1. Iperconnessi
Via dei Condotti Ăš forse lâultimo posto al mondo oggi dove avvertire «lâattrito del tempo». Ă difficile, mentre si cammina in questo acquario del lusso destinato a lasciare tracce piĂč sulle carte di credito che sulle mappe della storia, immaginare cosa fosse questa zona di Roma quando i viaggiatori passavano col cuore in gola sotto la porta del Popolo e si trovavano faccia a faccia con gli artisti della cittĂ eterna, che avevano i loro studi e le abitazioni proprio in questi vicoli (via Margutta, la «via dei pittori», Ăš qui dietro). O lo stupore che poteva cogliere quei visitatori quando, arrivando in fondo alla strada, a piazza di Spagna, riconoscevano nei volti delle modelle e dei modelli seduti sui gradini delle scale di TrinitĂ dei Monti quelli dei protagonisti di dipinti immortali: povera gente, che racimolava qualche soldo diventando una volta san Matteo, unâaltra il Laocoonte. Madonne di giorno, meretrici la sera.
Ă uno degli angoli della cittĂ che i romani hanno abiurato da tempo, ma dove amo di piĂč passeggiare. Mi piace stordirmi nella fiumana infernale dei turisti che si fanno le foto davanti alla fontana di Bernini e alle vetrine dei negozi, monumenti a loro volta di gratificazioni, perdermi in mezzo a venditori di caldarroste che arrostiscono dodici mesi lâanno e costano come topazi, guardare le botteghe che rivoltano le lettere delle insegne per seguire i tempi, come se un panificio non si potesse piĂč chiamare panificio ma dovesse per forza trasformarsi in bakery. Per me venire qui Ăš una specie dâatto dâamore per Roma; perchĂ© si ama qualcosa o qualcuno anche per quello che Ăš stato e non solo per quello che Ăš.
«Sono buoni tutti a innamorarsi a primavera» dice Carlo (Andrea Occhipinti) nella Famiglia di Ettore Scola «bisogna poi vedere quanto lâamore resiste alla pioggia.» Alle volte, quando sento che non ho piĂč risorse, che la cittĂ sta andando a pezzi e io con lei, mi rifugio al civico 86 di via dei Condotti, al CaffĂš Greco, il caffĂš italiano piĂč antico dopo il Florian di Venezia. Non Ăš mia abitudine andarci spesso perchĂ© ha prezzi da emiri, ma Ăš uno di quei luoghi che stanno lĂŹ a ricordarci che cosa Ăš stata Roma per secoli, e cosa siamo stati tutti noi, prima di finire ammaccati allâorlo dellâimpero.
Per quanto mi riguarda, Ú anche il luogo delle possibilità , del «come poteva andare se».
A ventâanni studiavo Storia dellâarte allâUniversitĂ di Bologna e pensavo che quella sarebbe stata la mia vita. La prima volta che sono entrata al CaffĂš Greco ho trovato, appesa e squadernata davanti a me, la mia materia di studio quotidiano. Giravo per le chiese e i musei di Roma a prendere appunti e arrivare qui era come trovare concentrato in un unico spazio tutto quello che la cittĂ aveva sparpagliato in mille angoli. Tornarci oggi per me significa anche incontrare lo stupore di quel tempo, e osservare per un attimo il punto in cui le strade divergono, alcune portando a quello che siamo, altre a quello che non saremo mai. Nel caleidoscopio delle nostre esistenze câĂš stato per tutti un momento in cui abbiamo girato il tubo e i vetrini colorati al suo interno si sono disposti a formare un disegno: il lavoro, gli incontri, le amicizie, gli amori. Ma come sarebbe andata se avessimo girato il tubo in un altro modo? O in un altro ancora? O se non lâavessimo mosso affatto?
Ecco, il CaffĂš Greco per me Ăš quella cosa lĂŹ: un giardino dei sentieri che si biforcano.
Non câĂš nulla di simile in tutta la cittĂ : trecento opere di artisti noti e meno noti a coprire ogni angolo delle pareti, la piĂč grande galleria dâarte privata aperta al pubblico al mondo â come ci tiene a rimarcare il sito â, una grande camera delle meraviglie a 360 gradi con salotti e corridoi che si aprono lâuno dentro lâaltro come pop-up di pietra lungo tutto il piano terra del palazzo. La sensazione, allâinterno, Ăš che tutto sia rimasto uguale a quel 1760, quando un tizio di origini levantine, Nicola della Maddalena, lo inaugurĂČ, senza che nessuno abbia mai avuto lâidea di spostare uno dei tavolini tondi in marmo dai piedi di leone o una delle sedie in legno massello ricoperte di velluto. Sicuramente qualche tazzina nei secoli si sarĂ rotta, ma servono ancora il caffĂš dentro antiche porcellane coi bordi dorati e le scritte goticheggianti.
