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Viaggio nell'era della distrazione

Lisa Iotti

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Viaggio nell'era della distrazione

Lisa Iotti

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Prima che abbiate finito di leggere questo testo vi sarete distratti almeno un paio di volte. Probabilmente avrete già dimenticato il titolo del libro che avete fra le mani o il nome della sua autrice. Forse avrete interrotto la lettura per rispondere a un vostro amico o controllare l'apprezzamento social di un vostro post o di una vostra foto. In ogni caso, è pressoché certo che in questo momento abbiate in mano uno smartphone e che il vostro sguardo si stia già allontanando da queste righe. Benvenuti nell'era della distrazione infinita. Ma com'è possibile che la nostra attenzione sia diventata inferiore a quella di un pesce rosso? Ed è vero che i like di Facebook stimolano le stesse aree attivate dall'assunzione di stupefacenti? In che modo la presenza di uno smartphone nelle vicinanze incide sulle nostre capacità cognitive? I social stanno modificando la struttura del nostro cervello? Lisa Iotti ci guida nel mondo dell'iperconnessione. Il suo è un viaggio, intimo e sconvolgente, nel lato oscuro della rivoluzione digitale, attraverso le ossessioni, i pericoli e le paure che caratterizzano il nostro contemporaneo: dai laboratori in cui si svolgono ricerche sul comportamento delle nostre reti neurali durante l'utilizzo di app alle stanze in cui vengono studiate le possibili trasformazioni posturali dovute all'uso degli smartphone; dai centri per curare le dipendenze psicologiche da cellulare ai ritiri in cui disintossicarsi dal telefono grazie alla meditazione; dagli incontri con alcuni dei più importanti studiosi della mente a quelli con i pentiti della Silicon Valley, diventati oggi profeti della disconnessione da social e device. Tra reportage e narrazione personale, 8 secondi è un'opera che nasce dalla necessità di trovare risposte alle nostre inquietudini e che finisce per aprirci a nuove domande e nuovi scenari. Una tana del Bianconiglio in fondo alla quale scoprire che tipo di essere umano siamo diventati e, soprattutto, cosa ci aspetta nel nostro prossimo futuro.

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2020
ISBN
9788865768631

1. Iperconnessi

Via dei Condotti è forse l’ultimo posto al mondo oggi dove avvertire «l’attrito del tempo». È difficile, mentre si cammina in questo acquario del lusso destinato a lasciare tracce più sulle carte di credito che sulle mappe della storia, immaginare cosa fosse questa zona di Roma quando i viaggiatori passavano col cuore in gola sotto la porta del Popolo e si trovavano faccia a faccia con gli artisti della città eterna, che avevano i loro studi e le abitazioni proprio in questi vicoli (via Margutta, la «via dei pittori», è qui dietro). O lo stupore che poteva cogliere quei visitatori quando, arrivando in fondo alla strada, a piazza di Spagna, riconoscevano nei volti delle modelle e dei modelli seduti sui gradini delle scale di Trinità dei Monti quelli dei protagonisti di dipinti immortali: povera gente, che racimolava qualche soldo diventando una volta san Matteo, un’altra il Laocoonte. Madonne di giorno, meretrici la sera.
È uno degli angoli della città che i romani hanno abiurato da tempo, ma dove amo di più passeggiare. Mi piace stordirmi nella fiumana infernale dei turisti che si fanno le foto davanti alla fontana di Bernini e alle vetrine dei negozi, monumenti a loro volta di gratificazioni, perdermi in mezzo a venditori di caldarroste che arrostiscono dodici mesi l’anno e costano come topazi, guardare le botteghe che rivoltano le lettere delle insegne per seguire i tempi, come se un panificio non si potesse più chiamare panificio ma dovesse per forza trasformarsi in bakery. Per me venire qui è una specie d’atto d’amore per Roma; perché si ama qualcosa o qualcuno anche per quello che è stato e non solo per quello che è.
