1.1 La cultura visuale
La pubblicitĂ non è solo informazione e non è solo comparazione, ma unâinduzione a una vera e propria âpersuasione occultaâ (per usare unâespressione di packardiana memoria), finalizzata a dirigere il consumo, a sollecitare bisogni e desideri.
ÂŤUn tempo le norme morali imponevano allâindividuo di adattarsi allâinsieme della societĂ , ma questo è lâideologia ormai superata di unâepoca di produzione; in unâepoca di consumi, o che pretende di essere tale, sarĂ la societĂ globale ad adattarsi allâindividuoÂť1.
Non soltanto anticipa i suoi bisogni, ma si prende anche la cura di adattare se stessa non a questo o quel bisogno, ma addirittura allâindividuo personalmente. Quando era di moda pettinarsi alla Bardot ogni razza alla moda si sentiva unica ai propri occhi, poichĂŠ il suo punto di riferimento non erano le migliaia di ragazze simili a lei, ma Brigitte Bardot, lâarchetipo sublime da cui discendeva lâoriginale.
Con quale strategia? Il desiderio di possesso, lâerotizzazione dellâoggetto e la capitalizzazione del valore affettivo. Nella societĂ capitalistica avanzata, per assurdo, la pubblicitĂ fornisce gli strumenti per capirsi e le risposte alle domande inespresse, sintetizzando il tutto nel prodotto di cui si esaltano le proprietĂ sĂŹ miracolose ma alla portata di chiunque. Lâattenzione con cui si sollecita e si induce lâindividuo a sentirsi soggetto attivo in questa equazione è il segno che da qualche parte esiste unâistanza (sociale in questo caso) che accetta di informarlo sui propri desideri, di anticiparli e razionalizzarli ai propri occhi. Volli sottolinea come il meccanismo chiamato âiperseduzioneâ si attui in modo manipolatorio e conativo, lo scopo è innescare la necessitĂ di far fare qualcosa a qualcuno, convincendolo che non potrebbe fare altrimenti per il proprio benessere personale. Per questo motivo il messaggio pubblicitario tende a virare lâattenzione dal contenuto al destinatario, che proverĂ emozioni tali da legarsi ai brand stessi. Il parallelismo che Volli porta è quello dellâideologia di massa che sfocia nelle nuove religioni del mondo contemporaneo2. E il potere della marca è un potere fascinatorio, perchĂŠ implica unâadorazione priva di riserve e un coinvolgimento emotivo estatico, totalizzante3.
Il grande fraintendimento a cui si va incontro quando si parla di pubblicitĂ , come di altre categorie come il design o la comunicazione in genere, è dato dalla loro vicinanza allâesperienza artistica. Interrogarsi sul valore estetico della pubblicitĂ non significa discutere sul fatto che rientri o meno nella categoria dellâarte â come se fosse invece possibile decidere cosa appunto sia lâarte. Ă possibile, però, cercare di usare quelle categorie che il pensiero critico ha usato per sondare il fenomeno artistico anche per il fenomeno pubblicitario.
Anche il fenomeno pubblicitario divide, in modo altrettanto controverso, lo spettatore. Il primo grande scoglio, nel target, è la fiducia nel messaggio veicolato. Da un punto di vista âtecnicoâ, ci sarĂ chi lo trova ben eseguito o addirittura geniale e chi no. Come delineato da Barthes, vi è una spaccatura tra chi segue comunque la pubblicitĂ , anche solo per criticarla e minarne il nucleo comunicativo, e chi la rifiuta in blocco, cercando altre vie di informazione o, piĂš radicalmente, altri prodotti che hanno la caratteristica di non essere pubblicizzati in toto. Anche in questâultimo caso si ripropone quella divisione tra un pubblico popolare versus target borghese, il primo comune e il secondo elitario ed esclusivo che vuole e può fare a meno dello strumento pubblicitario ( anche per unâassociazione al rifiuto dei mezzi di comunicazione che lo veicolano).
Ci sono pubblicitĂ , secondo il proprio gusto, che piacciono o non piacciono come altre definibili quasi universalmente attraenti o geniali; ne esistono alcune immediatamente definibili come âzeligâ di modelli stranoti, altre del tutto sorprendenti; alcune piĂš ermetiche, altre condivisibili, quindi comprensibili anche con altre culture, e lĂŹ esportabili; alcune che suggeriscono â proprio come quei prodotti indubbiamente âartisticiâ â esperienze possibili ben al di lĂ del loro scopo commerciale.
