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Il sogno di Democrito
L'atomo dall'antichitĂ alla meccanica quantistica
Giorgio Chinnici
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Il sogno di Democrito
L'atomo dall'antichitĂ alla meccanica quantistica
Giorgio Chinnici
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L'atomo da Democrito alla fisica moderna, con la scoperta di elettrone e nucleo, fino alla fisica quantistica, alla ricerca di cosa è fatto il mondo. A partire dalle riflessioni degli antichi, la grande avventura intellettuale alla ricerca dell'atomo conduce alla moderna descrizione di come è costruita la materia, come interagisce e quali leggi la governano. Un percorso ricco di temi sia scientifici sia filosofici nella dialettica tra vuoto e materia, continuo e discreto, parte e tutto, onda e particella, caso e necessità .
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Information
Thema
Biological SciencesThema
Science General1
Gli albori dellâatomismo
Gli elementi classici
Nel mondo antico, sia nelle culture occidentali sia in quelle orientali, si pensava che le sostanze elementari che compongono il mondo fossero in numero molto limitato. Ciascuna di loro poteva incarnare un principio cosmico ed essere personificata in una corrispondente divinitĂ .
Per Empedocle (c. 495-435 a.C.), Platone (c. 428-348 a.C.) e Aristotele (384-322 a.C.), ma anche per le dottrine indiane, gli elementi erano quattro: fuoco, aria, acqua e terra. I quattro elementi classici, ripresi in vario modo dalla filosofia medievale e rinascimentale nonchĂŠ dalla tradizione esoterica e alchemica, hanno pervaso tutta la cultura occidentale perpetuando fino ai nostri giorni il loro suggestivo potere simbolico, come testimoniano la pittura e la letteratura.
Anche le qualitĂ attribuibili alla materia venivano ricondotte a poche varianti. Aristotele reputava che qualunque sostanza avesse almeno una tra quattro qualitĂ sensibili primarie, a due a due opposte: caldo, freddo, secco e umido, ovvero una loro combinazione. Ciascun elemento fondamentale possiede due delle qualitĂ primarie, che pertanto lo caratterizzano e anzi lo identificano. Il fuoco è caldo e secco, lâaria è calda e umida, lâacqua è fredda e umida, la terra è fredda e secca. CosĂŹ come ogni sostanza è riconducibile a una combinazione dei quattro elementi, per il filosofo nato a Stagira (penisola Calcidica) ogni qualitĂ sensibile che percepiamo in una sostanza è riconducibile a una combinazione delle quattro qualitĂ primarie; perciò qualitĂ come il colore o il sapore sono da considerare secondarie, derivate dalle primarie.
Figura 1.1Artus Wolffort (1581â1641), I quattro elementi.
Il suo maestro Platone parlava invece di diverse âspecieâ dei quattro elementi. Nel Timeo (360 a.C.) Platone associa a ciascun elemento uno dei solidi regolari, tutti ottenibili mediante composizione di triangoli: il tetraedro al fuoco, il cubo alla terra, lâottaedro allâaria e lâicosaedro allâacqua. A proposito dellâaria, nel Timeo si legge:
Allo stesso modo per quanto riguarda lâaria, la parte piĂš luminosa viene chiamata etere, la parte piĂš torbida viene detta nebbia e tenebra, e vi sono altre specie che non hanno nome, generate per la disuguaglianza dei triangoli.
La parola Îąáź°Î¸ÎŽĎ (aithÄr, aether per i latini ed etere in italiano), che vuol dire âcielo limpidoâ o âaria puraâ, sarĂ destinata ad avere particolare fortuna nei secoli successivi. Etere era una delle divinitĂ primordiali della mitologia greca; secondo la Teogonia di Esiodo (attivo tra il 750 e il 650 a.C.), era figlio di Erebos (lâOscuritĂ ) e Nyx (la Notte) e fratello di Hemera (il Giorno). Etere personificava lâaria posta in alto e respirata dagli dèi, che quindi non era lâaria normale respirata dai mortali piĂš in basso, chiamata aer o Chaos; ancora piĂš in basso, sottoterra, câera poi un terzo tipo di aria, Erebos, che riempiva il reame dei morti.
