Curatori d'assalto
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Curatori d'assalto

L'irrefrenabile impulso alla curatela nel mondo dell'arte e in tutto il resto

David Balzer

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Curatori d'assalto

L'irrefrenabile impulso alla curatela nel mondo dell'arte e in tutto il resto

David Balzer

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Dai look alle playlist, dai menu gourmet ai festival canori fino addirittura ai matrimoni vip, oggi tutto è "a cura di", e i termini "curare", "curatore" e affini spuntano sulla bocca e nel curriculum di chiunque voglia far leva su una qualche specificità e distinguersi dalla massa. Se ormai anche le aziende più disparate hanno adottato questa strategia della valorizzazione estrema dei contenuti, è nel campo dell'arte che i curatori la fanno da padroni. Artefici di collettive e biennali di alto profilo cui prestano nome e volto, i vari Obrist, Christov-Bakargiev e Gioni offuscano il lavoro dei singoli artisti diventando essi stessi protagonisti degli eventi che sono chiamati a guidare, divisi tra l'esigenza di intercettare i gusti del pubblico e la missione di plasmare una nuova avanguardia. Un fenomeno iniziato negli anni novanta e propagatosi a macchia d'olio, tanto che perfino i musei, un tempo santuari sganciati dalle frenetiche emergenze del marketing, sono saliti sul carro dei curatori, pronti a propinare una fruizione premasticata dei loro tesori. Che cosa ha scatenato l'inarrestabile ascesa di questi "garanti del valore" abilissimi a promuovere anzitutto se stessi, così da apparire imprescindibili arbitri del gusto? In che modo questa figura è filtrata nella cultura di massa determinando un'iperprofessionalizzazione dei ruoli nel mondo dell'arte e un proliferare di nuovi ambiti di specializzazione? David Balzer indaga la pratica curatoriale non in quanto espressione di gusto, sensibilità e competenza avallando così il feticismo del curatore, ma ne denuncia gli eccessi diagnosticando quello che efficacemente definisce "curazionismo": una patologia sintomatica della nostra cultura, una storia della nostra epoca.

