Il genio di Beethoven
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Viaggio attraverso le nove Sinfonie

Giorgio Pestelli

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Viaggio attraverso le nove Sinfonie

Giorgio Pestelli

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Le nove Sinfonie di Beethoven sono forse il patrimonio musicale più conosciuto al mondo; ovunque esista una vita musicale, ovunque si faccia musica, le Sinfonie sono la colonna portante del repertorio sinfonico e da circa due secoli sono presenti nella mente e nel cuore degli ascoltatori. Tutte e nove possono essere considerate un unico corpo creativo, in cui si delinea un percorso evolutivo e anche il racconto di una storia. Prese insieme, infatti, fanno pensare a un romanzo di formazione: un giovane parte per il vasto mondo, si scontra con ostacoli che supera grazie a un'eroica volontà d'azione finché, uscendo dalla sfera degli interessi personali, allarga lo sguardo a una dimensione sociale, celebrando ideali universali. Il libro ripercorre questa storia, considerando i nove capolavori nella loro genesi e nelle loro fisionomie, cercando di «far parlare» le Sinfonie stesse, come vere e proprie «azioni» che si realizzano nell'ascolto. Ad accompagnare il racconto delle Sinfonie si aggiunge, in questa nuova edizione, la narrazione di un'altra avventura, attraverso le Ouvertures beethoveniane: a volte sorte da eventi occasionali o concepite come semplici «introduzioni» a opere più importanti, spesso acquistano vita propria e con le Sinfonie intrecciano un dialogo fertile, uno scambio vitale di spunti e suggestioni. «Alla fine della Nona Sinfonia – scrive Giorgio Pestelli – si resta frastornati, si ha l'impressione di essere stati in un luogo dove si è pronunciato un importante giuramento; ci sembra di avere la forza e il coraggio per essere fedeli alle promesse. E penseremo alle nove Sinfonie come a un baluardo di forme intelligibili e fraterne per aiutarci a vivere senza temere la vita». Sintesi del passato, fra Illuminismo e romanticismo, le Sinfonie di Beethoven hanno determinato la vita musicale dell'Ottocento: l'evoluzione dell'orchestra sinfonica, la nascita del direttore d'orchestra, l'istituzione del concerto pubblico. E al tempo stesso hanno rappresentato il centro di irradiazione della musica futura, anche attraverso gli esiti non voluti di musiche che sono modelli di autorità classica e allo stesso tempo simboli di rottura liberatoria delle forme tradizionali. Un mondo, quello delle Sinfonie, che brilla ancora oggi di una forza straordinaria, di fronte alla quale non è possibile tirarsi indietro: meglio assecondare quell'impeto, meglio accogliere quel caloroso invito a frequentare e ad abitare un patrimonio di cultura, civiltà e bellezza fra i più alti della storia moderna.

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Information

Year
2020
ISBN
9788855221115

Di alcune ouvertures

1. Ouverture come apertura e come dramma in sé.

L’ouverture, o italianamente «sinfonia avanti l’opera», nasce congiunta allo spettacolo teatrale che deve preparare; dapprima semplici richiami, appelli all’attenzione del pubblico, designati con nomi tipici della tradizione strumentale, toccata, canzone, intrada, pavana, sonata; poco alla volta queste introduzioni si organizzano in forme più estese e articolate, che semplificando molto si possono compendiare in due modelli principali: Largo-Allegro fugato, come nell’ouverture «alla francese» affermatasi con Jean-Baptiste Lully, oppure Allegro-Lento-Allegro, secondo uno schema di cui si attribuisce la paternità ad Alessandro Scarlatti.
Salvo i casi particolari che non mancano mai, è solo dalla seconda metà del Settecento, con la crescente autonomia della musica strumentale dovuta all’impulso di Haydn e di Mozart, che l’ouverture si solleva sul livello della pura introduzione strumentale per stabilire una connessione con l’azione drammatica che seguirà; e questo non soltanto nella forma più semplice e fortunata del pot-pourri, facendo cioè ascoltare come in un’antologia le principali melodie che verranno cantate durante l’opera, ma cercando con puri mezzi musicali di ispirarsi alla vicenda, di cogliere il carattere, il tono inconfondibile di quella determinata opera. A questo punto entra in scena Beethoven: il quale perfeziona le intuizioni che Gluck aveva ricevuto dalle sinfonie d’opera dei maestri italiani, s’insedia nella dialettica sonatistica di Haydn e Mozart e si distingue per la logica fulminea con cui si impadronisce del nucleo concettuale del dramma; con Beethoven, con l’autore delle Sinfonie già composte, dalla Prima alla Sesta (1800-1808), anche l’ouverture diventa «sinfonia», un pezzo da concerto che, preso lo spunto dall’azione teatrale, se ne rende indipendente, costituendo un dramma in se stesso concluso.

