Il sogno di Democrito
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Il sogno di Democrito

L'atomo dall'antichità alla meccanica quantistica

Giorgio Chinnici

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Il sogno di Democrito

L'atomo dall'antichità alla meccanica quantistica

Giorgio Chinnici

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L'atomo da Democrito alla fisica moderna, con la scoperta di elettrone e nucleo, fino alla fisica quantistica, alla ricerca di cosa è fatto il mondo. A partire dalle riflessioni degli antichi, la grande avventura intellettuale alla ricerca dell'atomo conduce alla moderna descrizione di come è costruita la materia, come interagisce e quali leggi la governano. Un percorso ricco di temi sia scientifici sia filosofici nella dialettica tra vuoto e materia, continuo e discreto, parte e tutto, onda e particella, caso e necessità.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820398408
1
Gli albori dell’atomismo
Gli elementi classici
Nel mondo antico, sia nelle culture occidentali sia in quelle orientali, si pensava che le sostanze elementari che compongono il mondo fossero in numero molto limitato. Ciascuna di loro poteva incarnare un principio cosmico ed essere personificata in una corrispondente divinità.
Per Empedocle (c. 495-435 a.C.), Platone (c. 428-348 a.C.) e Aristotele (384-322 a.C.), ma anche per le dottrine indiane, gli elementi erano quattro: fuoco, aria, acqua e terra. I quattro elementi classici, ripresi in vario modo dalla filosofia medievale e rinascimentale nonché dalla tradizione esoterica e alchemica, hanno pervaso tutta la cultura occidentale perpetuando fino ai nostri giorni il loro suggestivo potere simbolico, come testimoniano la pittura e la letteratura.
Anche le qualità attribuibili alla materia venivano ricondotte a poche varianti. Aristotele reputava che qualunque sostanza avesse almeno una tra quattro qualità sensibili primarie, a due a due opposte: caldo, freddo, secco e umido, ovvero una loro combinazione. Ciascun elemento fondamentale possiede due delle qualità primarie, che pertanto lo caratterizzano e anzi lo identificano. Il fuoco è caldo e secco, l’aria è calda e umida, l’acqua è fredda e umida, la terra è fredda e secca. Così come ogni sostanza è riconducibile a una combinazione dei quattro elementi, per il filosofo nato a Stagira (penisola Calcidica) ogni qualità sensibile che percepiamo in una sostanza è riconducibile a una combinazione delle quattro qualità primarie; perciò qualità come il colore o il sapore sono da considerare secondarie, derivate dalle primarie.
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Figura 1.1Artus Wolffort (1581–1641), I quattro elementi.
Il suo maestro Platone parlava invece di diverse “specie” dei quattro elementi. Nel Timeo (360 a.C.) Platone associa a ciascun elemento uno dei solidi regolari, tutti ottenibili mediante composizione di triangoli: il tetraedro al fuoco, il cubo alla terra, l’ottaedro all’aria e l’icosaedro all’acqua. A proposito dell’aria, nel Timeo si legge:
Allo stesso modo per quanto riguarda l’aria, la parte più luminosa viene chiamata etere, la parte più torbida viene detta nebbia e tenebra, e vi sono altre specie che non hanno nome, generate per la disuguaglianza dei triangoli.
La parola αἰθήρ (aithēr, aether per i latini ed etere in italiano), che vuol dire “cielo limpido” o “aria pura”, sarà destinata ad avere particolare fortuna nei secoli successivi. Etere era una delle divinità primordiali della mitologia greca; secondo la Teogonia di Esiodo (attivo tra il 750 e il 650 a.C.), era figlio di Erebos (l’Oscurità) e Nyx (la Notte) e fratello di Hemera (il Giorno). Etere personificava l’aria posta in alto e respirata dagli dèi, che quindi non era l’aria normale respirata dai mortali più in basso, chiamata aer o Chaos; ancora più in basso, sottoterra, c’era poi un terzo tipo di aria, Erebos, che riempiva il reame dei morti.