«Sono buoni tutti a innamorarsi a primavera» dice Carlo (Andrea Occhipinti) nella Famiglia di Ettore Scola «bisogna poi vedere quanto l’amore resiste alla pioggia.» Alle volte, quando sento che non ho più risorse, che la città sta andando a pezzi e io con lei, mi rifugio al civico 86 di via dei Condotti, al Caffè Greco, il caffè italiano più antico dopo il Florian di Venezia. Non è mia abitudine andarci spesso perché ha prezzi da emiri, ma è uno di quei luoghi che stanno lì a ricordarci che cosa è stata Roma per secoli, e cosa siamo stati tutti noi, prima di finire ammaccati all’orlo dell’impero.
Per quanto mi riguarda, è anche il luogo delle possibilità, del «come poteva andare se».
A vent’anni studiavo Storia dell’arte all’Università di Bologna e pensavo che quella sarebbe stata la mia vita. La prima volta che sono entrata al Caffè Greco ho trovato, appesa e squadernata davanti a me, la mia materia di studio quotidiano. Giravo per le chiese e i musei di Roma a prendere appunti e arrivare qui era come trovare concentrato in un unico spazio tutto quello che la città aveva sparpagliato in mille angoli. Tornarci oggi per me significa anche incontrare lo stupore di quel tempo, e osservare per un attimo il punto in cui le strade divergono, alcune portando a quello che siamo, altre a quello che non saremo mai. Nel caleidoscopio delle nostre esistenze c’è stato per tutti un momento in cui abbiamo girato il tubo e i vetrini colorati al suo interno si sono disposti a formare un disegno: il lavoro, gli incontri, le amicizie, gli amori. Ma come sarebbe andata se avessimo girato il tubo in un altro modo? O in un altro ancora? O se non l’avessimo mosso affatto?
Ecco, il Caffè Greco per me è quella cosa lì: un giardino dei sentieri che si biforcano.
Non c’è nulla di simile in tutta la città: trecento opere di artisti noti e meno noti a coprire ogni angolo delle pareti, la più grande galleria d’arte privata aperta al pubblico al mondo – come ci tiene a rimarcare il sito –, una grande camera delle meraviglie a 360 gradi con salotti e corridoi che si aprono l’uno dentro l’altro come pop-up di pietra lungo tutto il piano terra del palazzo. La sensazione, all’interno, è che tutto sia rimasto uguale a quel 1760, quando un tizio di origini levantine, Nicola della Maddalena, lo inaugurò, senza che nessuno abbia mai avuto l’idea di spostare uno dei tavolini tondi in marmo dai piedi di leone o una delle sedie in legno massello ricoperte di velluto. Sicuramente qualche tazzina nei secoli si sarà rotta, ma servono ancora il caffè dentro antiche porcellane coi bordi dorati e le scritte goticheggianti.
Certo, il romanticismo e il fascino del caffè si sgonfiano un po’ quando arriva il conto: sette euro per un espresso sono tanti. D’altronde non ci sono molti locali in cui si può dire si siano seduti, in ordine sparso: John Keats, Lord Byron, Johann Wolfgang Goethe, Antonio Canova, Guillaume Apollinaire, Giacomo Casanova, Arthur Schopenhauer, Gabriele D’Annunzio, Georges Bizet, Arturo Toscanini, James Joyce, Giacomo Leopardi, Giorgio de Chirico, Renato Guttuso… (l’elenco è pressoché infinito). Esistono luoghi dotati di una forza attrattiva misteriosa, di un magnetismo irresistibile; il Caffè Greco è stato senz’altro uno di questi, per secoli punto di riferimento di intellettuali e artisti.
