L'interregno
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L'interregno

Una terza via per l'Italia e l'Europa

Gustavo Piga

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L'interregno

Una terza via per l'Italia e l'Europa

Gustavo Piga

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Euro o no-euro? Unionisti o nazionalisti? Cosmopoliti o sovranisti? Dall'insorgere della crisi americana nel 2008, divenuta crisi esclusivamente europea dal 2011, il Vecchio Continente si è diviso al suo interno: geograficamente, politicamente, socialmente ed economicamente. Difficile dire quale posizione prevarrà: quello odierno è, avrebbe detto Gramsci, un momento di "interregno", in cui possono verificarsi "i fenomeni morbosi più svariati". Eppure, malgrado questa incertezza sul futuro, la Storia non è avara di consigli: soprattutto per prevedere in che senso il domani si opporrà a sua volta a ieri. Gustavo Piga ripercorre da economista, ma con sguardo interdisciplinare, non solo questo primo ventennio dell'euro, ma anche i primi decenni - secoli addietro - di un'altra unione monetaria che è riuscita a sopravvivere e, a suo modo, ad affermarsi: quella degli Stati Uniti d'America. Le lezioni che si traggono da queste due storie portano a individuare una terza via per la sopravvivenza pacifica e lo sviluppo armonioso del nostro Paese e dell'Unione europea. Una via che non è né quella dell'abbandono dell'euro, né quella degli Stati Uniti d'Europa ora e subito. Una via forse più complessa, che richiede una politica (italiana ed europea) più coraggiosa e meno populista, più keynesiana e meno liberista, più locale e meno globale, capace di seminare oggi al fine di vedere crescere domani la pianta di un'Europa più solidale attraverso una reale cooperazione tra le future generazioni.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820399573
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Parte IV
Un’idea di Unione