2. Teatro e musica strumentale.

Beethoven ragazzo, organista nella cappella di corte a Bonn, avrà certo conosciuto lo stile italo-francese delle ouvertures delle opere teatrali che passavano su quelle scene, dei vari Grétry, Monsigny, Paisiello, Cimarosa, Sacchini, Salieri, Benda, Dittersdorf: pagine che incominciano di solito con una introduzione lenta, per poi passare a un movimento veloce in una semplice forma di sonata, priva di sviluppi o altre elaborazioni. Ma come si sa Beethoven era nato con il genio della musica strumentale e aveva poca propensione per il teatro musicale, peraltro fuori dalle sue principali incombenze di musicista di corte; mentre il nonno e il padre avevano cantato piccoli ruoli nel Teatro di Corte, Beethoven, educato dal suo maestro Neefe sul Clavicembalo ben temperato di Bach, rivolgeva i primi sforzi compositivi alla musica per pianoforte e da camera: sonate, trii, concerti. Tuttavia, una considerazione generale delle più importanti ouvertures teatrali nate durante la sua età di formazione può essere utile per collocare in una luce più aderente il momento in cui le circostanze della biografia artistica di Beethoven gli daranno l’occasione di avvicinarsi a questo genere, a metà fra teatralità e forma sinfonica.

3. Gluck.

Trascurando la congerie dei minori, ci si può limitare ai tre nomi di Gluck, Mozart e Cherubini da cui Beethoven può aver ricevuto le influenze più significative. Nella prima parte della sua produzione, di gusto italo-francese, Gluck orienta già, seppure con mezzi esteriori, l’ouverture alla materia dell’opera da rappresentare; in quella de Le cinesi (1754) la presenza in orchestra di strumenti come campanelli, triangolo, tamburello fa sentire prima ancora che si alzi il sipario il colorito esotico del luogo dell’azione; ancora più marcato il rapporto con la vicenda ne L’île de Merlin (1758), dove il brano d’apertura ha il titolo di Ouverture descriptive, divisa in due parti, la prima per «tempesta e naufragio», la seconda per «mare tranquillo e salvataggio dei naufraghi»; al contrario, nel Re pastore (1756) l’ouverture, detta semplicemente Einleitung («Introduzione»), consiste in un Allegro in Do maggiore dall’unico flusso continuo, che invece di concludersi con una cadenza regolare evita la tonalità principale per collegarsi direttamente alla prima scena, come nel famoso esempio del Don Giovanni di Mozart.
Naturalmente, il momento in cui l’ouverture diventa veramente responsabile dell’opera che seguirà ha la sua culla culturale negli anni sessanta del Settecento, cioè nei decenni in cui si affermano i principî della riforma dell’opera seria alla quale Gluck contribuisce in prima persona. Il concetto è espresso con chiarezza nella dedica di Alceste (1767) al granduca Pietro Leopoldo di Toscana: «Ho imaginato che la Sinfonia debba prevenire gli spettatori dell’azione che ha da rappresentarsi