I tre usi del coltello
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I tre usi del coltello

Saggi e lezioni sul cinema

David Mamet

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I tre usi del coltello

Saggi e lezioni sul cinema

David Mamet

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Questo libro, a metà strada fra l'autoritratto di un mostro sacro di Hollywood e il manuale per aspiranti cineasti, ha riunito per la prima volta in italiano i saggi del premio Pulitzer David Mamet. Sceneggiatore, regista, attore, produttore, drammaturgo, romanziere e perfino poeta, Mamet è una delle figure più complesse e affascinanti del cinema dei nostri tempi. Ha messo la firma a film che hanno fatto la storia del cinema, tra cui Il verdetto, Il postino suona sempre due volte, Gli intoccabili e Hannibal.Il libro si divide in tre sezioni: la prima, «I tre usi del coltello», si occupa della natura del lavoro dello sceneggiatore e degli obiettivi del raccontare storie; «Dirigere un film», la seconda parte, è l'appassionante trascrizione di una serie di lezioni di regia che Mamet ha tenuto alla prestigiosa Columbia University; la terza e ultima, «Vero e falso», è dedicata al ruolo dell'attore e si rivolge non solo a chi recita ma anche a chi deve dirigere gli attori sulla scena. Sorprendente, lucida, irritante, magistrale, rivoluzionaria, divertente: ecco come si rivela la voce di Mamet in questo libro composito e unico, imprescindibile per chiunque voglia scoprire cosa fa di un film un capolavoro.

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Information

Publisher
minimum fax
Year
2023
ISBN
9788875218041

SECONDA PARTE
DIRIGERE UN FILM

a Mike Hausman
I più felici sono quelli che non hanno storie da raccontare.
Anthony Trollope,
He Knew He Was Right

PREFAZIONE

Questo libro si basa su un ciclo di lezioni che ho tenuto nell’autunno del 1987 alla scuola di cinematografia della Columbia University.
Si trattava, in particolare, di un corso di regia. Avevo appena finito di girare il mio secondo film, e come un pilota con duecento ore di volo alle spalle ero la cosa più pericolosa che si potesse avere la sfortuna di incontrare. Pur essendo indubbiamente molto più che un neofita, non avevo ancora abbastanza esperienza per rendermi conto di quanto fossi ancora ignorante.
Ciò vi serva da attenuante per un libro di regia scritto da un tizio che, al momento della sua stesura, della regia aveva in realtà una conoscenza piuttosto scarsa.
A mia discolpa, però, mi si lasci dire quanto segue: le lezioni della Columbia trattavano, e si sforzavano di spiegare, una teoria della regia cinematografica che avevo elaborato a partire dalla mia ben più consistente esperienza come sceneggiatore.
Recentemente, ho letto la recensione di un libro che parla della storia di uno scrittore che andò a Hollywood cercando di far carriera come sceneggiatore. Ma il suo era un progetto del tutto velleitario, diceva l’autore della recensione: come poteva sperare di avere successo come sceneggiatore, quando era praticamente cieco!
Chi ha scritto quella recensione evidentemente non doveva sapere molto di come si scrive una sceneggiatura. Per scrivere un film non serve una buona vista, ma una buona immaginazione.
C’è un bellissimo libro che si intitola The Profession of the Stage Director [La professione del regista teatrale], di Georgi Tovstonogov, in cui l’autore dice che le cantonate più grandi il regista le prende quando ha troppa fretta di trovare soluzioni visive o pittoriche.
Quell’osservazione mi è stata incredibilmente utile nel corso della mia carriera di regista teatrale; nonché in seguito, nel mio lavoro di sceneggiatore. Comprendere qual è il vero significato di una scena e portare quello sul palcoscenico, dice Tovstonogov, significa fare il lavoro tanto dell’autore che dello spettatore. Se uno inizia subito a preoccuparsi di creare una scena che sia esteticamente gradevole, pittorica o descrittiva, in seguito cercherà a tutti i costi di inserire quella messa in scena nella progressione logica dell’opera teatrale. In più, sforzandosi di includere quella messa in scena tanto bella, si finirà necessariamente per affezionarcisi, a scapito della qualità della pièce.
Questo consiglio di Hemingway è un altro modo di esprimere lo stesso concetto: «Scrivi la storia, elimina tutte le belle frasi e vedi se funziona ancora».
La mia esperienza di regista, e di drammaturgo, è questa: un’opera è tanto più emozionante quanto più l’autore riesce a resistere alla tentazione di metterci delle cose.
Un buono sceneggiatore può migliorare solo se impara a eliminare, a fare a meno di ciò che è ornamentale, descrittivo, narrativo, per non parlare di ciò che è sentito o significativo. Cosa resta? Resta la storia. E cos’è una storia? La storia è quella sequenza essenziale di avvenimenti che separano l’eroe dal conseguimento del suo scopo.
Ciò che conta, come diceva Aristotele, è ciò che accade all’eroe, non ciò che accade allo scrittore.
Non c’è bisogno di avere una buona vista per scrivere una storia del genere. Piuttosto, bisogna essere capaci di pensare.
Scrivere sceneggiature è un’attività che si basa sulla logica. Consiste nel porsi assiduamente alcune domande fondamentali. Cosa cerca l’eroe? Cos’è che gli impedisce di ottenerlo? Cosa succede se non l’ottiene?
Se si seguono le regole che risultano dall’applicazione di questi quesiti, si otterrà una struttura logica, un profilo, a partire dal quale si costruirà poi l’opera il dramma. In un’opera teatrale, questo profilo viene poi consegnato all’altra parte della psiche del drammaturgo: l’ego del creatore della struttura lo passa all’id, che scriverà il dialogo.
Secondo me, succede qualcosa di analogo quando lo sceneggiatore che ha creato la struttura consegna il profilo drammatico del film nelle mani del regista.
Ho sempre visto, e vedo tuttora, il regista come un’estensione dionisiaca dello sceneggiatore, ovvero (cosa che peraltro dovrebbe sempre accadere) come colui che rifinisce il lavoro in modo tale da rendere invisibili le fatiche del lavoro tecnico.
Io sono approdato alla regia a partire dalla sceneggiatura, e per me il mestiere di regista era una felice estensione di quello di sceneggiatore; è questo che ho insegnato nel corso delle mie lezioni, ed è anche quello che ora vi propongo in questo libro.