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22

Gli Stati disuniti d’Europa

“L’esperienza storica di federazioni avanzate […] rimarca come l’introduzione di tali meccanismi abbia generalmente seguito gravi crisi economiche, dagli Stati Uniti nel 1790 in avanti e si sia generalmente accompagnata a un rafforzamento dei poteri fiscali centrali”, così si parla delle Unioni Fiscali nell’IMF staff paper on Fiscal Unions del novembre 20131.
La soluzione propugnata nel passaggio sopra citato del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha evidenti implicazioni anche per l’Europa: fare come gli Stati Uniti, centralizzare tutta la politica fiscale a Bruxelles, levando anche il cannone della politica fiscale agli Stati nazionali.
Ecco la seconda via, alternativa al divorzio: creare un Ministro del Tesoro per tutta l’Europa, che decida quanto spendere, quanto e quando tassare, quanto e quando indebitarsi, estromettendo i ministri locali dell’economia e delle finanze, così come la BCE di Francoforte ha estromesso dalla politica monetaria le singole banche centrali nazionali.
Eppure, quanto affermato dal FMI sugli Stati Uniti è un grossolano e grave errore di valutazione storica e di quanto avvenuto in una delle “unioni monetarie di diversi” più di successo al mondo. Sia in termini economici sia, soprattutto, geopolitici. In realtà, proprio il caso americano potrebbe portare a individuare quali siano gli errori da evitare per sopravvivere all’interno di un’unione di diversi e quali siano i requisiti affinché una tale unione, con una moneta unica e condivisa, possa prosperare. Centralizzare da subito la politica fiscale funzionerebbe? La Storia sembra dire, a voce alta: “no”.
Molti ritengono che il paragone tra Storia europea e Storia statunitense sia improprio. E avrebbero ragione: non sarebbe, forse, come paragonare mele e pere? Il paragone, in effetti, tra area dell’euro e area del dollaro odierne, del XXI secolo, lo sarebbe: non foss’altro che perché una ha circa duecento anni in più dell’altra.
Non così tanto assurdo sarebbe, piuttosto, esaminare due progetti federali allo stesso stadio di maturazione – per esempio alla nascita – studiando come si evolvono delle “unioni monetarie di diversi” da tale momento iniziale. Per fare ciò, il raffronto corretto sarebbe tra Stati Uniti del dollaro, dal XVIII secolo, e area dell’euro, questa sì, odierna. Ovvero quando ambedue le Unioni erano ai loro albori.
Ebbene, se esaminiamo gli Stati Uniti nel 1790, possiamo vedere che si presentavano assai simili all’area dell’euro odierna: fortemente divisi culturalmente, sia come strutture produttive – l’agricolo sud, l’industriale nord – sia come lingua adottata, dato che il loro crogiuolo andava dall’Inglese al Francese, dallo Spagnolo al Tedesco, all’Olandese. E, soprattutto, erano, contrariamente a quanto argomentato dal FMI, assolutamente decentrati quanto a strutture fiscali: ogni Stato decideva per sé quanto tassare, quanto spendere, quando tassare e quando prendere a debito.
Come avrebbe potuto essere altrimenti? Potete immaginare che il conservatore, agricolo e schiavista Stato dell’Alabama del XVIII e XIX secolo prendesse ordini dal progressista, industriale e abolizionista Stato del Massachusetts? La politica fiscale, che piaccia o no, è cultura: in quali campi decidiamo di spendere collettivamente, quali classi sociali decidiamo di tassare, quando appropriarci delle risorse dei cittadini per finanziare ulteriori spese. Tutto è inevitabilmente legato alle dinamiche e ai ceti dominanti locali, alle convinzioni profonde e alla storia di ogni territorio.
Basterà per dimostrarlo un grafico (Figura 22.1): quello, sin troppo recente, della dinamica del debito pubblico statunitense dall’inizio del XX secolo. Grafici con evidenze analoghe si possono riportare per spesa pubblica e tassazione.
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Figura 22.1Dinamica del debito pubblico degli USA dall’inizio del XXsecolo2.
In grigio chiaro si vede la dimensione di debito pubblico sul PIL emessa dal centro, da Washington, in nero dagli Stati degli Stati Uniti, in grigio scuro dalle località. Si nota subito, guardando verso sinistra, come la dominanza del grigio chiaro, ovvero della componente federale e centralistica del debito, non è che evento recente e, più in particolare, sviluppatosi dagli anni ’30 in poi, a seguito della crisi economica e del governo del Paese da parte del Presidente Roosevelt. Per poi innalzarsi – non sorprendentemente – con la seconda guerra mondiale. È da allora che il grigio chiaro, simbolo di politica fiscale centralizzata a Washington, domina.
