Il valore del tempo
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Il valore del tempo

Mito, fisica e ambiente

Walter Grassi

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Il valore del tempo

Mito, fisica e ambiente

Walter Grassi

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Nella storia della scienza, e nella storia in generale, non si può prescindere dal concetto di tempo, passando per le idee di tempo assoluto, relativo, irreversibile. Il contributo più noto, o almeno il più popolare anche se non sempre realmente compreso, è stato quello di Einstein, che tolse ai fisici, e non solo a loro, l'illusione nata con Galileo e Newton che il tempo fosse universale. Oggi la termodinamica insegna che il tempo ha una direzione preferenziale, in avanti, ed è irreversibile, come Prigogine mise a fuoco negli ultimi decenni del Novecento. Il volume aiuta a capire come si possano misurare i rapporti di causa ed effetto, e i tempi diversi fra quelli del pianeta Terra e degli esseri che esso ospita. Temi questi assolutamente decisivi poiché ne va della sopravvivenza dell'intero sistema o, come lo chiamava Lovelock, di Gaia.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820398422
1
Dal mito alla scienza sperimentale
Passeggiando col mio cane
Ogni giorno esco col mio cane (figura 1.1) a camminare per qualche chilometro nei prati. Si chiama Iago, è un malamute, cane della stessa taglia del pastore tedesco, e nel frattempo fa molti più chilometri di me andando su e giù senza stancarsi. Sembra che ne potrebbe fare una quarantina al giorno attaccato a una slitta carica. Sta sempre col naso a terra a sentire odori di cui non intuisco neanche l’esistenza. Sente suoni che io non posso udire e vede le cose in modo diverso e a una velocità più alta di qualsiasi essere umano. Il suo udito percepisce suoni provenienti da distanze superiori a quattro volte rispetto a quelle da cui li avvertiamo noi e il campo di frequenze entro cui li percepisce è circa il doppio del nostro, riuscendo a captare gli ultrasuoni. Se guardasse la televisione sarebbe in grado di separare i singoli fotogrammi e non vedrebbe, come me, un fluido susseguirsi di eventi.1 In aggiunta lo spettro dei colori che vede è sostanzialmente limitato al giallo, al blu e alle loro sfumature.
Non parliamo poi dell’olfatto, senso a cui nel cane sono dedicati un numero di papille e una corteccia olfattiva enormemente più grandi di quelli dell’uomo.
Siamo così diversi eppure ci “intendiamo”. Per forza il mio cane è intelligente, vi potrei rispondere in qualità di “padrone”, misurando maldestramente la sua intelligenza con la capacità di adattarsi alla mia. Così anche gli scienziati, per studiare le capacità sensoriali e percettive dei cani, non dispongono di un metodo oggettivo e sono costretti a farne un paragone con le nostre. Guardano cioè all’oggetto della loro indagine con gli occhiali del soggetto indagatore. Essi ne sono però consapevoli e cercano di oggettivare le loro conclusioni attraverso l’applicazione di un metodo scientifico di sperimentazioni ripetibili.
Il “padrone” comune non è ovviamente uno scienziato e la comprensione del suo cane è, per forza di cose, influenzata dalla limitatezza delle conoscenze e spesso dalla concezione che l’uomo, fatto secondo alcuni a somiglianza di Dio, non abbia la necessità di capire, ma piuttosto si “degni” di farlo. In effetti, poiché viviamo in due mondi parzialmente diversi, con priorità e riferimenti sensoriali differenti, dobbiamo stabilire fra noi un modo convenzionale d’interagire. Esso è basato su espressioni vocali e gestuali che, con tempo e pazienza, diventano il nostro linguaggio comune. Se non facciamo così e ognuno vive nel suo ambito ristretto, la conseguenza inevitabile, sciagurata, consiste nella costrizione da parte dell’uomo e nella paura e talora nella reazione violenta da parte del cane.
Image
Figura 1.1Il mio cane Iago.
L’unica possibilità seria è di creare un’interazione vera e proficua, che consenta a entrambi di capirsi stabilendo regole chiare e non dovute soltanto a un istinto di sopraffazione reciproca e di paura. Bisogna, come per tutte le cose, saper mantenere un atteggiamento di serena apertura e di desiderio di conoscenza verso ciò che ci circonda, senza strani timori o pregiudizi, prima di cercar di conoscere e capire, senza fidarsi troppo di quello che ci dicono le nostre osservazioni spesso superficiali.