Aristotele a sua volta traccia una netta distinzione tra il mondo sublunare, ossia terrestre, e quello celeste, per lui retti da leggi completamente diverse. Le cose terrene sono imperfette e soggette a generazione, mutazione e corruzione: un processo lineare con un inizio e una fine. Non possono dunque essere fatte delle stesse sostanze di quelle del cielo che sono perfette in quanto eterne, immutabili e incorruttibili, sottoposte solo a processi circolari in cui il punto finale coincide con quello iniziale, un “eterno ritorno” di cicli sempre uguali a se stessi.
Pertanto Aristotele aggiunge esplicitamente un quinto elemento, che i commentatori successivi hanno chiamato etere o quintessenza e che poi fu immaginato come “forza vitale” dei corpi dagli alchimisti. L’etere non ha alcuna delle qualità degli altri quattro, non è né caldo né freddo, né secco né umido; è l’elemento perfetto di cui sono fatti il cielo e i corpi celesti, trasparente, senza peso e che si muove perfettamente in maniera circolare. Al contrario, fuoco, aria, acqua e terra si muovono linearmente e, pur se i loro “luoghi naturali” sono stratificati in quest’ordine dall’alto al basso, rimangono confinati in ambito terrestre. Osserviamo che pure nella cosmologia tradizionale indiana ai quattro elementi classici viene aggiunto un quinto, chiamato con la parola sanscrita ākāśa (“cielo” o “atmosfera”) e che si può identificare con l’etere.
Incontriamo qui un altro tema a lungo dibattuto, quello del vuoto. L’etere aristotelico riempie completamente le regioni celesti, mentre i quattro elementi riempiono il corruttibile mondo terrestre; Aristotele rigetta infatti l’esistenza del vuoto. Una posizione che risale a Parmenide (c. 515-420 a.C.), fondatore della scuola eleatica, il quale del resto negando il vuoto rifiutava anche la pluralità degli oggetti del mondo e il cambiamento, in particolare il moto. Negli scritti del suo discepolo Zenone (c. 495-430 a.C.) troviamo esposte le tesi del maestro per mezzo di celebri argomenti o “paradossi”, come quello della freccia ferma e quello della corsa di Achille e della tartaruga. Secondo Parmenide e Zenone non si può affermare che qualcosa non è; di conseguenza, intanto non può esistere il vuoto, che sarebbe un nulla o non-essere. Nonostante le apparenze sensoriali, che ci ingannano, questo comporta inoltre che non ci può essere alcuna differenziazione e alcun divenire: la realtà è qualcosa di unico, uniforme, eterno e immutabile, un tutto senza parti e senza trasformazioni. Affinché ci sia moto, ragionavano gli eleatici, deve esistere il vuoto; poiché il vuoto non può esistere, ergo il moto non esiste.
Democrito (c. 460-370 a.C.), nato ad Abdera in Tracia (non lontana da Stagira) e più o meno contemporaneo di Socrate (c. 469-399 a.C.), reagisce ribaltando completamente il ragionamento: il moto è un fenomeno reale e osservabile, di conseguenza il vuoto esiste.
L’atomo di Democrito
Per Aristotele le sostanze che tutto riempiono sono continue, non esistono entità finite irriducibili. La posizione di Democrito è invece diametralmente opposta. Insieme al suo maestro Leucippo (V secolo a.C.), Democrito è considerato infatti il padre dell’atomismo: la sua tesi era che il mondo è fatto esclusivamente di atomi e di vuoto. Una posizione che, come osservato da Bertrand Russell (1872-1970), non può non sorprenderci per la sua vicinanza all’attuale conoscenza scientifica, naturalmente come idea generale.
A Democrito vengono attribuite settanta opere, di cui sopravvivono solo dei frammenti; per il resto conosciamo la sua filosofia attraverso resoconti di altri autori. Tra questi annoveriamo lo stesso Aristotele, che ne contestava le tesi ma ne apprezzava l’intelletto e che scrisse una monografia su di lui, a sua volta giunta a noi solo in frammenti citati in altre fonti.
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Figura 1.2Democrito nella raffigurazione di Dosso Dossi (1540).