È un grafico fondamentale perché ci racconta che, in una Unione di Stati diversi come quelli americani, ci volle più di un secolo, centocinquant’anni in realtà, affinché si affermasse uno Stato federale centrale di dimensioni rilevanti. Cosa fu necessario che avvenisse nel frattempo? Una serie di eventi straordinari di cui se ne citano alcuni, forse i più significativi: l’invenzione della ferrovia, che legò e avvicinò le popolazioni di “diversi” nei singoli Stati americani, la guerra civile vinta dal Nord, la prima guerra mondiale e la presa di coscienza, agli inizi del Novecento, che gli Stati Uniti dovevano divenire i gendarmi del mondo di fronte all’arretramento dell’impero britannico e, dunque, con essa, l’esigenza di un’Unione più forte e più coordinata.
Ma, notate bene, ci volle un ultimo elemento per avviare la nascita della centralizzazione dei poteri fiscali a Washington DC: una crisi economica devastante e la sua saggia e lungimirante gestione da parte di un leader. Merita sia raccontata, questa storia, perché ci ricorda come la crisi recente che l’Europa ha dovuto affrontare – e che abbiamo narrato nella prima parte di questo racconto – sia stata un’enorme occasione persa rispetto alla possibilità di avviare credibilmente la nascita degli Stati Uniti di Europa.
Roosevelt e il suo Partito Democratico vinsero, per la prima volta, le elezioni alla fine del 1932, con quasi il 60% dei voti. Le vinsero perché il precedente Governo, repubblicano, del Presidente Hoover, che aveva gestito la politica economica durante l’avvio della Grande Depressione, aveva accentuato la crisi con la stupida austerità. E con la vittoria democratica, come abbiamo visto, vennero anni di spesa pubblica in investimenti a sostegno dell’economia. Questo aiuto mirato e solidale, questo nuovo contratto sociale tra i cittadini, basato su una politica fiscale attenta alla sofferenza delle persone meno abbienti e più in difficoltà, permise, di fatto, al Partito democratico di rimanere al potere per altri trent’anni – così dicono tre ricercatori americani in un lavoro empirico3 –, con un maggiore sostegno elettorale del 10% nel lungo periodo per il partito, anche una volta scomparso FDR. Come ci riuscì, FDR?
Quando Roosevelt, nel 1933, dovette decidere cosa fare per uscire dalla crisi ereditata da Hoover, il peso dello stato federale nell’economia USA era ancora limitato, seppure in crescita dai primi anni del Novecento (Figura 22.2): la spesa federale (nero) ammontava al 5% del PIL, ma forte era ancora il potere e l’autonomia degli stati e degli enti locali4. Pochi anni dopo, otto per la precisione – nel 1940 –, gli Stati Uniti erano una unione monetaria completamente diversa e molto più simile a quella odierna: il totale della spesa federale sulla spesa totale era salito dal 5 al 10% del PIL, metà della spesa totale. Per arrivare, nel dopoguerra, stabilmente al 20% del PIL. Erano, con FDR, nati finalmente gli Stati “veramente” Uniti d’America, in cui le decisioni per una larga parte delle – crescenti – risorse pubbliche, dedicate alla gestione dell’economia, erano in mano centrale!
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Figura 22.2Spesa pubblica ed entrate totali in% del PIL negli USA, dal 1792 al 20185.
Com’era stato possibile riuscire a sottrarre tanto potere ai singoli Stati e centralizzare così rapidamente la funzione di governo? Semplice. Nel modo opposto a quello seguito di recente dall’Unione monetaria europea, che si trova, oggi, in condizioni di pari difficoltà economica a quella di allora degli Stati Uniti: ottenendo la fiducia dei singoli Stati membri – specie quelli più in difficoltà – e ideando maggiori e massicci trasferimenti e aiuti dal centro a favore di questi, fin dal 1933. Gli Stati mantenevano il potere di scelta su come utilizzare i fondi e su quali progetti, ma il borsellino era sempre più in mano a FDR a Washington. Pochi anni dopo, grazie a questa generosità verso chi soffriva, che venne apprezzata, nessuno Stato si oppose, di fatto, a cedere ancora maggiori poteri di spesa al centro, al rieletto presidente Roosevelt. Pochi anni dopo, era cambiato anche il tipo di spesa pubblica statunitense: se, dal 1932 al 1936, dominarono, infatti, i trasferimenti dal centro agli Stati, dal 1936 al 1940, la spesa fu fatta direttamente dal centro, tra cui la grande rete di infrastrutture autostradali.
Era nata, grazie alla fiducia concessa, che FDR si era meritato dall’elettore medio americano, l’unione monetaria federale, basata su spesa pubblica dal centro e impliciti trasferimenti dagli Stati più ricchi agli Stati più poveri, tramite un bilancio unico, in cui la tassazione federale giocava – e gioca tuttora – da meccanismo redistributivo.
Mai e poi mai gli Stati Uniti, contrariamente a quanto affermato dal FMI, centralizzarono la loro politica fiscale agli inizi della loro unione monetaria nell’Ottocento.