e formarne per dir così l’argomento», e l’idea ritorna con sostanziale affinità nella diffusa trattatistica dei letterati, interessati all’opera in musica come mai prima d’ora: «la sinfonia dovrebbe essere parte integrante del dramma, come appunto l’esordio dell’orazione», scrive ad esempio Francesco Algarotti nel Saggio sopra l’opera in musica (1755, 1762); per Antonio Planelli (Dell’opera in musica, 1772) un compendio dell’intero dramma non sarebbe possibile in una sinfonia d’apertura, la quale dovrebbe invece ricercare «un’intima connessione colla prima scena».
Questo caso suggerito dal Planelli è quello dell’ouverture di Iphigénie en Aulide (1774), una delle più grandi composte da Gluck, certo la più celebre, per come realizza la sua integrazione col dramma: l’Andante d’apertura incomincia infatti con le stesse note del recitativo di Agamemnon, «Diane impitoyable», con cui l’opera avrà il suo principio e in cui l’ouverture confluirà direttamente. L’esordio di Iphigénie en Aulide è un’epitome della classicità in musica: quasi solo archi, tonalità di Do minore delineata da intervalli spaziosi, che si affacciano simmetrici in una levigata polifonia a due parti, punteggiata di dissonanze e di semitoni dal fervido appoggio melodico. Irrompe il fortissimo con un tema imperioso e fatalistico (Grave), articolato su ottave e unisoni che si sciolgono in un misurato movimento a tutta orchestra (Allegro maestoso), dove il «maestoso» prevale sull’«allegro». Un tema più accessibile alla grazia melodica viene esposto da violino e flauto, ma è solo una preparazione: il vero antagonista al rude potere del primo tema prende forma quando, raggiunta una stasi armonica, su una nota ripetuta del corno entrano in dialogo, in tonalità minore, i violini e i due oboi: questi ultimi, ripetendo il loro semitono come un lamento, creano una parvenza umana in quel mondo di spietata durezza.
In questa contrapposizione di sentimenti musicali Wagner ha visto realizzato il nucleo dell’argomento su cui si basa la tragedia: l’opposizione faccia a faccia di due principi, l’interesse collettivo degli eroi greci riuniti per un’impresa comune e la sollecitudine umana di salvare la vita di una fanciulla («Nell’unisono poderoso di ottoni riconosciamo la massa unita da un solo scopo; mentre nel tema successivo la nostra simpatia è presa dalla tenera sofferenza individuale»; Wagner 1841, pp. 10-1). Osservando che qui l’idea caratteristica del dramma viene riprodotta con i mezzi intrinseci della musica assoluta, cioè indipendente, la via è aperta verso l’ouverture «da concerto», sciolta dal legame naturale con l’opera: visione convalidata dalla realizzazione concertistica operata da Wagner, non solo con una totale revisione dell’orchestrazione, ma con la composizione di trenta nuove battute, basate su materiale gluckiano, come conclusione più adatta all’esecuzione concertistica.