Aristotele a sua volta traccia una netta distinzione tra il mondo sublunare, ossia terrestre, e quello celeste, per lui retti da leggi completamente diverse. Le cose terrene sono imperfette e soggette a generazione, mutazione e corruzione: un processo lineare con un inizio e una fine. Non possono dunque essere fatte delle stesse sostanze di quelle del cielo che sono perfette in quanto eterne, immutabili e incorruttibili, sottoposte solo a processi circolari in cui il punto finale coincide con quello iniziale, un âeterno ritornoâ di cicli sempre uguali a se stessi.
Pertanto Aristotele aggiunge esplicitamente un quinto elemento, che i commentatori successivi hanno chiamato etere o quintessenza e che poi fu immaginato come âforza vitaleâ dei corpi dagli alchimisti. Lâetere non ha alcuna delle qualitĂ degli altri quattro, non è nĂŠ caldo nĂŠ freddo, nĂŠ secco nĂŠ umido; è lâelemento perfetto di cui sono fatti il cielo e i corpi celesti, trasparente, senza peso e che si muove perfettamente in maniera circolare. Al contrario, fuoco, aria, acqua e terra si muovono linearmente e, pur se i loro âluoghi naturaliâ sono stratificati in questâordine dallâalto al basso, rimangono confinati in ambito terrestre. Osserviamo che pure nella cosmologia tradizionale indiana ai quattro elementi classici viene aggiunto un quinto, chiamato con la parola sanscrita ÄkÄĹa (âcieloâ o âatmosferaâ) e che si può identificare con lâetere.
Incontriamo qui un altro tema a lungo dibattuto, quello del vuoto. Lâetere aristotelico riempie completamente le regioni celesti, mentre i quattro elementi riempiono il corruttibile mondo terrestre; Aristotele rigetta infatti lâesistenza del vuoto. Una posizione che risale a Parmenide (c. 515-420 a.C.), fondatore della scuola eleatica, il quale del resto negando il vuoto rifiutava anche la pluralitĂ degli oggetti del mondo e il cambiamento, in particolare il moto. Negli scritti del suo discepolo Zenone (c. 495-430 a.C.) troviamo esposte le tesi del maestro per mezzo di celebri argomenti o âparadossiâ, come quello della freccia ferma e quello della corsa di Achille e della tartaruga. Secondo Parmenide e Zenone non si può affermare che qualcosa non è; di conseguenza, intanto non può esistere il vuoto, che sarebbe un nulla o non-essere. Nonostante le apparenze sensoriali, che ci ingannano, questo comporta inoltre che non ci può essere alcuna differenziazione e alcun divenire: la realtà è qualcosa di unico, uniforme, eterno e immutabile, un tutto senza parti e senza trasformazioni. AffinchĂŠ ci sia moto, ragionavano gli eleatici, deve esistere il vuoto; poichĂŠ il vuoto non può esistere, ergo il moto non esiste.
Democrito (c. 460-370 a.C.), nato ad Abdera in Tracia (non lontana da Stagira) e piÚ o meno contemporaneo di Socrate (c. 469-399 a.C.), reagisce ribaltando completamente il ragionamento: il moto è un fenomeno reale e osservabile, di conseguenza il vuoto esiste.
Lâatomo di Democrito
Per Aristotele le sostanze che tutto riempiono sono continue, non esistono entitĂ finite irriducibili. La posizione di Democrito è invece diametralmente opposta. Insieme al suo maestro Leucippo (V secolo a.C.), Democrito è considerato infatti il padre dellâatomismo: la sua tesi era che il mondo è fatto esclusivamente di atomi e di vuoto. Una posizione che, come osservato da Bertrand Russell (1872-1970), non può non sorprenderci per la sua vicinanza allâattuale conoscenza scientifica, naturalmente come idea generale.
A Democrito vengono attribuite settanta opere, di cui sopravvivono solo dei frammenti; per il resto conosciamo la sua filosofia attraverso resoconti di altri autori. Tra questi annoveriamo lo stesso Aristotele, che ne contestava le tesi ma ne apprezzava lâintelletto e che scrisse una monografia su di lui, a sua volta giunta a noi solo in frammenti citati in altre fonti.
Figura 1.2Democrito nella raffigurazione di Dosso Dossi (1540).