Si dice che i campi della pubblicitĂ e delle relazioni pubbliche, come quello della politica, siano affollati di professionisti che - con lâaiuto di tecniche efficaci e probanti - mettono ogni cura nella scelta delle parole e delle immagini giuste. Certamente, preparati e diligenti. Ci si interroga, spesso, sulla valenza, in modo oggettivo, di ciò che viene veicolato e detto. Della veridicitĂ , come della responsabilitĂ del messaggio. Quanto, in generale, il mondo della comunicazione sia permeato e sporcato da una quantitĂ massiva di informazioni fuorvianti, fake news, ancor piĂš che dalle pubblicitĂ ingannevoli.
Unâaltra critica mossa: la pubblicitĂ ha fatto proprio fin da subito un patrimonio di conoscenze cristallizzate nei luoghi comuni, sia copiandone i meccanismi formali che i contenuti. Per quanto povero di materiale â una sola frase, una sola immagine â il messaggio pubblicitario porta con sĂŠ unâintera âimmagine del mondoâ. Sia per ciò che implica con il suo manifestarsi, sia per ciò che è necessario sapere e conoscere per comprenderli: un claim, un adv, uno spot si aprono a rappresentare un mondo possibile, un intero sistema di valori, credenze, rapporti sociali e politici.
La valutazione estetica può effettuarsi come un esercizio di interrogazione rispetto alla realtĂ che rappresenta attraverso il linguaggio adottato. In questo senso, è posto a contrasto con i tradizionali counter di validitĂ della pubblicitĂ stessa: lâefficacia, il costo, il gradimento del committente, la durata.
Ma non si può valutare la pubblicitĂ dimenticando il piacere, la meraviglia, la comunicabilitĂ della bellezza, caratteristiche non rapportabili al gusto del singolo o del target, oppure alla momentanea tendenza del mercato, ma a una complessiva ârappresentazione del mondoâ (dei rapporti sociali, economici, politici) che è stata studiata e usata nel concept e che ne è la base sulla quale è stata strutturata e studiata la comunicazione relativa.
La pubblicitĂ occupa un ruolo predominante nel vissuto di ogni uomo, tanto che lo si accusa di invadere il reale alterando gli schemi percettivi. Lo spettacolo, sia esso televisivo o pubblicitario, sembra essere un mondo senza replica, detentore del monopolio dellâapparire, allâinterno del quale il fruitore deve sapersi muovere con grande scaltrezza se non vuole affondare in una scala di grigi della ragione. Cosa intendiamo? Che una fruizione consapevole delle possibilitĂ che forniscono le nuove tecnologie e le vecchie (tv in primis) è ciò che consentirebbe il superamento di un mero attacco indifferenziato alle grandi opportunitĂ aperte dallâera della spettacolarizzazione e della pubblicitĂ .4
1.2 Post-medialitĂ e comunicazione
Elemento essenziale, metafora e emblema di unâepoca e di una societĂ sono, secondo McLuhan5, i media. Nellâelaborazione dei criteri di comprensione di questi strumenti, per prima cosa ne definĂŹ lâidentitĂ . Non solo i canonici stampa, radio, cinema, televisione ma anche abbigliamento, automotive, armi. A delineare che, con il termine media, si intende ogni prolungamento tecnologico dei sensi dellâuomo. Da qui lâinteresse dellâautore ad analizzarne soprattutto la forma in cui ciascuno di essi tende a organizzare il proprio eventuale contenuto e a imporre particolari condizioni di fruizione. Notorio è il claim dellâautore: il medium è il messaggio.
Sulla stessa scia, ma in modo quasi ancor piĂš radicale, Ruggero Eugeni in La condizione postmediale6 espone la teoria secondo la quale i dispositivi che chiamiamo media si sono in realtĂ dissolti in apparati di commercio, controllo, combattimento, gioco, viaggio e relazione propri della societĂ contemporanea. Dopo lâetĂ postmoderna, siamo entrati nellâera postmediale. Il suo saggio provocatoriamente sostiene le ere che precedono la morte dei media stessi: i media meccanici (1850-1914), i media elettronici (1915-1980) e i media digitali (1984-oggi).