Mentre passeggio penso a come sarebbe se avessi diverse capacità sensoriali. Potrei avvertire il rumore dell’erba che cresce, delle formiche che camminano fra l’erba, dei piccoli mammiferi nelle loro tane e via così. Certo, avrei una percezione più completa della vita che scorre attorno a me parallelamente alla mia, sentendomi sì molto di più parte di qualcosa di più grande, ma probabilmente piuttosto confuso in una sorta di cacofonia. Forse sono proprio i nostri limiti sensoriali che ci permettono di vivere in modo “coerente”, ma è giusto riconoscere che sono pur sempre limiti.
Mentre guardo Iago, mi viene in mente che, secondo un’opinione diffusa, per i cani ogni anno ne valga sette dei nostri e che vivano sempre nel presente. Penso che voglia dire che non fanno programmi per il futuro e forse che neanche ne conoscono il significato. D’altra parte anche noi possiamo solo vivere nel presente ricordando il passato e facendo previsioni e programmi per il futuro, di cui non abbiamo alcuna certezza.
Allora viene in mente di pensare a cosa è il presente e addirittura a cosa è il tempo. La curiosità di guardarti intorno è grande e sai che non sei certo il primo ad avere pensieri di questo genere e che non sei neanche “attrezzato” per addentrarti nei meandri filosofici di questo tema. Puoi solo limitarti ad alcune riflessioni da uomo qualunque e agli spunti che la tua formazione culturale può suggerirti. Per esempio, mi rendo conto che ho un mio tempo che è iniziato quando sono nato e che finirà con me. Esso si raccorda con un tempo storico che convenzionalmente colloca il mio in una sorta di tempo “universale” comunque scandito sull’uomo. Viene in mente una bella frase di Shakespeare nel Macbeth: “La vita è solo un’ombra che cammina; un povero attore che tronfio si dimena per un’ora sulla scena e poi non se ne sa più nulla: è una storia raccontata da un idiota, piena di clamore e di furia, che non significa nulla”.2
Ma ho anche i miei “tempi” nel fare le cose, così come ho il mio modo di impiegare il tempo e di organizzarlo.
Penso che questo sia un tempo soggettivo in quanto influenzato dalla nostra percezione. Per esempio, i momenti sereni e divertenti passano in un baleno, mentre quelli difficili sono lenti a trascorrere.
Inoltre siamo ancora abituati a pensare che vi sia un tempo oggettivo che scorre in modo autonomo e indipendente dal percepito. Eppure Einstein compì la sua rivoluzione con la teoria della relatività più di un secolo fa, ma alcune idee tardano molto, anche per la loro complessità, a entrare nella mentalità comune. O forse tutto è dovuto al fatto che Einstein non aveva Twitter, ormai per molti strumento unico per comunicare il “pensiero”, sulla cui profondità e consapevolezza è meglio non indagare. Ma, si sa, oggi la vita è convulsa e non c’è tempo: prima si twitta e poi, forse, si pensa.
La curiosità mi spinge ad andare lontano, quando l’uomo pensava alla Terra come al centro dell’universo e ancora si sentiva parte della natura. Non mi resta che spigolare qua e là, curiosando in un mondo almeno parzialmente sconosciuto, cercando di capire se non altro le cose più assodate del pensiero scientifico e non solo.
Ai tempi del mito di Crono (Da Crono ad Aristotele)
Gli antichi greci raccontano che, agli inizi, niente esisteva del creato, ma solo il caos informe al di là dello spazio e del tempo. D’improvviso comparve Gea, la Terra, madre della creazione. Dapprima generò Urano, il Cielo, che a sua volta irrorò la terra con una pioggia benefica e feconda, e poi Ponto, il Mare. Sposò quindi Urano e insieme governarono il creato ed ebbero dei figli. Crono (Chronos) fu uno di questi, ma con un destino particolare. Infatti, per timore di essere privato del dominio sull’universo, Urano lo fece sprofondare nelle viscere della Terra assieme ai fratelli. Crono, però, istigato dalla madre, lo affrontò e lo evirò. Si unì poi in matrimonio con la sorella Rea, per