C’era bisogno di un contabile, ma fu un ballerino a ottenere il posto.
Beaumarchais, Il barbiere di Siviglia
-Danzatore.
-Le ho domandato la sua professione.
Io ripeto la mia risposta.
-Danzatore.
-Che professione ridicola!
E io, a botta pronta:
-Non più ridicola della sua.
Questa è la risposta che do al vigile che ferma la mia auto una sera di maggio del 1968 all’uscita dalla Sorbona. Dal vetro aperto, gli porgo i miei documenti, ma gli servono spiegazioni a proposito della denominazione che vi decifra: “artista coreografico”! Di qui la domanda “la sua professione” e il piccolo scambio che ne segue. La mia ultima replica sembra proprio non piacergli.
Mi ingiunge di uscire dall’auto, intraprende seduta stante una perquisizione in piena regola, portabagagli compreso per quanto riguarda la vettura, tasche e zone intime per quanto riguarda la mia persona.
A circostanze particolari, metodi particolari. Ma in fondo non è che una variazione di un’aria ben nota.
“Danzatore!”
Ditelo al vostro vicino di pianerottolo, nella bottega del vostro macellaio, nel garage del vostro meccanico, in visita alle officine Renault, nel parlatorio di una prigione…
“Cosa?”
Che razza di cosa è?
Un grande silenzio. Un’esclamazione muta, una sfilata di pensieri e di immagini, fin dall’inizio senza ricorso alla parola.
Più d’una volta siete stati tentati di rispondere “ballerina”, tanto quel che si illumina negli occhi dell’interlocutore vi informa sulle immagini che gli sono venute in mente. A ben rifletterci, sarebbe forse più rapido e più chiaro. Lui vi vede in tutù o in piume e lustrini! Momento di sogno! Però voi non siete una femmina e allora siete un finocchio. Se foste una ragazza, è probabile che sareste una poco di buono. Difficile abituarcisi.
“A parte questo, che cosa fa?”, è la domanda che arriva all’uscita di una rappresentazione in cui avete tentato di dar prova della vostra capacità, del vostro mestiere, della vostra arte.
Qual è il vostro mestiere, il vostro vero mestiere, un qualche mestiere serio? Tra parentesi, è da notare la delicatezza di quel “questo”.
Che cos’è che fate? In cosa impiegate il vostro tempo? Come se il tempo della scena in cui siete stato colto fosse il solo tempo della danza. Che cosa può mai farne del suo tempo il danzatore, quando non è in scena? Si gira i pollici, forse.
Invece è nello studio – la sua sala di danza – o in qualsiasi altro luogo dove gli sia permesso danzare. Lavora. Qualunque sia il suo statuto, il suo grado di apprendimento, i suoi mezzi tecnici, il suo senso artistico, si dona alla danza, vi si consacra. Addomestica il suo corpo, fa fronte alle insidie delle legazioni dei passi, al complesso coordinamento dei movimenti l’uno con l’altro. È in una sorta di cucina gestuale, spaziale e temporale, dove gli ingredienti, benché alla sua portata, cozzano tra loro, si contraddicono, fanno fatica ad armonizzarsi. È concentrato, con un pizzico d’impazienza, d’irritazione, ma anche di piacere, il piacere di riuscire alla fine a sbrogliare la matassa del movimento danzato e della sua complessità. Fa e rifà. Abbandono, nuovo tentativo, ancora, ancora. Fa pensare alla sublime frase di Beckett: “sbagliare, sbagliare ancora, sbagliare meglio”.
Come allievo, il danzatore sa che è spiato dall’insegnante, che secondo i momenti l’ammonisce o l’incoraggia, gli prodiga dei consigli, o invece lo critica severamente, lo mette di fronte alle sue difficoltà, alle sue carenze, alle sue debolezze. Questo sguardo su di lui è piuttosto neutro, i commenti sono d’ordine tecnico, senza passione, più di valutazione che di giudizio.
Tutt’altro è il toccare, il contatto. L’insegnante gli si avvicina e posa la mano su questa o quella parte del corpo, cercando di indurre il movimento, di guidarlo, di aiutarlo a realizzarsi. È tutta un’altra comunicazione. Le osservazioni, le indicazioni, le correzioni sono niente in confronto a questo dialogo senza parole, a questa pedagogia intima, come un calore che si diffonde. Intimità condivisa. Momento di felicità. Troppo breve forse, ma che comunque porta con sé la speranza della danza.