Basterebbe rileggersi uno dei capitoli centrali di quell’opera, unica nel suo genere e fotografia perfetta e indelebile degli Stati Uniti ai loro albori, “La democrazia in America”, di Alexis de Tocqueville, scritto tra il 1835 ed il 1840. Una “analisi della democrazia rappresentativa repubblicana e dei motivi per i quali essa aveva potuto attecchire tanto bene negli Stati Uniti mentre era fallita in numerosi altri paesi”6. L’autore francese afferma: “esaminare l’Unione prima di studiare gli stati equivale a prendere una via cosparsa di ostacoli. La forma del governo federale è stata l’ultima a nascere negli Stati Uniti; essa non è stata che una modificazione della repubblica, un riassunto dei principi politici diffusi in precedenza nell’intera società e sussistenti indipendentemente da essa. Il governo federale non è che una eccezione; il governo degli Stati è la regola comune”7.
Come assomiglia questa America all’Europa che cerca di formarsi! E com’è giusto analizzarla “dal basso” piuttosto che “dall’alto”! E quanto potere l’America dell’800 ha lasciato in mano ai singoli Stati!
Basta leggere ancora de Tocqueville: “In America, il corpo legislativo di ogni Stato non ha davanti a sé nessun potere capace di resistenza. Niente potrebbe fermarlo nella sua via, né privilegi, né immunità locali, né influenze personali, neanche l’autorità della ragione, poiché esso rappresenta la maggioranza che si considera l’unico organo della ragione. Esso dunque non ha, nella sua azione, altri limiti che la sua propria volontà. Accanto a sé e nelle sue mani ha il rappresentante del potere esecutivo, che, con l’aiuto della forza materiale, deve costringere all’obbedienza i malcontenti”8.
Questa centralizzazione, a livello meramente statale, era considerata da de Tocqueville addirittura eccessiva, visto che le preferiva, addirittura, il potere amministrativo in mano alle località e non ai singoli stati, che in questo passaggio definisce “poteri centrali”: “un potere centrale, per quanto lo si possa immaginare civile e sapiente, non può abbracciare da solo tutti i particolari della vita di un gran popolo; non lo può perché un simile lavoro eccede le forze umane. Quando vuol creare e far funzionare, con le sue sole cure, tanti elementi disparati o si contenta di un risultato molto incompleto, o si esaurisce in inutili sforzi. L’accentramento giunge facilmente, è vero, a sottomettere le azioni esteriori dell’uomo a una certa uniformità che si finisce per amare di per sé stessa indipendentemente dalle cose a cui essa si applica; come quei devoti che adorano la statua dimenticando la divinità da questa rappresentata”9.
Pensate quanto era lontana l’idea di una Unione federata sulla base di un “tutto il potere a Washington”! Sono parole la cui lettura sarebbe opportuno raccomandare anche a tutti coloro che credono che una cessione di sovranità fiscale al momento attuale, in Europa, da parte dei singoli Stati membri dell’Unione verso Bruxelles, non andrebbe incontro a problemi di portata eccezionale.
Addirittura de Tocqueville vide un pericolo nell’amministrazione dal centro del bilancio, anche per i singoli Stati, raffrontando l’esperienza americana dell’epoca con quella centralistica francese: “uno scrittore di talento […] rimprovera con ragione agli americani la confusione regnante nei loro bilanci comunali e dopo aver dato un modello del bilancio dipartimentale della Francia, aggiunge: «Grazie all’accentramento, creazione ammirevole di un grand’uomo, i bilanci municipali, da una parte all’altra del regno, quelli delle grandi città come quelli dei più umili comuni, presentano lo stesso spettacolo di ordine e di metodo». Ecco certo un risultato che io ammiro; ma io vedo anche la maggior parte di questi comuni francesi, in cui la contabilità è così perfetta, immersi in una profonda ignoranza dei loro veri interessi, abbandonarsi a una apatia così invincibile che la società sembra piuttosto vegetarvi che vivervi; d’altra parte io vedo negli stessi comuni americani, i cui bilanci non sono compilati con un piano metodico, né uniforme, una popolazione civile, attiva, intraprendente; vi contemplo la società al lavoro, sempre. Questo spettacolo mi stupisce; poiché ai miei occhi lo scopo principale di un buon governo è di produrre il benessere dei popoli e non di stabilire un certo ordine nella loro miseria. Io mi domando dunque se non sia possibile attribuire alla stessa causa la prosperità del comune americano e il disordine apparente delle sue finanze, l’angustia del comune francese e l’esattezza del suo bilancio. In ogni caso, diffido di un bene che vedo mescolato a tanti mali, e mi consolo facilmente di un male che è compensato da tanti beni”10. Parole che risuonano nelle stanze apatiche della Commissione europea, organo decisionale dell’angusta Unione Europea odierna, che vigila sull’esattezza pedante delle contorte sue regole di contabilità pubblica.
Nassim Taleb, nel suo libro, a distanza di secoli, ripercorrendo l’esperienza federalista – estrema – ancora attuale della Svizzera, ha modo di osservare come “non è esattamente corretto che gli svizzeri non abbiano un governo. Quello che non hanno è un ampio governo centrale […] Questa forma d...

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