Nellâesasperazione dellâultima fase, come momento topico, Eugeni fonda come data cardine il 22 gennaio 1984. Durante il Super Bowl, lo sponsor del nuovo Macintosh irruppe nelle case degli americani, in una delle pause pubblicitarie finali del piĂš grande appuntamento televisivo dellâanno. Non vi è alcuna rappresentazione del prodotto, se non attraverso la metafora di una giovane atleta che irrompe nel cinema e manda in frantumi lo schermo. Si tratta di una visione lucidissima, firmata Ridley Scott, di cosa sarebbe stati i media del futuro, ovvero i media di oggi. Comincia cosĂŹ, proprio con questa pubblicitĂ profetica, per Eugeni, la fase di vaporizzazione. Il 1984 è la data convenzionale che indica due fenomeni che hanno portato alla fine dei media. Il primo è la moltiplicazione dei canali di erogazione dei prodotti mediali. Nuovi sono gli apparecchi di fruizione che lasciano lo spettatore libero da una fruizione del qui e ora, ad esempio i videoregistratori. Si diffondono negli anni â80, permettendo un uso piuĚ libero e personalizzato del proprio tempo (spostamento dellâasse della programmazione del palinsesto per un beneficio personale). Dal punto di vista spaziale, invece, i media diventano ubiqui. Walkman e iPod, successivamente, diventano la summa del consumo e della fruizione nomade e mobile. Il secondo è la digitalizzazione dei materiali che compongono i prodotti mediali. Il computer diventa un metamedia, in grado di ibridare nello stesso documento materiali differenti ed in grado di rimandare da un punto in punto, creando link.
Ma i materiali mediali in forma digitale presentano caratteristiche peculiari e intrinseche. Ogni copia eĚ identica allâoriginale e puoĚ essere manipolata e modificata da chiunque abbia gli strumenti per farlo. Il digitale distrugge la gerarchia dei ruoli tra emittente e ricevente (recettore), lâemittente eĚ depositario solo in parte di un originale dotato di valore sacrale mentre il recettore assume funzioni di autorialitaĚ e co-autorialitaĚ e distribuzione di materiali. Nasce quindi la figura del prosumer (producer+consumer). Lâavvento del digitale contribuisce alla moltiplicazione dei canali di distribuzione sia on che offline. In particolare le nuove logiche di distribuzione e la digitalizzazione fanno in modo che vi siano nuove possibilitaĚ di interazione tra fruitori e media.
Questo panorama rivela una crisi radicale dei media otto-novecenteschi, motivo per il quale parliamo di una condizione postmediale. Analizzando il percorso che ci ha portato a questa riflessione, vediamo come negli ultimi due decenni del XX secolo i media, in quanto dispositivi, sono stati deindividuati fino a sparire allâinterno di una rete di apparati, processi e pratiche che rendono impossibile isolare le componenti mediali da quelle non mediali. Lâavvento di questa condizione eĚ stato accompagnato da tre grandi momenti topici. La naturalizzazione, ovvero una nuova sintesi di natura e cultura, una occultazione della logica del mercato tale da non rendere percepibile lâatto del consumo. La piuĚ grande banca dati al mondo sui consumi e sui gusti in fatto di fiction eĚ Netflix. Un patrimonio di big data di enorme valore che la societaĚ non concede neppure agli stessi produttori dei film e delle serie televisive che rende disponibili. A seguito: la soggettivazione dellâesperienza e, di conseguenza, lâoggettivazione del soggetto nella socialitĂ , dove il controllo si esprime attraverso pratiche condivise di sorveglianza in cui siamo immersi (es. video camere nei luoghi pubblici, profili e attivitaĚ sul web). Lâultimo step eĚ quello della socializzazione della relazione intersoggettiva, ovvero il superamento della distinzione tra individualitaĚ del soggetto e convenzioni del suo contesto sociale eĚ specificamente orientato a occultare una logica di potere.
Poco piĂš di dieci anni fa il mondo si affacciava a internet, e di conseguenza, lo cambiava. In poco tempo, lâutente veniva reso non piĂš spettatore ma atto...