Viene il momento in cui lo sguardo è quello del coreografo che cerca di far entrare il danzatore nel suo immaginario, nel suo progetto. Sguardo meno generalista, meno generoso, più puntato su degli obiettivi precisi, orientato a un rendimento necessario. Bisogna che funzioni. Il coreografo deve arrivare al suo scopo, costruire la coreografia. Questo tipo di rapporto non è sempre facile. Può perfino portare a un colpo fatale di disperazione, ma può anche essere un trampolino salvatore.
Tutt’altro sarà lo sguardo di colui o colei che si introduce nello spazio di lavoro, il visitatore, noto o sconosciuto, che non ha necessariamente sentore di quel che si trama, un altro occhio, nuovo, inatteso. È un occhio in sospeso, che sta all’erta. Si va a vivere un istante unico, che prelude a quello della futura rappresentazione.
Il danzatore, la danza (la coreografia), lo spettatore. Ecco la trilogia in campo.
Ma torniamo alle nostre questioni. Cos’è un buon danzatore? Come si vede? A occhio nudo? In immagine? Nel suo atteggiamento? Il danzatore che vi attira, che amate, che non cessate di guardare in mezzo agli altri, di seguirne le tracce nel dedalo della coreografia, che rimpiangete di perdere di vista alla sua uscita di scena, di cui attendete il ritorno, quel danzatore là, che cosa ha di diverso, cos’è che lo distingue?
Strano affare, strana storia! È il più abile a eludere i tranelli della coreografia? C’è un’eziologia di quella grazia, uno studio sulle sue cause? Si può cercare, ma a rischio di non trovare che il pelo nell’uovo. Dei dettagli, sì, che lo differenziano: nel suo portamento fisico, la sua silhouette, la sua presenza, ma la sua danza… Registrare tutti questi dettagli è certo molto utile allo studio della sua complessità, dell’estrema ricchezza delle sue componenti, della diversità delle sue variazioni, del sale della sua interpretazione, ma tutto questo è ben poco davanti al fatto compiuto, davanti alla realizzazione di quella danza, non soltanto perché si assiste alla sua messa in atto, ma perché si è di fronte alla particolarità del suo svolgimento, alla perfezione della sua scrittura e alla sua bellezza intrinseca, davanti alla sua grazia.
È sempre difficile parlare di una danza. Si possono trovare degli espedienti per farlo malgrado tutto senza però evitare la pedanteria. A volte è il negativo che rivela il positivo. “Mademoiselle Sakharoff1 – scrive un grande critico degli anni Trenta – avrebbe potuto essere una ballerina”. Questo signore non vede la danza che si aspetta, quella che spera, perché la venera tra tutte, la danza classica; vede qualcosa che lo disorienta, che forse lo mette a disagio, e tuttavia quel qualcosa trattiene la sua attenzione, senza che si dia pena di parlarne, qualcosa che gli sembra appartenere al territorio della danza, anche se non è la danza sperata. La verità è che Mademoiselle Sakharoff è stata una danzatrice della razza delle divine, delle inesplicabili, delle indicibili, portatrice di una danza di cui, non sapendo che dirne, si dichiara che è indimenticabile. “Indimenticabile” è stato per molto tempo il termine per estasiarsi su una danza; oggi si dice “interessante”. Cambiamento d’epoca e di mentalità.
La grazia della danza a questo stadio non è lontana dalla grazia infantile. Affiora e così sembra sorgere dalle profondità dello spazio, ne diventa la musica. È una danza primaria?
Ma cos’è dunque questo danzatore? Molto sinceramente e in contrasto con quel che si dice, io penso che il corpo del danzatore non è uno strumento per la danza.
È il danzatore che fa la danza, egli è la danza che va facendosi, egli è la danza. Il maestro di danza non è là per fabbricare un buono strumento, è là per risvegliare lo spirito dell’uomo che si mette a danzare.
Non c’è danza se la danza non emana dallo spirito di colui che danza. Tutto il resto non è che ginnastica, gesticolazione, figura. La danza è l’atto creatore di chi s’appresta a danzare, che ha preso questa decisione nel suo intimo e che sta per affrontare un rischio inaudito, quello di profferire di getto più che fare la dimostrazione più o meno orgogliosa della sua danza, la sua esposizione più o meno narcisistica. Danzare è la scelta ambiziosa e temeraria di colui che decide d’essere senza parola.