4. Mozart.

Come ogni genere musicale trattato da Mozart, anche le ouvertures teatrali erano a portata di mano nella libreria di Beethoven, conosciute con la confidenza delle cose più famigliari. In qualche modo a parte se ne sta l’ouverture del Ratto dal serraglio (1782), in cui Mozart, pur nella materia giocosa del Singspiel, vuol essere in prima linea con riformatori e letterati sul modello dell’ouverture collegata al dramma: il brano comprende tre parti all’italiana, Allegro-Andante-Presto, il primo e il terzo movimento in Do maggiore con «musica turca» di piatti e triangolo; ma l’Andante è in Do minore e anticipa la prima aria dell’opera cantata da Belmonte, Hier soll ich dich denn sehen (Qui dunque ti devo rivedere). L’opera dunque entra di prepotenza nell’ouverture, procedimento inconsueto a Mozart, poco amante di violenze formali: infatti, non riprenderà più questa forma composita, con al centro la citazione di un’aria, restando fedele all’ouverture come blocco unitario da capo a fondo.
Le nozze di Figaro (1786) è il caso opposto; una ouverture tagliata in forma di sonata col filo a piombo, senza nessun riferimento a singoli materiali musicali dell’opera; apparentemente «musica pura», il teatro sembra essere solo quello della forma sonata, con i suoi tragitti tonali, le sue simmetrie e riprese; eppure, già dall’attacco degli archi coi due fagotti all’unisono, rapido come un brivido, e poi dalle scale che si inseguono come schegge di argento vivo, senza nulla citare di quanto avverrà dopo, l’ouverture coglie alla perfezione il tono e il respiro col fiato in gola della «folle giornata», cioè il nucleo dinamico della commedia di Beaumarchais trasfusa nell’opera di Mozart e Da Ponte.
L’opera, anzi la tragedia, torna a fondersi grandiosamente con l’«Ouvertura» nel Don Giovanni (1787); il primo Andante, come in Gluck, è estratto dall’opera, ma non è la prima scena, è la scena capitale, quando a metà dell’ultimo banchetto di don Giovanni appare il Commendatore, la sua statua di sasso che cammina: è il momento sovrannaturale, il momento della decisione finale. Evocata la scena capitale, l’ouverture se ne stacca con il Molto allegro in Re maggiore, e continua come quella delle Nozze di Figaro, una corsa trasvolante seguendo il percorso della solita forma di sonata; la velocità è anche psicologica, quella di don Giovanni che va sempre di fretta, fugge via obliquo, imprendibile; alla fine, altro tratto gluckiano, non conclude, esce dalla tonalità di Re e si collega direttamente alla prima scena con l’introduzione di Leporello. Anche Così fan tutte (1790), seppure in modo meno vistoso, tiene i contatti con l’opera: nell’Andante introduttivo, e poi ancora nella pagina conclusiva, viene esposto il motto di don Alfonso, «Ripetete con me: Così fan tutte»; il Presto che segue è tutto percorso da un futile tema frullato da un settore all’altro dell’orchestra che è immagine sonora del gioco amoroso, della fregola erotica che pervade la maligna e deliziosa commedia.
L’ouverture infine del Flauto magico (Die Zauberflöte, 1791) raggiunge quello stadio emblematico di una doppia perfezione, come ouverture funzionale all’opera e come pezzo da concerto autonomo. I triplici accordi sacrali, saldi come i cardini del Tempio della Saggezza, sono figure classicamente anonime (riprese quando l’ouverture cadenza in dominante) che di per sé non impegnano il brano sinfonico su un contenuto preciso; totalmente immune da altri riferimenti all’opera, il brano è un trionfo di stile concertante combinato con la dottrina contrappuntistica più smaliziata, da affiancarsi al Finale della sinfonia Jupiter: l’attacco dell’Allegro comincia come una fuga a quattro voci e lo stile fugato si riaffaccia continuamente, commentato e un poco canzonato dalla svisceratezza giocosa del quartetto dei legni – fagotto, oboe, flauto e clarinetto – in perenne attività. Sul carattere schiettamente strumentale di questa pagina scintillante dice qualcosa anche la sua radice, cioè il tema principale e onnipresente che proviene da una sonata di Muzio Clementi, la seconda dell’op. 24; Mozart l’aveva certo ascoltata quando, il 24 dicembre 1781, aveva partecipato a una gara pianistica con Clementi alla presenza dell’imperatore Giuseppe I; dieci anni dopo, negli ultimi preparativi del Flauto magico, il tema riemerge dalla sua memoria, non sapremo mai se munito del certificato di proprietà; comunque sia, dopo il favoloso successo dell’ouverture, Clementi ci teneva, con garbo tutto britannico, ad annotare che la sonata era stata eseguita nel 1781 di fronte all’imperatore Giuseppe I, aggiungendo: «Mozart era presente».