RACCONTARE UNA STORIA

Le principali domande a cui un regista deve rispondere sono: «In che punto va messa la cinepresa?» e: «Cosa devo dire agli attori?»; e, subito dopo: «Di cosa parla questa scena?» Ci sono due modi di risolvere questi problemi. La maggior parte dei registi americani risolve il problema dicendo: «Seguiamo l’attore», come se il film fosse un resoconto di tutto ciò che fa il protagonista.
Ora, se il film deve essere un resoconto delle azioni del protagonista, c’è da sperare che almeno sia interessante. Questo approccio, quindi, mette il regista nella condizione di dover girare il film in maniera «nuova», interessante; pertanto si chiederà in continuazione: «Qual è il punto più interessante dove mettere la cinepresa per girare questa scena d’amore? Qual è il modo più interessante per filmarla così che sia chiaro tutto ciò che succede? Qual è un modo interessante in cui potrei far comportare l’attore nella scena in cui, ad esempio, lei gli chiede di sposarla
La maggior parte dei film americani è girata in questo modo, come se il film dovesse sempre essere un reportage di ciò che la gente fa nella vita reale. Ma c’è anche un altro modo di fare i film, che poi è quello suggerito da Ejzenštejn. Questo metodo non ha niente a che vedere con il procedimento di seguire il protagonista, ma è piuttosto una successione di immagini giustapposte in modo tale che il contrasto fra le immagini faccia andare avanti la storia nella mente dello spettatore. È sicuramente una sintesi piuttosto scarna della teoria del montaggio di Ejzenštejn; ma è la prima cosa che so di come si gira un film, e forse anche l’unica.
Quello che dovete sempre fare è raccontare una storia mediante un montaggio di scene. Ovvero, attraverso una giustapposizione di immagini che fondamentalmente non siano in alcun modo enfatizzate. Ejzenštejn dice che l’immagine migliore è l’immagine neutra, priva di enfasi. L’inquadratura di una tazza da tè. L’inquadratura di un cucchiaio. Di una forchetta. Di una porta. Lasciate che sia il montaggio a raccontare la storia. Perché altrimenti non si ha azione drammatica, ma narrazione. Se vi lasciate andare alla narrazione, è come se steste dicendo: «Non indovinerete mai perché quello che vi ho appena detto è essenziale per capire la storia». È irrilevante che il pubblico indovini perché quella cosa è essenziale ai fini della storia. Quello che conta è soltanto raccontare la storia. Lasciate che il pubblico si stupisca.
Dopotutto, il cinema, molto più del teatro, assomiglia al nostro modo quotidiano di raccontare le storie. Se fate attenzione al modo in cui la gente racconta una storia, vi accorgerete che tutti procedono in maniera cinematografica. Saltano da una cosa all’altra e la storia procede per immagini giustapposte, ovvero, grazie a un montaggio.
Uno può dire: «Ero lì fermo all’angolo. C’era un sacco di nebbia. A un certo punto vedo dei tipi che iniziano a correre come pazzi. Forse per via della luna piena. All’improvviso, arriva una macchina e quello che sta accanto a me fa...»
Se ci riflettete, è un elenco di inquadrature: 1) un uomo che sta fermo a un angolo di strada; 2) inquadratura della nebbia; 3) la luna piena in cielo; 4) un uomo che dice: «In questo periodo alla gente gli dà sempre di volta il cervello»; 5) una macchina che si avvicina.
Un buon film si fa così, mettendo insieme più immagini. Ora, voi state seguendo la storia. Quello che vi chiedete è: che succederà adesso?
L’unità minima è l’inquadratura. L’unità massima è il film. E l’unità di cui soprattutto si deve occupare il regista è la scena.