proseguire il processo della creazione. Da questa unione nacquero numerosi figli e il suo regno prosperò, finché gli fu profetizzato che esso sarebbe finito a opera di uno di loro. Da questo momento Crono iniziò a divorare i nuovi nati, tenendoli prigionieri nelle sue viscere. L’unico che si salvò fu Zeus, grazie a uno stratagemma di Rea. La storia continua, ma noi ci fermiamo qui per cercare di dare un significato a tutto ciò. Secondo Rindone3 l’evirazione del padre da parte di Crono sta a significare un “depotenziamento del passato avvolgendolo nell’oblio” e, divorando i figli, “distrugge il futuro appena viene all’esistenza”.
Ricorrendo ancora alle parole di Rindone, proviamo a sintetizzare la visione dei greci:
Per i Greci, in genere, non si può attribuire un senso all’avventura dell’umanità sulla Terra. Per loro, infatti, l’uomo, di cui pure esaltano l’eccellenza, non emerge radicalmente dalla natura, il grembo originario da cui tutto si produce e in cui tutto torna a dissolversi. […] Dato che la vita umana è parte del divenire ciclico della natura, la concezione più comune della storia è appunto quella ciclica: anche le grandi opere dell’uomo, di cui serbiamo memoria, sono destinate a perire, perché tutto nasce e muore, tutto ritorna e sarebbe vano immaginare radicali cambiamenti. Al divenire ciclico e alla sua necessità non si sfugge, tranne che con la tensione verso una realtà trascendente ed eterna. Questo mondo va dunque accettato così come è: la più significativa eccezione, come abbiamo visto, è costituita da Platone.
Tutto scorre (panta rei), diceva Eraclito, e ogni cosa non è mai esattamente uguale a se stessa dell’istante precedente. Classica è la frase secondo la quale non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, cioè nella stessa acqua che scorre nel fiume. È già la visione di una realtà dinamica, che cambia in continuazione cui l’uomo si deve adattare, o meglio, che deve subire. E, poiché è parte di questa realtà, anch’egli è sottoposto al continuo mutamento. Tutto ciò provoca un senso d’effimero e d’incerto che disorienta. Ecco che l’uomo si rivolge al soprannaturale: una realtà stabile e immutabile, scevra dal cambiamento, popolata da dei ed eroi. Usando ancora le parole di Rindone: “Ripetendo nei gesti della vita quotidiana il comportamento esemplare dell’eroe mitico, il primitivo sfugge così all’insensata successione temporale e alla sua caotica casualità, vivendo in un presente divino e ricco di senso”.
Sia la realtà trascendente ed eterna, che stabilisce una sorta di continuità fra la storia umana e quella divina, sia il tempo ciclico sono elementi che sinergicamente sembrano voler dare un senso e una stabilità a una realtà che altrimenti ne è priva.
Così come il sole sorge e tramonta ogni giorno indefinitamente e le stagioni si ripetono, l’uomo compie infinite volte gli stessi gesti seguendo i ritmi della natura, di cui è ben conscio di far parte. Anche le generazioni si susseguono regolarmente e perfino la storia si ripete ciclicamente. Questo eterno ritorno delle cose all’infinito e nel medesimo stato si contrappone al costante divenire poiché ogni evento si replica periodicamente. Il tempo è rappresentato come una ruota e tutto si ripete incessantemente, per alcuni in modo uguale, per altri con qualche variante. Non furono soltanto i greci (soprattutto gli stoici) a sostenere la circolarità del tempo. Essa era presente in alcune religioni orientali e fu ripresa molto più tardi anche dallo stesso Nietzsche (1844-1900).
In questo modo l’uomo cerca di annullare quella che oggi chiameremmo la non reversibilità del tempo, cioè l’impossibilità per il tempo di tornare indietro. Se ci pensiamo, anche noi compiamo quotidianamente per gran parte gli stessi gesti e facciamo più o meno le stesse cose. Scandiamo il tempo suddividendolo in ore, giorni, mesi e anni, e individuiamo alcune festività durante l’anno in una “rassicurante ripetitività”. Salutiamo il passato dell’anno vecchio e diamo il benvenuto al futuro dell’anno nuovo con una specie di rito propiziatorio. Ma soffermiamoci su qualche pensatore.