Ci entro in questo sabato di metà giugno, dopo tanto che non tornavo. Voglio solo starmene un paio d’ore in un lussuoso silenzio, rilassarmi, raccogliere le idee e ragionare sulla ricerca che sto facendo. L’entrata sulla strada è anonima. L’insegna recita «Tea Room» come fosse un caffè tra i tanti. Ma appena dentro, superata la vetrina della pasticceria, l’attrazione gravitazionale del luogo mi afferra: una forza fisica, come se l’aria qui dentro avesse un peso specifico diverso. È ancora presto e non c’è quasi nessuno: un cameriere mi accompagna al tavolino senza dire una parola. Anche il personale in livrea sembra appartenere a qualcosa di più importante di un bar, tutti hanno l’aria severa dei tenutari di un passato remoto, qualcosa assieme di solenne e distante che incute deferenza, ispirano un voi da inizio Novecento. A poco a poco cominciano ad arrivare i turisti, ormai i soli frequentatori del caffè.
Sfoglio il menu con un certo disagio. È una sensazione che si fa sempre più forte e che non so da dove arrivi. Non è per le ciabatte che strascicano tra i marmi di questi salotti, sebbene non aiutino a concentrarmi; è che gradualmente mi trovo circondata da nugoli di gente, coppie, famiglie con bambini, single, fenotipi tutti diversi, di diversi continenti, ma tutti accomunati da un unico soggetto: uno smartphone, attraverso il quale, seduti sui canapè, guardano filmati, parlano in videochiamata, ascoltano musica, mostrano ai bambini cartoni animati dalle vocine garrule sotto dipinti pompier, rispondono con snervante ritardo a suonerie altissime e scattano foto condividendo questa loro eccitante esperienza con tutti i presenti. Ancora prima di sedersi il locale è ridotto a una manciata di megapixel, a un rumoreggiare sfrontato che rimbomba come la risacca tra i faraglioni.
Provo a resistere mezz’ora, poi cedo e do inizio io – il libro che mi sono portata da leggere e il mio caffè schiumato – a una transumanza di tavolo in tavolo alla ricerca di un po’ di quiete: dal salottino più vicino all’ingresso, fino all’ultimo salone, in fondo alla fine del corridoio, dalla parte opposta dell’entrata, su via delle Carrozze. Mi siedo giusto in tempo per assistere alla scena di una cliente che, dopo aver chiesto un rapido permesso al cameriere, si mette a suonare il pianoforte a coda nel centro del salone. La immagino animata da un irrefrenabile desiderio di provare lo strumento, di calarsi con la musica nella poesia del luogo. Invece no, che ingenua: è solo una messinscena perché l’amica possa girarle un video col telefonino; un’esecuzione senza vergogna che, tra cambi di inquadratura, indicazioni urlate di regia, prove malriuscite e versioni «definitive», dura un tempo irragionevole, alla quale si aggiungono le chiamate e i video di YouTube degli altri avventori.
Faccio un patetico tentativo di chiedere al cameriere se non si possa fare qualcosa per quello strazio sonoro, se può per lo meno dire gentilmente ai clienti di abbassare l’audio dei loro apparecchi, ma la stessa persona che prima mi era apparsa come un sacerdote del tempio ora mi guarda con un’aria interrogativa, come se il lemma «disturbo», associato alla parola «telefonino», non facesse più parte della nostra sintassi; un uomo rassegnato, vinto. Di più, sembra che io stia alzando un polverone per un’inezia: se mi fossi lamentata con lui che un cliente passando nel corridoio non mi aveva dato la precedenza o che un suo collega mi aveva tolto la tazzina da sinistra invece che da destra, mi avrebbe guardato credo allo stesso modo.
Intanto la gente attorno a me continua imperturbabile a guardare video e a urlare al cellulare i fatti propri e io mi chiedo quando è stato esattamente che è iniziato tutto questo, quand’è che abbiamo cominciato a trovare naturale l’inaccettabile, il momento in cui abbiamo deciso che non c’erano più confini tra noi e gli altri, che fosse normale non riuscire più a parlarci a distanza di dieci centimetri con un po’ di intimità; quand’è successo che improvvisamente c’è stato così tanto da dirci al telefono e di così urgente che non potesse aspettare mezz’ora, o anche solo il tempo di un toast, o di un caffè. Mi sento defraudata del mio spazio privato e persino di quello pubblico; del mio diritto al decoro, al silenzio e alla bellezza che questo luogo dovrebbe garantire, almeno per il valore simbolico che rappresenta.