Gli atomi di Democrito sono in numero infinito e con infinite forme, di varia estensione fisica ma con una dimensione minima sotto la quale non si va. Questo va contrapposto a quanto avviene in matematica per la retta geometrica, la quale è divisibile ad infinitum ed è composta di punti privi di estensione. Il vuoto infinito è il luogo in cui questi atomi si muovono continuamente. Grazie alla loro forma irregolare e alla presenza di una sorta di âganciâ, gli atomi si uniscono per formare gli oggetti composti, siano essi fuoco, acqua o esseri viventi, e si separano per disfarli. La funzione del vuoto è di separare i corpi tra di loro.
Per Democrito gli atomi, indivisibili, inalterabili ed eterni, non contengono spazio vuoto; benchĂŠ estesi, sono al loro interno in qualche modo uniformemente âcompattiâ, potremmo dire. I corpi composti hanno invece del vuoto al loro interno in varia misura e questo spiega perchĂŠ un oggetto piĂš piccolo può avere densitĂ maggiore e quindi pesare di piĂš di uno piĂš grande.
Forma e grandezza sono le uniche qualitĂ ascrivibili agli atomi. Aristotele nella sua descrizione della dottrina atomistica democritea utilizza unâanalogia con le lettere (omettendo a tal fine le differenze di grandezza). Un atomo si distingue da un altro per la forma, come la lettera A dalla lettera N, in cui va considerata anche lâorientazione, che distingue la lettera N dalla lettera Z; nei corpi composti ha importanza lâordine degli atomi, dunque AN è diverso da NA. CosĂŹ come avviene con le lettere dellâalfabeto, mettendo insieme i vari tipi di atomo è possibile ottenere innumerevoli combinazioni diverse. Da notare che in greco per âletteraâ si usa la stessa parola che per âelementoâ, stoicheion.
CausalitĂ e finalismo, caso e necessitĂ
Nella visione degli antichi, come pure nella scienza moderna, gioca un ruolo centrale il concetto di causalitĂ . Per Aristotele spiegare qualcosa significa conoscerne la causa; il filosofo di Stagira si distingue però perchĂŠ propone quattro differenti tipi di causa: materiale, formale, efficiente e finale, le quali possono concorrere alla spiegazione di un qualunque fatto. In pratica, ci sono quattro possibili fattori esplicativi di una trasformazione fisica. I primi due sono semplicemente la materia coinvolta (causa materiale) e la forma che questa materia va ad assumere (causa formale). La causa efficiente si può invece assimilare a ciò che modernamente intendiamo con causa tout court, la forza che tira un carro e lo fa muovere, per esempio. La peculiaritĂ di Aristotele consiste nel considerare come una causa, quella finale appunto, anche il âfineâ (ĎÎΝοĎ, tĂŠlos), a cui anzi in qualche modo assegna un ruolo prioritario; il ruolo della forma del resto è di dare finalitĂ e organizzazione alla materia.
Quella aristotelica è dunque una visione teleologica, ossia finalistica, della natura: la materia si muove e interagisce in maniera tale da mirare a un fine prestabilito. Da un punto di vista moderno e da sostenitori della realtĂ del libero arbitrio siamo certamente dâaccordo sul fatto che un agente intenzionale qual è lâessere umano operi in vista di un fine, come quando per esempio scolpisce una statua. Inoltre, può essere compreso come Aristotele abbia dovuto ricorrere al finalismo per cercare di spiegare fenomeni come la generazione degli esseri viventi.
Aristotele però estende il suo modello finalistico a tutti i processi naturali di cui si occupa la fisica. Nella sua visione, una pietra viene lanciata in maniera violenta in alto grazie alla causa efficiente data dallâazione di una fionda, ma non ricade poi verso terra per causa di una forza che agisce su di essa (causa efficiente), bensĂŹ in maniera naturale per perseguire un fine: quello di ricongiungersi con il suo âluogo naturaleâ ripristinando cosĂŹ un equilibrio che è stato alterato (causa finale). La differenza concettuale è enorme. Lâeliminazione del finalismo (e di cause non fisiche) dallo studio dei fenomeni è tra i punti cruciali che hanno caratterizzato lâavvento della scienza moderna.