Aristotele può essere un buon punto di partenza per la discussione che vogliamo fare sul tempo, data la profonda influenza che il suo pensiero ha esercitato anche sulla cultura scientifica occidentale. Basta ricordare la locuzione Ipse dixit (oggi diremmo: “L’ha detto lui”) che, pur essendo inizialmente riferita a Pitagora dai pitagorici, come ricorda Cicerone, dal Medioevo chiama in causa Aristotele come la “somma autorità”. Infatti la riscoperta di Aristotele e del pensiero greco iniziò in Occidente attorno al XII secolo. Era sì presente nel mondo latino, ma finì per scomparire con la caduta dell’Impero romano d’Occidente (486 d.C.). I primi a impossessarsi di questo patrimonio furono gli arabi a partire dalla metà dell’VIII secolo, traducendolo nella loro lingua e fondendolo con la loro cultura. Nel frattempo questo popolo aveva fatto molti progressi in vari campi della scienza, tra cui la matematica e l’astronomia, mostrando grande interesse per la scienza pura.
Le ritraduzioni in latino iniziarono in Italia circa quattro secoli dopo e si estesero anche in Spagna.
Nei secoli successivi, la “fortuna” della filosofia aristotelica (inizialmente combattuta dai pensatori cristiani) fu dovuta in modo particolare alla progressiva fusione con la teologia cristiana, tanto da prendere il sopravvento sulla visione mistica di Platone.
La fisica aristotelica sopravvisse ancora per secoli e contro di essa hanno dovuto “battersi” i maggiori protagonisti della rivoluzione del XVII secolo. Comunque continuò a essere insegnata forse anche dopo e costituì l’ostacolo principale alla creazione della fisica attuale. È il problema che nasce ogniqualvolta, anziché guardare alla conoscenza con mente aperta e disponibile a riconoscerne la dinamicità, e quindi anche gli errori, la si accetta come un vero e proprio verbo o, se preferite, come una verità rivelata.
In tal modo le nozioni acquisite non costituiscono un trampolino di lancio verso nuovi e migliori traguardi; diventano invece un vero e proprio preconcetto, magari rafforzato da ragioni politiche o religiose.
Il primo fra gli scienziati occidentali a opporsi fu probabilmente Galileo Galilei (1564-1642) con la scoperta dei crateri lunari, in contrasto con la definizione aristotelica della luna liscia e incorruttibile e di un mondo celeste perfetto. La schiera degli oppositori include poi Cartesio (1596-1650), Newton (1642-1727) e vari altri.
Ma, parafrasando il Manzoni, vediamo chi era costui.
Aristotele (384 o 383 a.C-322 a.C.), figlio di Nicomaco, medico personale del re di Macedonia, Aminta III, entrò a far parte a diciott’anni dell’Accademia platonica di Atene, dove rimase fino alla morte di Platone, suo maestro, avvenuta circa vent’anni dopo.
Molte furono le differenze fra il pensiero del maestro e quello dell’allievo. Quest’ultimo mantenne il suo senso critico, rielaborando attraverso le proprie convinzioni e capacità le idee del maestro, e nel caso opponendovisi. Il maestro, per parte sua, rispettò in pieno la libertà di pensiero e l’autonomia culturale del discepolo. Certo, qui parliamo di grandi pensatori, niente a che fare con quei molti “quaquaraquà”, per dirla con Leonardo Sciascia, che intendono imporre le loro posizioni (chiamarlo pensiero è già troppo) con la prepotenza di slogan vuoti e superficiali a un pubblico non sempre privo di colpa.
Platone definì il tempo “l’immagine mobile dell’eternità che procede secondo il numero”. Il tempo è misura del movimento del solo mondo materiale in cui hanno senso passato, presente e futuro. Pensa al movimento come al passare delle ore e dei giorni. Tutto ciò vive, però, nel mondo sensibile dove la conoscenza deriva unicamente dalla comprensione dei fenomeni sensibili, che sono soggettivi quando non contraddittori e fallaci. Perciò è il mondo dell’opinione (doxa) o anche dell’apparenza. La verità risiede invece nella conoscenza dei concetti supremi non legati al tempo e al mondo materiale, ma all’eternità, in cui il tempo non ha posto, e all’immutabilità del mondo delle idee: l’iperuranio. Quest’aspetto è meglio chiarito dal mito della caverna in cui gli uomini, incatenati, confondono le ombre, che sono l’opinione o l’apparenza, con ...

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