affascinati dalle storie di omicidi, aggressioni, furti e malefatte di ogni tipo».2 Queste storie di finzione, però, affondano le loro radici nel mondo del crimine «reale». Per fare un esempio, The Newgate Calendar, un bollettino mensile nato nel diciassettesimo secolo per raccontare le storie dei prigionieri in attesa di processo nel carcere londinese di Newgate, ha continuato a essere pubblicato per più di due secoli.3 Ufficialmente, questi resoconti avevano finalità educative. Adulti e bambini erano esortati a leggere o farsi leggere il Newgate Calendar, o quantomeno a guardarne le macabre illustrazioni, per non dimenticare mai quali potevano essere le pesanti ripercussioni di una vita votata al crimine.
Citando in apertura il Newgate Calendar questo capitolo intende far risalire le origini del crime drama televisivo alla cronaca e alla letteratura investigativa, ma anche al cinema e alla radio. Il crimine era un argomento popolare già prima dell’avvento della televisione ed era stato sfruttato da tutti i media esistenti, creando e alimentando quel bacino di possibilità narrative e stilistiche al quale gli autori dei crime drama hanno potuto attingere ieri come oggi. Non che gli intenti di queste rappresentazioni siano sempre stati chiari. Nell’introduzione di una recente edizione del Newgate Calendar si ipotizza che il giornale mirasse a
inculcare i principi della rettitudine attraverso la paura della condanna o, quantomeno, applicando una morale tanto inflessibile quanto trita alle storie di banditi e criminali. I curatori di una delle edizioni inserirono addirittura nel frontespizio un’illustrazione in cui una madre devota ne porge una copia al figlio (di circa otto anni), mentre indica fuori dalla finestra nella direzione di un corpo appeso alla forca.4
Evidentemente i moralisti non avevano previsto la possibilità che la rappresentazione dei banditi, o addirittura delle pubbliche esecuzioni, potesse essere vissuta come «intrattenimento». Fatto sta che, per qualunque motivo la gente lo leggesse, il Newgate Calendar diventò così popolare da essere ristampato e aggiornato parecchie volte nel corso dei successivi due secoli.5
In The Invention of Murder,6 Judith Flanders fornisce prove convincenti di quanto fosse alto l’interesse per la cronaca agli inizi del diciannovesimo secolo. Gli omicidi sensazionali, come quello di Timothy Marr e della sua famiglia avvenuto nel 1811 (il primo di due casi collegati e rimasti noti come «gli omicidi di Ratcliffe Highway»), venivano raccontati dai quotidiani ma anche da quel mezzo di comunicazione ante litteram chiamato «broadside».7 Si trattava di un singolo foglio di carta, stampato su un solo lato, e venduto per pochi spiccioli a chi non poteva permettersi un quotidiano. Il contenuto di questi «volantini» riusciva a diffondersi con grande rapidità e a coprire grandi distanze, considerato che a quanto pare coloro i quali erano in grado di leggere li declamavano per gli analfabeti. La cosa interessante, per chi studia la storia del crime drama, è la serialità di questi volantini. Proprio come le serie tv con un plot che si sviluppa nel corso di varie puntate, i volantini potevano proporre gli aggiornamenti di un caso di cronaca man mano che si dipanava, iniziando col resoconto dell’arresto e del processo per concludersi con la pubblicazione dello «straziante mea culpa» del condannato o con la sua «ultima confessione».8 Queste edizioni finali, secondo Flanders, erano solitamente inventate di sana pianta, considerato che venivano vendute nel luogo dell’esecuzione mentre il corpo ancora oscillava sulla forca.
Per quanto abbiano avuto luogo più di duecento anni fa, i delitti di Ratcliffe Highway non hanno mai smesso di influenzare il modo di raccontare il crimine. Nel 1927 Thomas De Quincey forniva una divertente descrizione dell’interesse per il crimine nel saggio L’assassinio come una delle belle arti, pubblicato per la prima volta sul Blackwood’s Magazine. Sotto forma di satira di un’immaginaria «Società degli intenditori dell’assasinio», De Quincey prendeva in giro coloro che erano affascinati da questo tipo di storie raccapriccianti: «Si professano curiosi in materia di omicidio; amatori e dilettanti nei vari tipi di carneficina; e, in breve, appassionati di delitti».9 Ma la storia di Timothy Marr non è stata dimenticata nemmeno dalla tv, come dimostra il recente episodio in due parti dedicatole dalla serie britannica Whitechapel (Itv, 2009-2013), nella quale la polizia è alle prese con delitti che replicano crimini passati alla storia.
L’attuale rappresentazione narrativa del crimine ha anche un forte legame col fatto che, nel diciannovesimo secolo, gli omicidi sensazionali cominciarono a essere adattati a teatro nei modi più melodrammatici.10 Uno dei casi più rappresentati è quello di Maria Marten, figlia di un cacciatore di talpe del Suffolk, uccisa da uno spasimante, William Corder, e seppellita vicino Polstead.11 I resoconti dell’«omicidio del Red Barn» («fienile rosso»), come fu subito etichettato, apparvero presto sui quotidiani, che non vedevano l’ora di rendere la storia ancora più elettrizzante e attraente per i propri lettori. Il primo dei tanti adattamenti andò in scena nel maggio del 1828 proprio a Suffolk, durante la sagra di Stoke-by-Nayland, mentre l’imputato era ancora in attesa del processo.12 Stando ai giornali dell’epoca, sembra inoltre che durante le udienze fosse stato allestito nei dintorni del tribunale uno spettacolo di «camera oscura» in cui Corder era descritto come l’assassino.13 Poco tempo dopo, la Staffordshire Pottery realizzò una riproduzione in ceramica del Red Barn, corredata dalle statuette di Corder e Martens e da un grazioso maialino, una delle prime testimonianze di quanto un’ambientazione e un personaggio secondario possano giocare un ruolo importante nella rappresentazione popolare del crimine.14
Tra gli adattamenti artistici di quello che può essere considerato il primo evento transmediale, alimentato dall’interesse per l’omicidio a sfondo sessuale di una giovane donna (bianca), apparve presto anche un romanzo scritto dall’autore «penny blood» Robert Huish, che in seguito si sarebbe specializzato nel genere dei libri «true crime»;15 per chi non lo sapesse, la formula «penny blood» indicava alcuni libretti illustrati (ribattezzati «penny dreadful» negli anni Sessanta dell’Ottocento) che raccontavano omicidi efferati e avventure di banditi.16 Ma del delitto del Red Barn si è parlato anche nel ventesimo secolo. Il film Maria Marten – The Murder in The Red Barn, diretto da Milton Rosmer nel 1935, fu soltanto il primo di cinque adattamenti, e ancora nel 1992 il musicista americano Tom Waits inseriva la canzone «Murder in the Red Barn» nell’album Bone Machine, dimostrando quanto possa essere longeva una buona storia di sangue.17
In seguito al crescente interesse per questo e per altri casi nel corso del diciannovesimo secolo, i moralisti cominciarono a esprimere preoccupazione riguardo alle eventuali ripercussioni di materiale tanto efferato sull’immaginario collettivo, un timore che non è stato certo placato dalle recenti rappresentazioni del crimine sullo schermo. Fin dall’inizio questa preoccupazione era legata a questioni di classe: se i moralisti abitavano i gradini più alti della società, infatti, i consumatori della cultura di massa corrispondevano perlopiù alla nuova classe operaia prodotta dall’interazione tra industrializzazione, capitalismo e politica. Al contempo, anche la middle class aveva le sue storie criminali, che tendevano però a essere più finzionali che reali.