La mia nonna materna, le mie due zie, in ogni occasione, feste scolastiche, Natale, compleanno, matrimonio, battesimo… che so io, si sforzavano di farmi imparare una poesiola, una canzoncina, un piccolo omaggio… Io mi lanciavo nell’avventura con entusiasmo, ma non ho alcun ricordo, ahimè, di essere mai arrivato alla fine della mia missione. Venuto il momento, restavo muto, in un blocco totale rapidamente seguito da singhiozzi, per finire inondato di lacrime. Così grande era il mio desiderio, che nell’istante di soddisfarlo, piombavo in un mutismo irresistibile, preludio alla tempesta e a una tristezza memorabile. E se avessi potuto o saputo danzare a quell’epoca? Se avessi osato danzare? La danza avrebbe senza dubbio trasceso il silenzio e si sarebbe sostituita alle lacrime.
Non si arriva forse alla danza per mancanza di parola? Da parte mia, mi interrogo sulla difficoltà che mi colpisce a prendere la parola in pubblico e che si frappone a certi progetti che tento di realizzare. Apprendista attore alla scuola di Charles Dullin, mi ricordo l’angoscia prima di recitare una scena, compensata per fortuna dalla felicità delle improvvisazioni mute. Ancora oggi, l’angoscia dei convegni, iniziare una comunicazione, fare delle domande al volo… profondo desiderio di andarci, terrore al momento di farlo, spesso frustrazione nel rinunciare. In questa lacuna, c’è anche l’impossibilità di dire quel che si vorrebbe dire, quel che non può essere detto, quello che non si dice. Danzare, è forse dire quel che non si dice.
Ma c’è anche la propensione alle lacrime, ai pianti, che hanno ritmato la mia infanzia e punteggiato la mia vita e che sono forse, in parte, l’espressione visibile e palpabile della difficoltà di parlare. La danza ha preso il posto di questa lacuna di parole e di questo sovrappiù di lacrime? Si diventa danzatore perché non si disprezzi il nostro pianto e non si scherniscano le nostre lacrime?
Piangere è una fortuna, sì una fortuna, che ho ereditato da mia madre, grande piangitrice ai suoi tempi, che non ringrazierò mai abbastanza per avermi trasmesso la sua passione. Mia madre piangeva per un sì o per un no, per un nonnulla si può dire. Le lacrime le spuntavano nei momenti più inattesi, per delle cause tanto futili che sublimi, al passato come al presente. Aveva preso l’abitudine di non nascondersi, era una sua maniera di non nascondere nulla della sua sensibilità a fior di pelle, che esibiva così in tutta semplicità e franchezza.
È veramente incongruo piangere, amare piangere, amare le lacrime da piangere? Quanti pianti non ho repressi nella mia vita, di gioia come di pena. Io piango alla sepoltura di quelli che ho conosciuto e che sono perduti per me. Le mie lacrime chiamano altre lacrime, quelle che non ho pianto. Io piango di piangere e le lacrime s’aggiungono alle lacrime. Sono questi pianti che io danzo da settant’anni, che ho trasposto e traspongo ancora nei gesti che faccio? Viene il silenzio, poi vengono le lacrime, poi… la danza? Danzo forse i pianti che non posso piangere? Si è mai visto un danzatore piangere in scena? È nella sua danza che si annidano i suoi pianti.
Non si arriva alla danza anche per la difficoltà di entrare in certi gesti della vita corrente, per mancanza di un’abilità facile, per ripugnanza forse e perfino per pudore? Quanti gesti inutili e senza grazia che fanno barriera alla felicità di gesti altri! Quanti gesti fuori posto, maldestri, malfatti, impropri, buoni giusto a soddisfare le convenzioni! Non c’è forse un’idiozia del gesto da combattere ad ogni costo?
Troppa facilità nel maneggio del proprio corpo, troppa abilità disinvolta che porta al brio, possono essere tanto nefasti quanto il contrario. Nella danza contemporanea, la virtù del danzatore non è il virtuosismo tecnico ma l’affinamento, l’esattezza, il senso dato alle cose che si fanno.
Quante donne oltr...