Gli atomi di Democrito sono in numero infinito e con infinite forme, di varia estensione fisica ma con una dimensione minima sotto la quale non si va. Questo va contrapposto a quanto avviene in matematica per la retta geometrica, la quale è divisibile ad infinitum ed è composta di punti privi di estensione. Il vuoto infinito è il luogo in cui questi atomi si muovono continuamente. Grazie alla loro forma irregolare e alla presenza di una sorta di “ganci”, gli atomi si uniscono per formare gli oggetti composti, siano essi fuoco, acqua o esseri viventi, e si separano per disfarli. La funzione del vuoto è di separare i corpi tra di loro.
Per Democrito gli atomi, indivisibili, inalterabili ed eterni, non contengono spazio vuoto; benché estesi, sono al loro interno in qualche modo uniformemente “compatti”, potremmo dire. I corpi composti hanno invece del vuoto al loro interno in varia misura e questo spiega perché un oggetto più piccolo può avere densità maggiore e quindi pesare di più di uno più grande.
Forma e grandezza sono le uniche qualità ascrivibili agli atomi. Aristotele nella sua descrizione della dottrina atomistica democritea utilizza un’analogia con le lettere (omettendo a tal fine le differenze di grandezza). Un atomo si distingue da un altro per la forma, come la lettera A dalla lettera N, in cui va considerata anche l’orientazione, che distingue la lettera N dalla lettera Z; nei corpi composti ha importanza l’ordine degli atomi, dunque AN è diverso da NA. Così come avviene con le lettere dell’alfabeto, mettendo insieme i vari tipi di atomo è possibile ottenere innumerevoli combinazioni diverse. Da notare che in greco per “lettera” si usa la stessa parola che per “elemento”, stoicheion.
Causalità e finalismo, caso e necessità
Nella visione degli antichi, come pure nella scienza moderna, gioca un ruolo centrale il concetto di causalità. Per Aristotele spiegare qualcosa significa conoscerne la causa; il filosofo di Stagira si distingue però perché propone quattro differenti tipi di causa: materiale, formale, efficiente e finale, le quali possono concorrere alla spiegazione di un qualunque fatto. In pratica, ci sono quattro possibili fattori esplicativi di una trasformazione fisica. I primi due sono semplicemente la materia coinvolta (causa materiale) e la forma che questa materia va ad assumere (causa formale). La causa efficiente si può invece assimilare a ciò che modernamente intendiamo con causa tout court, la forza che tira un carro e lo fa muovere, per esempio. La peculiarità di Aristotele consiste nel considerare come una causa, quella finale appunto, anche il “fine” (τέλος, télos), a cui anzi in qualche modo assegna un ruolo prioritario; il ruolo della forma del resto è di dare finalità e organizzazione alla materia.
Quella aristotelica è dunque una visione teleologica, ossia finalistica, della natura: la materia si muove e interagisce in maniera tale da mirare a un fine prestabilito. Da un punto di vista moderno e da sostenitori della realtà del libero arbitrio siamo certamente d’accordo sul fatto che un agente intenzionale qual è l’essere umano operi in vista di un fine, come quando per esempio scolpisce una statua. Inoltre, può essere compreso come Aristotele abbia dovuto ricorrere al finalismo per cercare di spiegare fenomeni come la generazione degli esseri viventi.
Aristotele però estende il suo modello finalistico a tutti i processi naturali di cui si occupa la fisica. Nella sua visione, una pietra viene lanciata in maniera violenta in alto grazie alla causa efficiente data dall’azione di una fionda, ma non ricade poi verso terra per causa di una forza che agisce su di essa (causa efficiente), bensì in maniera naturale per perseguire un fine: quello di ricongiungersi con il suo “luogo naturale” ripristinando così un equilibrio che è stato alterato (causa finale). La differenza concettuale è enorme. L’eliminazione del finalismo (e di cause non fisiche) dallo studio dei fenomeni è tra i punti cruciali che hanno caratterizzato l’avvento della scienza moderna.