Certo, il romanticismo e il fascino del caffĂš si sgonfiano un poâ quando arriva il conto: sette euro per un espresso sono tanti. Dâaltronde non ci sono molti locali in cui si puĂČ dire si siano seduti, in ordine sparso: John Keats, Lord Byron, Johann Wolfgang Goethe, Antonio Canova, Guillaume Apollinaire, Giacomo Casanova, Arthur Schopenhauer, Gabriele DâAnnunzio, Georges Bizet, Arturo Toscanini, James Joyce, Giacomo Leopardi, Giorgio de Chirico, Renato Guttuso⊠(lâelenco Ăš pressochĂ© infinito). Esistono luoghi dotati di una forza attrattiva misteriosa, di un magnetismo irresistibile; il CaffĂš Greco Ăš stato senzâaltro uno di questi, per secoli punto di riferimento di intellettuali e artisti.
Ci entro in questo sabato di metĂ giugno, dopo tanto che non tornavo. Voglio solo starmene un paio dâore in un lussuoso silenzio, rilassarmi, raccogliere le idee e ragionare sulla ricerca che sto facendo. Lâentrata sulla strada Ăš anonima. Lâinsegna recita «Tea Room» come fosse un caffĂš tra i tanti. Ma appena dentro, superata la vetrina della pasticceria, lâattrazione gravitazionale del luogo mi afferra: una forza fisica, come se lâaria qui dentro avesse un peso specifico diverso. Ă ancora presto e non câĂš quasi nessuno: un cameriere mi accompagna al tavolino senza dire una parola. Anche il personale in livrea sembra appartenere a qualcosa di piĂč importante di un bar, tutti hanno lâaria severa dei tenutari di un passato remoto, qualcosa assieme di solenne e distante che incute deferenza, ispirano un voi da inizio Novecento. A poco a poco cominciano ad arrivare i turisti, ormai i soli frequentatori del caffĂš.
Sfoglio il menu con un certo disagio. Ă una sensazione che si fa sempre piĂč forte e che non so da dove arrivi. Non Ăš per le ciabatte che strascicano tra i marmi di questi salotti, sebbene non aiutino a concentrarmi; Ăš che gradualmente mi trovo circondata da nugoli di gente, coppie, famiglie con bambini, single, fenotipi tutti diversi, di diversi continenti, ma tutti accomunati da un unico soggetto: uno smartphone, attraverso il quale, seduti sui canapĂš, guardano filmati, parlano in videochiamata, ascoltano musica, mostrano ai bambini cartoni animati dalle vocine garrule sotto dipinti pompier, rispondono con snervante ritardo a suonerie altissime e scattano foto condividendo questa loro eccitante esperienza con tutti i presenti. Ancora prima di sedersi il locale Ăš ridotto a una manciata di megapixel, a un rumoreggiare sfrontato che rimbomba come la risacca tra i faraglioni.
Provo a resistere mezzâora, poi cedo e do inizio io â il libro che mi sono portata da leggere e il mio caffĂš schiumato â a una transumanza di tavolo in tavolo alla ricerca di un poâ di quiete: dal salottino piĂč vicino allâingresso, fino allâultimo salone, in fondo alla fine del corridoio, dalla parte opposta dellâentrata, su via delle Carrozze. Mi siedo giusto in tempo per assistere alla scena di una cliente che, dopo aver chiesto un rapido permesso al cameriere, si mette a suonare il pianoforte a coda nel centro del salone. La immagino animata da un irrefrenabile desiderio di provare lo strumento, di calarsi con la musica nella poesia del luogo. Invece no, che ingenua: Ăš solo una messinscena perchĂ© lâamica possa girarle un video col telefonino; unâesecuzione senza vergogna che, tra cambi di inquadratura, indicazioni urlate di regia, prove malriuscite e versioni «definitive», dura un tempo irragionevole, alla quale si aggiungono le chiamate e i video di YouTube degli altri avventori.