A titolo di esempio, oggi sappiamo che la luce nel passare da un mezzo a un altro con caratteristiche fisiche diverse, come da acqua ad aria, segue la traiettoria che minimizza il tempo di percorrenza, che è una linea spezzata (fenomeno della rifrazione). Ma la luce non si muove secondo una finalitĂ , non âsaâ in anticipo quali sono i possibili percorsi cosĂŹ da poter scegliere quello piĂš veloce. Lâeffetto globale, pur potendosi descrivere in un linguaggio allâapparenza teleologico, è piuttosto il risultato di eventi locali come nella cascata delle tessere di un domino. Le grandezze globali, come il tempo di percorrenza, hanno senso e si possono calcolare solo considerando come data lâintera evoluzione del fenomeno.
Le tessere del domino non eseguono la loro danza perchĂŠ perseguono il fine di ottenere la caduta dellâultima tessera. Piuttosto, ciascuna tessera cadendo semplicemente agisce in maniera causale su quella immediatamente adiacente e a contatto, con lâeffetto di farla cadere. Inoltre non si prende in considerazione alcuna âmagiaâ esterna che stabilisce quale devâessere lâeffetto finale globale, nessuna forza vitale non meglio identificata, ma solo delle leggi naturali, le quali sono sempre intrinsecamente di carattere locale.
Anche in questo Democrito appare piĂš vicino alle concezioni moderne, dato che esclude appunto lâinterpretazione finalistica come pure ogni intervento soprannaturale esterno alla materia, dando cosĂŹ inizio allâinterpretazione dei fenomeni empirici in termini razionali e puramente fisici. La tesi di Democrito è che il mondo materiale ha una spiegazione in se stesso; ogni fenomeno o proprietĂ macroscopica è semplicemente dovuta agli atomi, al loro movimento e alla maniera in cui interagiscono, cioè si urtano e poi rimbalzano oppure si combinano tra di loro. La ricombinazione degli atomi è la causa (efficiente) necessaria del cambiamento; modernamente parleremmo di una visione deterministica causale.
Aristotele osserva però che se è vero che i singoli urti tra gli atomi hanno una conseguenza fissata da una relazione causa-effetto, tuttavia il moto in sĂŠ non ha un inizio e la sua stessa esistenza non viene spiegata in alcun modo. Non si capisce come lâinsieme di tutti gli urti possa trasformare un uovo in una gallina: per Aristotele non si può produrre un effetto globale in assenza di un fine prestabilito intrinseco al sistema. Perciò Democrito fu accusato di negare i principi primi che reggono lâevoluzione del mondo, cioè quelli teleologici, lasciandolo cosĂŹ in totale balia del caso.
Nellâottica aristotelica è proprio il finalismo che implica la necessitĂ , che stabilisce quel lĂłgos o ordine razionale del mondo che è ciò che permette di comprenderlo. Tuttavia, anche Aristotele deve introdurre dei meccanismi che permettano di deviare da leggi altrimenti rigidamente necessarie. Diversamente non potrebbe spiegare lâevidente variabilitĂ osservata in molti fenomeni macroscopici. Il finalismo aristotelico non è pervaso da necessitĂ totale: la pietra che vorrebbe ricongiungersi con la terra non può farlo se si frappone un ostacolo, i denti nascono perchĂŠ il fine è di avere in bocca un indispensabile strumento, ma qualche dente può non nascere o anche cadere, per via di fattori accidentali. Aristotele sostiene tuttavia che la presenza del caso non infici il finalismo: gli eventi accidentali sono dovuti a errori che la natura nel suo procedere finalistico compie, non essendo infallibile. PoichĂŠ questi errori si producono con frequenza limitata, rimane però valido il principio della regolaritĂ della natura.
Lâapparente finalismo dei fenomeni biologici viene chiamato teleonomia da Jacques Monod (1910-1976) nella sua opera Il caso e la necessitĂ (1970), in cui il vincitore del premio Nobel per la medicina e la fisiologia del 1965 illustra come la nascita e lâevoluzione della vita siano dovute a un interallacciarsi tra fattori casuali e leggi necessarie della natura. Il titolo del saggio richiama una frase attribuita a Democrito:
Tutto ciò che esiste è frutto del caso e della necessità .
Nel pensiero di Democrito caso e necessitĂ appaiono infatti coesistere, entrambi intesi come assenza di finalismo. I pensatori atomisti successivi, Epicuro (341-2...