Il crime «classico»

L’affermazione del genere poliziesco tra i lettori della middle class del diciannovesimo secolo si fa spesso coincidere con la pubblicazione, nell’aprile del 1841, del racconto «I delitti della Rue Morgue», scritto dall’americano Edgar Allan Poe. In realtà, come ha rivelato l’esperta di letteratura criminale Lucy Sussex, sono molti i testi che si contendono questo primato, tra cui un romanzo pubblicato anonimamente nel 1841 dall’autrice britannica Catherine Crowe, e intitolato Adventures of Susan Hopley, Or Circumstantial Evidence, che racconta di un omicidio e di una misteriosa scomparsa risolti da tre investigatrici donne.18 Come dimostra Sussex, nella storia della crime fiction c’è sempre stata la tendenza a sottovalutare il ruolo delle donne sia in quanto autrici che investigatrici o pubblico di riferimento.
È evidente che la diffusione del genere letterario della crime story, nel corso del diciannovesimo secolo, andò di pari passo con l’affermarsi di un corpo di polizia stipendiato e organizzato, e con la comparsa del personaggio letterario dell’investigatore indipendente in grado di competere con le forze dell’ordine, come nel caso delle Adventures of Susan Hopley di Crowe o «I delitti della Rue Morgue» di Poe. Eppure, piuttosto che raccontare il lavoro di squadra della polizia, la crime fiction tendeva a dar spazio all’operato di un abile investigatore solitario, dall’Auguste Dupin di Poe allo Sherlock Holmes di Conan Doyle, quest’ultimo apparso per la prima volta nel racconto «Uno studio in rosso», pubblicato nel 1887 sul Blackwood’s Magazine. Creati a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro, Dupin e Holmes sono stati entrambi considerati detective «raziocinanti», aggettivo utilizzato dallo stesso Poe per descrivere i metodi di Dupin e che merita di essere approfondito, considerata la sua influenza sullo sviluppo del crime drama televisivo.19
Nell’introduzione di Wilbur S. Scott alle opere complete di Poe c’è una descrizione di Dupin che può tornare utile per capire quanto questo personaggio abbia influenzato la creazione di molti detective successivi, sia in letteratura che sullo schermo:
[Dupin] non è soltanto intellettualmente più dotato di altri; è anche un uomo stravagante; proviene [...] da una famiglia illustre; è un appassionato lettore di volumi rari; può lasciarsi andare a «un’incredibile melanconia», vive in una «villa eccentrica e fatiscente», e rifugge la luce del giorno perché «ammaliato dalla Notte per il bene di quest’ultima. In breve, un uomo solitario e straordinariamente acuto».20
Questa descrizione di Dupin del 1849 calza bene anche allo Sherlock Holmes interpretato da Jonny Lee Miller nella recente serie tv americana Elementary (Cbs, 2012-). Il che non deve sorprendere, considerato che lo stesso Conan Doyle, il creatore di Holmes, era stato influenzato dai racconti polizieschi di Poe. Risulta sorprendente, semmai, quanto l’Holmes di Elementary sia più dark delle sue altre rappresentazioni sullo schermo, come vedremo nel capitolo 4.
Il raziocinio applicato all’investigazione è di solito descritto come una combinazione di attenta osservazione e ragionamento deduttivo applicata al processo di risoluzione di un caso. In più, sia Dupin che Holmes fanno sfoggio di una logica deduttiva, la capacità di scoprire la verità attraverso il collegamento di «fatti» apparentemente sconnessi. Questa combinazione di prove empiriche e intuito ha continuato a essere la base di molte storie investigative, sia sullo schermo che altrove, con l’investigatore televisivo di volta in volta più propenso all’empirismo o ad affidarsi all’intuito. Per fare un esempio, se l’agente della scientifica Gil Grisson di CSI può essere considerato un «empirista» che fa...

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