5. Cherubini.

La rivalutazione dell’opéra-comique da genere leggero a concorrente dell’opera italiana si deve sopra tutto a Luigi Cherubini, considerato da Beethoven, scomparsi Haydn e Mozart, il più grande compositore vivente. Cherubini è fuori dal codice linguistico della classicità viennese: è una scelta, un’inclinazione personale tutta di Beethoven, che testimonia la sua propensione ai fatti contemporanei dell’arte musicale; nel 1803, quando su richiesta di Emanuel Schikaneder Beethoven stava lavorando a un’opera di soggetto classico, Il fuoco di Vesta, i teatri viennesi vissero una fervida stagione di opere cherubiniane e l’impreveduta scoperta delle «brillanti e seducenti opere francesi», come le definiva in una lettera a Rochlitz del 1804 (Epistolario, I, 307), spinse Beethoven a scoprire l’emozionante avventura di Leonora-Fidelio, come l’unico libretto adatto al suo genio musicale.
Anche le ouvertures di Cherubini si presentavano con caratteri di sintesi espressiva del tutto nuovi. In quella di Les deux journées, ou Le porteur d’eau (Le due giornate, o Il portatore d’acqua, 1800) già l’introduzione lenta lascia percepire una cappa di timore, di attese, di passi circospetti; anche nell’Allegro, pieno di contrasti ravvicinati, permane un clima di paura incombente, comunque di tensione, che dopo un rullo di timpani in crescendo si conclude in un trionfale fortissimo: è lo schema, scarno come un grafico, delle vicende della così detta pièce à sauvetage, cioè opera con salvataggio in extremis del protagonista, eroe o eroina, tenuto nascosto da amici coraggiosi (come qui il conte Armand, soggetto che a Goethe pareva «il più felice che si sia mai visto a teatro»: Dalla mia vita, 1957, I, p. 404), o rinchiuso in carcere da un tiranno gaglioffo (come Florestan nel Fidelio): le novità di questo genere operistico sono in orchestra, dove oscuramente lavorano armonie di settima diminuita, scale cromatiche, tremoli inquieti degli archi, minacciosi colpi di timpani.
Nell’ouverture di Médée (1797) il tono drammatico, in Fa minore, diventa aggressivo, procedendo serrato a due battute per volta fra ondeggiamenti e turbamenti; il tema principale, per ricomparire, non rispetta i luoghi tipici della forma sonata, ma si ripresenta anche in tonalità lontane (per esempio, alla fine in Re minore) secondo l’intuito del momento. Alla prima pausa possibile, fagotti e viole introducono un tema secondario orientato al basso, come in un passo dell’Egmont di Beethoven; alla fine dell’esposizione, preparando il tema principale in maggiore, l’orchestra si ritrae in pianissimo su uno spettrale accordo di viole e violini secondi: la trovata di accrescere il «patetico» con la stasi improvvisa di una novità timbrica ritorna come ponte alla conclusione e vale, oltre che come nota relativa al soggetto terrifico della tragedia, come esempio di quella ipersensibilità del linguaggio musicale che tanto attirava Beethoven.
Sotto il profilo puramente musicale l’ouverture più importante di tutte è quella di Anacréon (1803), molto amata anche dai romantici Weber e Berlioz e rimasta fino ai nostri giorni nei repertori dei maggiori direttori tedeschi. I riferimenti alla vicenda sono assai vaghi: alcuni fortissimi con disegni sfreccianti degli archi possono alludere alla tempesta che apre l’opera, così come altri disegni dei violini o dei flauti, leggeri e capricciosi, possono ricordare la vicenda del dio Amore ragazzino sfuggito alla sorveglianza di Venere sua madre (Anacréon ou L’amour fugitif è del resto il titolo completo dell’opera). Ma nessuno di questi deboli riferimenti incide sulla spaziosa concezione musicale della pagina: nella introduzione lenta (Largo assai), secondo la tradizione, gli accordi a tutta orchestra nella tonalità di Re maggiore introducono un dialogo sereno fra corni e legni, oboe, flauto, clarinetto e fagotto; nell’Allegro che segue, il secondo flauto muta in ottavino per aumentare il colore brillante, e tutta la pagina si svolge con una singolare indipendenza dallo schema della forma di sonata, con una quantità di idee secondarie nettamente individuate; il tema principale, articolato sulla triade fondamentale come il primo tema della sinfonia Eroica di Beethoven, è organizzato in un ingegnoso tessuto contrappuntistico fra violini primi e secondi, poi fra violoncello, fagotto e violini secondi; ogni tanto si aggiunge, come un ricciolo di spuma, un disegno ornamentale di violini e viole che accresce la vitalità della pagina; la conclusione, in una sorta di «stretta», sembra guardare al Finale della sinfonia Jupiter di Mozart.
Non stupisce l’ammirazione di Beethoven per Cherubini compositore teatrale e sinfonico; ci sentiva dentro un’aria nuova rispetto alla patria viennese, un repertorio di argomenti e oggetti musicali insoliti, non ancora consumati, che lo stimolavano a nuovi sviluppi.

Ouverture per Le creature di Prometeo op. 43

La figura mitologica di Prometeo, che forma uomini di sua iniziativa a dispetto dei celesti, è stata magnificata da Goethe negli anni del suo titanismo «Sturm und Drang» come l’individuo che si erge contro ogni autorità in nome della propria creatività e autonomia; per Beethoven, la facoltà di creare, di fissare in forme sensibili quello che si agitava nel suo animo, sarà la riserva morale che lo tratterrà dal suicidio di fronte alla tragedia della sord...

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