A titolo di esempio, oggi sappiamo che la luce nel passare da un mezzo a un altro con caratteristiche fisiche diverse, come da acqua ad aria, segue la traiettoria che minimizza il tempo di percorrenza, che è una linea spezzata (fenomeno della rifrazione). Ma la luce non si muove secondo una finalità, non “sa” in anticipo quali sono i possibili percorsi così da poter scegliere quello più veloce. L’effetto globale, pur potendosi descrivere in un linguaggio all’apparenza teleologico, è piuttosto il risultato di eventi locali come nella cascata delle tessere di un domino. Le grandezze globali, come il tempo di percorrenza, hanno senso e si possono calcolare solo considerando come data l’intera evoluzione del fenomeno.
Le tessere del domino non eseguono la loro danza perché perseguono il fine di ottenere la caduta dell’ultima tessera. Piuttosto, ciascuna tessera cadendo semplicemente agisce in maniera causale su quella immediatamente adiacente e a contatto, con l’effetto di farla cadere. Inoltre non si prende in considerazione alcuna “magia” esterna che stabilisce quale dev’essere l’effetto finale globale, nessuna forza vitale non meglio identificata, ma solo delle leggi naturali, le quali sono sempre intrinsecamente di carattere locale.
Anche in questo Democrito appare più vicino alle concezioni moderne, dato che esclude appunto l’interpretazione finalistica come pure ogni intervento soprannaturale esterno alla materia, dando così inizio all’interpretazione dei fenomeni empirici in termini razionali e puramente fisici. La tesi di Democrito è che il mondo materiale ha una spiegazione in se stesso; ogni fenomeno o proprietà macroscopica è semplicemente dovuta agli atomi, al loro movimento e alla maniera in cui interagiscono, cioè si urtano e poi rimbalzano oppure si combinano tra di loro. La ricombinazione degli atomi è la causa (efficiente) necessaria del cambiamento; modernamente parleremmo di una visione deterministica causale.
Aristotele osserva però che se è vero che i singoli urti tra gli atomi hanno una conseguenza fissata da una relazione causa-effetto, tuttavia il moto in sé non ha un inizio e la sua stessa esistenza non viene spiegata in alcun modo. Non si capisce come l’insieme di tutti gli urti possa trasformare un uovo in una gallina: per Aristotele non si può produrre un effetto globale in assenza di un fine prestabilito intrinseco al sistema. Perciò Democrito fu accusato di negare i principi primi che reggono l’evoluzione del mondo, cioè quelli teleologici, lasciandolo così in totale balia del caso.
Nell’ottica aristotelica è proprio il finalismo che implica la necessità, che stabilisce quel lógos o ordine razionale del mondo che è ciò che permette di comprenderlo. Tuttavia, anche Aristotele deve introdurre dei meccanismi che permettano di deviare da leggi altrimenti rigidamente necessarie. Diversamente non potrebbe spiegare l’evidente variabilità osservata in molti fenomeni macroscopici. Il finalismo aristotelico non è pervaso da necessità totale: la pietra che vorrebbe ricongiungersi con la terra non può farlo se si frappone un ostacolo, i denti nascono perché il fine è di avere in bocca un indispensabile strumento, ma qualche dente può non nascere o anche cadere, per via di fattori accidentali. Aristotele sostiene tuttavia che la presenza del caso non infici il finalismo: gli eventi accidentali sono dovuti a errori che la natura nel suo procedere finalistico compie, non essendo infallibile. Poiché questi errori si producono con frequenza limitata, rimane però valido il principio della regolarità della natura.
L’apparente finalismo dei fenomeni biologici viene chiamato teleonomia da Jacques Monod (1910-1976) nella sua opera Il caso e la necessità (1970), in cui il vincitore del premio Nobel per la medicina e la fisiologia del 1965 illustra come la nascita e l’evoluzione della vita siano dovute a un interallacciarsi tra fattori casuali e leggi necessarie della natura. Il titolo del saggio richiama una frase attribuita a Democrito:
Tutto ciò che esiste è frutto del caso e della necessità.
Nel pensiero di Democrito caso e necessità appaiono infatti coesistere, entrambi intesi come assenza di finalismo. I pensatori atomisti successivi, Epicuro (341-2...

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