Possibile che non ci sia più nulla che possa fungere da deterrente alla prepotenza dello smartphone? Nulla che possa, non dico mettere soggezione, ma almeno intimidire: non le pesanti cornici sulle pareti broccato, non le marsine inamidate a coda di rondine dei camerieri, non l’enorme fauno ghignante in marmo rosso in mezzo al salone. Perché non abbiamo più nessuna remora a esibire la nostra vita, in tutte le sue insenature? Una donna al cellulare accanto a me accusa l’amante di non lasciare la moglie per lei, costringendomi a prendere le parti di qualcuno in quel triangolo di sconosciuti (anche se la sua sguaiatezza fa pendere istintivamente l’ago della mia bilancia verso il fedifrago). Non so come sia potuto accadere, ma il cellulare a un certo punto ha eliminato il pudore e con lui il senso del ridicolo.
«Quando lo spettacolo è ovunque, lo spettatore non ha un posto in cui stare» diceva Guy Debord. Prendo le mie cose ed esco, esausta.
Il pomeriggio, con calma, ripenso a quanto è successo. Il mio potrebbe sembrare lo sfogo di una nostalgica della telefonia fissa in bachelite, scandalizzata dai tempi che corrono, ma le sei ore e tredici minuti che passo mediamente ogni giorno al cellulare, come mi ricorda la domenica mattina un implacabile messaggio dell’iPhone, suggeriscono il contrario. L’incubo ricorrente di mio figlio, quando era bambino, era il rapimento della sorella gemella sotto casa: un uomo misterioso usciva dal tram, se la caricava sulle spalle davanti a me, ma io non me ne accorgevo perché china sul cellulare. Mio figlio urlava, lei urlava, ma io continuavo a non staccare gli occhi dal telefono. Un sogno vividissimo, che si arricchisce sempre di nuovi dettagli di cui adesso lui mi parla spesso, in attesa, immagino, di parlarne un giorno col suo analista.
Parlo del peccato da peccatrice. Conosco la fatica e la forza di volontà da samurai che ci vogliono per non toccare in continuazione i nostri gusci iridescenti, per non rispondere ai messaggi, alle mail, per non mettere un like; sono talmente compulsiva che mi viene da replicare anche ai messaggi automatici dei captcha. In un famosissimo esperimento dell’Università di Stanford alla fine degli anni sessanta, che valutava la capacità di resistere a una tentazione, un gruppo di bambini dai tre ai sei anni venne lasciato solo in una stanza con dei marshmallow e una promessa: se non li avessero toccati per quindici minuti ne avrebbero avuti molti di più. Nessuno resisteva più di qualche minuto; io avrei retto sì e no sette secondi, il tempo di scegliere su quale buttarmi per primo. A distanza di anni, era stato possibile anche dimostrare come ci fosse una corrispondenza precisa tra i minuti resistiti dai bambini davanti ai dolcetti e i punteggi ottenuti nei test d’ingresso all’università, una volta diventati grandi. Ecco, io non sarei stata una di loro. Questo per dire, so perfettamente di cosa parliamo quando parliamo di iperconnessione.
Da qualche parte ho letto che le ore passano, sono i minuti che non passano mai. Vale per il dolore, per la noia, e probabilmente può adattarsi anche al cellulare. I minuti che ci separano dall’invio di un whatsapp, da quando vediamo la spunta blu dall’altra parte, all’arrivo della risposta – sempre che arrivi –, sono uno stato d’attesa continua che dilata il tempo e annulla l’anima.