Faccio un patetico tentativo di chiedere al cameriere se non si possa fare qualcosa per quello strazio sonoro, se puĂČ per lo meno dire gentilmente ai clienti di abbassare lâaudio dei loro apparecchi, ma la stessa persona che prima mi era apparsa come un sacerdote del tempio ora mi guarda con unâaria interrogativa, come se il lemma «disturbo», associato alla parola «telefonino», non facesse piĂč parte della nostra sintassi; un uomo rassegnato, vinto. Di piĂč, sembra che io stia alzando un polverone per unâinezia: se mi fossi lamentata con lui che un cliente passando nel corridoio non mi aveva dato la precedenza o che un suo collega mi aveva tolto la tazzina da sinistra invece che da destra, mi avrebbe guardato credo allo stesso modo.
Intanto la gente attorno a me continua imperturbabile a guardare video e a urlare al cellulare i fatti propri e io mi chiedo quando Ăš stato esattamente che Ăš iniziato tutto questo, quandâĂš che abbiamo cominciato a trovare naturale lâinaccettabile, il momento in cui abbiamo deciso che non câerano piĂč confini tra noi e gli altri, che fosse normale non riuscire piĂč a parlarci a distanza di dieci centimetri con un poâ di intimitĂ ; quandâĂš successo che improvvisamente câĂš stato cosĂŹ tanto da dirci al telefono e di cosĂŹ urgente che non potesse aspettare mezzâora, o anche solo il tempo di un toast, o di un caffĂš. Mi sento defraudata del mio spazio privato e persino di quello pubblico; del mio diritto al decoro, al silenzio e alla bellezza che questo luogo dovrebbe garantire, almeno per il valore simbolico che rappresenta.
Possibile che non ci sia piĂč nulla che possa fungere da deterrente alla prepotenza dello smartphone? Nulla che possa, non dico mettere soggezione, ma almeno intimidire: non le pesanti cornici sulle pareti broccato, non le marsine inamidate a coda di rondine dei camerieri, non lâenorme fauno ghignante in marmo rosso in mezzo al salone. PerchĂ© non abbiamo piĂč nessuna remora a esibire la nostra vita, in tutte le sue insenature? Una donna al cellulare accanto a me accusa lâamante di non lasciare la moglie per lei, costringendomi a prendere le parti di qualcuno in quel triangolo di sconosciuti (anche se la sua sguaiatezza fa pendere istintivamente lâago della mia bilancia verso il fedifrago). Non so come sia potuto accadere, ma il cellulare a un certo punto ha eliminato il pudore e con lui il senso del ridicolo.
«Quando lo spettacolo Ú ovunque, lo spettatore non ha un posto in cui stare» diceva Guy Debord. Prendo le mie cose ed esco, esausta.
Il pomeriggio, con calma, ripenso a quanto Ăš successo. Il mio potrebbe sembrare lo sfogo di una nostalgica della telefonia fissa in bachelite, scandalizzata dai tempi che corrono, ma le sei ore e tredici minuti che passo mediamente ogni giorno al cellulare, come mi ricorda la domenica mattina un implacabile messaggio dellâiPhone, suggeriscono il contrario. Lâincubo ricorrente di mio figlio, quando era bambino, era il rapimento della sorella gemella sotto casa: un uomo misterioso usciva dal tram, se la caricava sulle spalle davanti a me, ma io non me ne accorgevo perchĂ© china sul cellulare. Mio figlio urlava, lei urlava, ma io continuavo a non staccare gli occhi dal telefono. Un sogno vividissimo, che si arricchisce sempre di nuovi dettagli di cui adesso lui mi parla spesso, in attesa, immagino, di parlarne un giorno col suo analista.
Parlo del peccato da peccatrice. Conosco la fatica e la forza di volontĂ da samurai che ci vogliono per non toccare in continuazione i nostri gusci iridescenti, per non rispondere ai messaggi, alle mail, per non mettere un like; sono talmente compulsiva che mi viene da replicare anche ai messaggi automatici dei captcha. In un famosissimo esperimento dellâUniversitĂ di Stanford alla fine degli anni sessanta, che valutava la capacitĂ di resistere a una tentazione, un gruppo di bambini dai tre ai sei anni venne lasciato solo in una stanza con dei marshmallow e una promessa: se non li avessero toccati per quindici minuti ne avrebbero avuti molti di piĂč. Nessuno resisteva piĂč di qualche minuto; io avrei retto sĂŹ e no sette secondi, il tempo di scegliere su quale buttarmi per primo. A distanza di anni, era stato possibile anche dimostrare come ci fosse una corrispondenza precisa tra i minuti resistiti dai bambini davanti ai dolcetti e i punteggi ottenuti nei test dâingresso allâuniversitĂ , una volta diventati grandi. Ecco, io non sarei stata una di loro. Questo per dire, so perfettamente di cosa parliamo quando parliamo di iperconnessione.