Ma prima di tutto vengono le inquadrature: è la somma delle inquadrature che manda avanti il film. Sono queste che fanno la scena. Ogni scena è, formalmente, un saggio. È un film più piccolo. Potremmo dire che è una specie di documentario.
I registi dei documentari prendono materiale per lo più sconnesso e lo giustappongono in modo da comunicare allo spettatore l’idea che vogliono esprimere. Riprendono un uccello che spezza un rametto. Poi riprendono un cerbiatto che alza la testa. Le due inquadrature non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra. Sono state riprese a distanza di giorni, o anni, o chilometri. Ma l’autore giustappone le immagini in modo da dare l’idea di grande allerta. Le due inquadrature non sono connesse. Non sono un resoconto delle azioni del protagonista. Non si tratta di un reportage sul modo in cui il cervo reagisce all’uccello. Sono immagini essenzialmente neutre. Ma se sono accostate danno ugualmente allo spettatore l’idea di allerta in vista di un potenziale pericolo. Questo significa essere in grado di fare dei bei film.
Ora, i registi dovrebbero fare la stessa cosa. Dovremmo tutti cercare di fare come gli autori dei documentari. E in più avremo questo vantaggio: possiamo noi stessi andare a mettere in scena – per poi filmarle – le immagini non enfatizzate che ci servono per la nostra storia. Dopodiché possiamo montarle. In sala di montaggio, uno non fa altro che pensare: «Qui ci starebbe benissimo un’immagine di un...» Be’, prima di girare il film avete tutto il tempo che volete: potete decidere quali sono le inquadrature che vi serviranno in seguito, e andarle a riprendere.
In questo paese, quasi nessuno sa scrivere una sceneggiatura. La maggior parte delle sceneggiature contiene materiale che non si può filmare.
«Nick, un giovanotto sui trenta, con una spiccata vocazione per l’anticonformismo». Non potete filmarlo. Come si fa? «Jodie, una ragazza dal vistoso look alternativo, che sta seduta sulla stessa panchina da trenta ore». Come la rendete una cosa del genere? Non si può. A meno di non ricorrere alla narrazione (visiva o verbale). Visiva: Jodie guarda l’orologio. Dissolvenza. Sono passate trenta ore. Verbale: «Be’, va bene che sono una tipa alternativa, ma non è stato mica facile, restarmene seduta su questa panchina per trenta ore di fila». Se vi accorgete di non poter rendere un’idea se non facendo ricorso alla narrazione, è praticamente sicuro che quell’idea non è essenziale per lo sviluppo della storia (ovvero, per il pubblico): gli spettatori non hanno bisogno di informazioni, ma di azione. A che servono dunque tante informazioni? Producono solo quell’orribile trascinarsi della narrazione che inquina quasi tutte le sceneggiature dei film americani.
La maggior parte delle sceneggiature viene scritta per il pubblico dei dirigenti delle case di produzione. Ma i produttori non sanno leggere le sceneggiature. Non ce n’è uno solo che sappia leggere una sceneggiatura. Una sceneggiatura dovrebbe essere una giustapposizione di inquadrature neutre che messe tutte insieme raccontano una storia. Leggere una sceneggiatura e «vedere» il film è una cosa che richiede o una buona cultura cinematografica, oppure una certa naïveté, due cose che di solito ai produttori mancano. Il lavoro del regista consiste nel costruirsi un elenco delle inquadrature, a partire dalla sceneggiatura. Il lavoro sul set non è nulla al confronto. Sul set non dovete fare altro che rimanere svegli, segu...

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