Faccio fatica io stessa a ricordarlo, ma all’inizio non era così. La storia del nostro rapporto con lo smartphone passa anche attraverso la storia delle parole. Nel 2006, in era pre-iPhone, era stato coniato un termine per descrivere lo spaesamento misto a nervosismo che prendeva dal trovarsi di fronte qualcuno che all’improvviso, mentre stava parlando con noi, tirava fuori il telefono e iniziava a chattare o a navigare: pizzled, unione di «piss off» (spazientirsi, arrabbiarsi) e «puzzled» (rimanere confusi). Era una parola che manifestava lo sconcerto, il fastidio e in qualche modo la riprovazione sociale per un gesto che semplicemente andava sotto la voce «non si fa»: come masticare a bocca aperta, leggere un libro a tavola durante la cena, infilarsi le dita nel naso. L’effetto che faceva all’inizio vedere qualcuno che si metteva a digitare su uno smartphone nel mezzo di una conversazione era più o meno lo stesso di vedere una persona tagliarsi le unghie dei piedi al ristorante.
Ma il sistema di valori, così come il senso della socialità, muta di epoca in epoca e di paese in paese (se vi capitasse di camminare per Katmandu per esempio state attenti a dove mettete i piedi, perché in Nepal lo sputo è una pratica normale, come per noi il colpo di tosse). Oggi essere seduti davanti a qualcuno che dà più importanza a una notifica di Facebook che a noi – di fatto escludendoci – è diventata la norma, un’effrazione che non registriamo più nemmeno come tale. Ci siamo talmente abituati a vivere in contumacia amori e interazioni che non ci rendiamo conto di quanto sia mortificante e intimamente doloroso ignorare ed essere ignorati, come se l’anestetizzazione reciproca delle coscienze ci assolvesse e ci liberasse dal dovere dell’attenzione. Mi ha stupito leggere negli articoli e nei libri sulla connessione l’emergere di una nuova espressione per descrivere il gesto di mettersi a guardare lo smartphone, estromettendo chi ci sta davanti: phubbing, unione di «phone» e «snubbing» (snobbare). Non c’è più, nella nuova parola, l’idea di sentirsi offesi da chi preferisce un apparecchio a noi; anzi, quasi il contrario, come se la presenza fisica di un altro essere umano turbasse la relazione simbiotica col device. Un pericoloso ribaltamento del punto di vista.
Ci sono poi dei piccoli gesti che, come alcune parole, sono spie che rivelano di noi molto più di quanto crediamo: il gesto di appoggiare il cellulare sul tavolo mentre parliamo con qualcuno, per esempio, non è un atto neutro, ma – come ha spiegato la psicologa e psicoterapeuta Rossella Dolce – «un segnale che per noi quell’oggetto è importante e che con la mente siamo già predisposti ad accettare altri collegamenti a cui daremo la precedenza rispetto a chi abbiamo di fronte». Uno studio dell’Università del Kent, che ha coinvolto 153 volontari ed è stato pubblicato sul Journal of Applied Social Psychology, ha scoperto che il phubbing peggiora la comunicazione e le relazioni tra le persone. I partecipanti hanno assistito a una scena di circa tre minuti con due volontari che interagivano tra loro, controllando di tanto in tanto il telefono: il compito era di identificarsi con uno dei protagonisti. Più il livello di phubbing aumentava – cioè più aumentava il livello di distrazione da smartphone – più i partecipanti all’esperimento percepivano che la qualità della relazione era peggiore e sempre più insoddisfacente. Le conclusioni della ricerca sono pesanti: il phubbing è una «forma di esclusione sociale», capace, quando lo si subisce, di «minacciare alcuni bisogni umani fondamentali, come l’appartenenza, l’autostima, il senso di realizzazione e il controllo».
Se quel gesto di essere tagliati fuori dall’orizzonte ferisce noi, figuriamoci quanto possa essere umiliante recitare, c...

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