Da qualche parte ho letto che le ore passano, sono i minuti che non passano mai. Vale per il dolore, per la noia, e probabilmente puĂČ adattarsi anche al cellulare. I minuti che ci separano dallâinvio di un whatsapp, da quando vediamo la spunta blu dallâaltra parte, allâarrivo della risposta â sempre che arrivi â, sono uno stato dâattesa continua che dilata il tempo e annulla lâanima.
Faccio fatica io stessa a ricordarlo, ma allâinizio non era cosĂŹ. La storia del nostro rapporto con lo smartphone passa anche attraverso la storia delle parole. Nel 2006, in era pre-iPhone, era stato coniato un termine per descrivere lo spaesamento misto a nervosismo che prendeva dal trovarsi di fronte qualcuno che allâimprovviso, mentre stava parlando con noi, tirava fuori il telefono e iniziava a chattare o a navigare: pizzled, unione di «piss off» (spazientirsi, arrabbiarsi) e «puzzled» (rimanere confusi). Era una parola che manifestava lo sconcerto, il fastidio e in qualche modo la riprovazione sociale per un gesto che semplicemente andava sotto la voce «non si fa»: come masticare a bocca aperta, leggere un libro a tavola durante la cena, infilarsi le dita nel naso. Lâeffetto che faceva allâinizio vedere qualcuno che si metteva a digitare su uno smartphone nel mezzo di una conversazione era piĂč o meno lo stesso di vedere una persona tagliarsi le unghie dei piedi al ristorante.
Ma il sistema di valori, cosĂŹ come il senso della socialitĂ , muta di epoca in epoca e di paese in paese (se vi capitasse di camminare per Katmandu per esempio state attenti a dove mettete i piedi, perchĂ© in Nepal lo sputo Ăš una pratica normale, come per noi il colpo di tosse). Oggi essere seduti davanti a qualcuno che dĂ piĂč importanza a una notifica di Facebook che a noi â di fatto escludendoci â Ăš diventata la norma, unâeffrazione che non registriamo piĂč nemmeno come tale. Ci siamo talmente abituati a vivere in contumacia amori e interazioni che non ci rendiamo conto di quanto sia mortificante e intimamente doloroso ignorare ed essere ignorati, come se lâanestetizzazione reciproca delle coscienze ci assolvesse e ci liberasse dal dovere dellâattenzione. Mi ha stupito leggere negli articoli e nei libri sulla connessione lâemergere di una nuova espressione per descrivere il gesto di mettersi a guardare lo smartphone, estromettendo chi ci sta davanti: phubbing, unione di «phone» e «snubbing» (snobbare). Non câĂš piĂč, nella nuova parola, lâidea di sentirsi offesi da chi preferisce un apparecchio a noi; anzi, quasi il contrario, come se la presenza fisica di un altro essere umano turbasse la relazione simbiotica col device. Un pericoloso ribaltamento del punto di vista.
Ci sono poi dei piccoli gesti che, come alcune parole, sono spie che rivelano di noi molto piĂč di quanto crediamo: il gesto di appoggiare il cellulare sul tavolo mentre parliamo con qualcuno, per esempio, non Ăš un atto neutro, ma â come ha spiegato la psicologa e psicoterapeuta Rossella Dolce â «un segnale che per noi quellâoggetto Ăš importante e che con la mente siamo giĂ predisposti ad accettare altri collegamenti a cui daremo la precedenza rispetto a chi abbiamo di fronte». Uno studio dellâUniversitĂ del Kent, che ha coinvolto 153 volontari ed Ăš stato pubblicato sul Journal of Applied Social Psychology, ha scoperto che il phubbing peggiora la comunicazione e le relazioni tra le persone. I partecipanti hanno assistito a una scena di circa tre minuti con due volontari che interagivano tra loro, controllando di tanto in tanto il telefono: il compito era di identificarsi con uno dei protagonisti. PiĂč il livello di phubbing aumentava â cioĂš piĂč aumentava il livello di distrazione da smartphone â piĂč i partecipanti allâesperimento percepivano che la qualitĂ della relazione era peggiore e sempre piĂč insoddisfacente. Le conclusioni della ricerca sono pesanti: il phubbing Ăš una «forma di esclusione sociale», capace, quando lo si subisce, di «minacciare alcuni bisogni umani fondamentali, come lâappartenenza, lâautostima, il senso di realizzazione e il controllo».
Se quel gesto di essere tagliati fuori dallâorizzonte ferisce noi, figuriamoci quanto possa essere umiliante recitare, c...