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Information

Publisher
Johan & Levi
Year
2018
ISBN
9788860101983

Parte prima. Valore

È impossibile sapere chi sia stato a organizzare la prima mostra d’arte della storia e ancor più difficile è capire quale sia il fine ultimo del mestiere di curatore come lo conosciamo oggi: un lavoro di scelta e allestimento di oggetti, in genere di natura culturale. Per scegliere e allestire, come per il sesso e le passioni, si compiono azioni normali che si manifestano però in una gran varietà di modi. Rientra da sempre nella nostra natura di esseri umani. Se ne è discusso molto alla metà del secolo scorso. Il grande storico dell’arte britannico Kenneth Clark (1903-1983) disse che collezionare è «una funzione biologica che non è affatto sganciata dai bisogni fisici».
Sociologi, antropologi ed etnologi contemporanei di Clark, alla ricerca di modelli strutturali ricorrenti in culture diverse, avevano idee simili. Nel Pensiero selvaggio (1962) l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss propose una complessa visione della creazione culturale mutuando dalle belle arti il concetto di bricolage e associandolo all’attività che oggi riconduciamo al curatore. Nel Poeta nel laboratorio. Vita di Claude Lévi-Strauss, Patrick Wilcken fa luce su questa “teoria del bricolage”:
Andando alla perlustrazione del loro habitat naturale, [i gruppi umani privi di scrittura] osservano, sperimentano, categorizzano e costruiscono teorie, impiegando una specie di scienza non formalizzata. Combinano e ricombinano i materiali naturali, creando così dei prodotti culturali: miti, rituali, sistemi sociali, analogamente agli artisti che inventano liberamente utilizzando i materiali più strani e disparati presenti nei loro atelier.
Il bricoleur di Lévi-Strauss è, secondo Wilcken, uno
straccivendolo che improvvisa con ciò che gli è a portata di mano, escogitando delle soluzioni per problemi che possono essere pratici ed estetici. Il pensiero selvaggio – il pensiero libero di vagare – è una specie di bricolage cognitivo che punta tanto al godimento intellettuale quanto a quello estetico (p. 267).
Il bricoleur è una persona che cerca di concretizzare un progetto, risolvere un problema o compiere un atto creativo.
Anche l’autore e critico d’arte David Levi Strauss (nessuna parentela con Claude), docente del prestigioso corso per curatori al Bard College di Hudson (NY), paragona il curatore a un bricoleur nel suo saggio The Bias of the World. Il suo esame della professione comincia tuttavia ripercorrendo l’etimologia della parola, un esercizio utile a fare luce sul ruolo contraddittorio e paradossale del curatore oggi. Il termine risale alla Roma imperiale, dove i curatores erano funzionari con incarichi specifici nell’ambito dei lavori pubblici. I curatores viarum per esempio dovevano supervisionare la rete stradale. Il termine è legato al latino cura, di significato non dissimile dall’equivalente moderno; il curator è quindi in sostanza chi “si prende cura”. Il titolo non era usato solo per i funzionari pubblici, ma anche per certi tipi di tutori che, secondo il diritto romano, avevano il compito di tutelare un minorenne o chi entrava in trattativa con un minorenne, per prevenire successive controversie. I curatores potevano inoltre essere nominati tutori e consulenti di chi veniva giudicato prodigus, cioè incline a dilapidare il suo patrimonio, oppure nei casi di infermità mentale. Non va inoltre dimenticato il procurator, molto spesso appartenente all’ordine equestre, incaricato della supervisione delle province ai confini dell’impero. Nella Bibbia, si parla di Ponzio Pilato come di un procuratore, mentre in altre fonti gli si attribuisce il titolo di prefetto.
Nel Medioevo, la Chiesa si appropriò del vocabolo. Secondo Erin Kissane, l’Oxford English Dictionary data l’ingresso del termine nella lingua inglese a partire dal poema trecentesco Pietro l’aratore di William Langland, dove i curatoures sono i parroci: «Curati son detti per sapere e curare [i loro] parrocchiani» (passus xx, vvs. 283-284, p. 645). David Levi Strauss ne deduce quindi che inizialmente i curatori ricoprivano questo doppio incarico tipico della tradizione romana e medievale, «una curiosa via di mezzo tra il burocrate e il prete» a cavallo tra “legge” e “fede”; analoga è la posizione del curatore contemporaneo che, all’interno delle grandi istituzioni, si presume voglia favorire la “fede” del pubblico nell’arte e negli artisti e inserirsi con successo nei meccanismi politici del museo o della galleria, intrattenendo rapporti con direttori, finanziatori e membri dei consigli di amministrazione al fine di mediare, all’occorrenza, il prestito e l’acquisto di opere.
Rispetto all’interpretazione di Levi Strauss sono da evidenziare alcuni risvolti negativi. A Roma il curator e soprattutto il procurator erano agenti, si potrebbe dire strumenti, dello stato; nonostante il ceto elevato, il funzionario restava alla mercé dei suoi superiori. Ponzio Pilato è l’esempio tipico del procuratore romano, spedito in una remota provincia (la Giudea nel suo caso) per far valere la legge dei suoi superiori. Secondo i Vangeli, Pilato non avrebbe voluto condannare a morte Gesù. A seconda delle versioni, la decisione di farlo crocifiggere si deve ai membri del sinedrio, che lo accusavano di violare le leggi ebraiche, oppure alla presunta trasgressione delle leggi fiscali dell’impero romano, come il sinedrio stesso sostenne per rafforzare la propria posizione. In quest’ultimo caso, il procuratore romano Ponzio Pilato sarebbe stato poco più che un esattore diventato famoso per caso. Si potrebbe quindi sostenere che il procuratore avesse un ruolo secondario, di semplice sorvegliante. In De vita Caesarum, lo storico romano Svetonio nomina qualche volta i procuratori, lasciando intendere che l’incarico era una tappa del cursus honorum. Dell’avidità dell’imperatore Vespasiano, Svetonio scrive:
[Aveva] l’abitudine di promuovere agli incarichi più elevati i più rapaci procuratori delle imposte, per poi condannarli una volta arricchiti; e quindi nel popolo si diceva che li usasse come spugne, facendoli inzuppare quando erano asciutti, per poi spremerli una volta inzuppati (Vite dei Cesari, libro VIII, § XVI).
Quella del curato medievale è una carica che è sopravvissuta nei ranghi del clero in varie forme fino a oggi. Essere curato non è una concessione né un motivo di prestigio come lo era detenere i titoli di curator e procurator nell’antica Roma; il curato ha doveri importanti, è colui che siamo abituati a conoscere come il titolare della parrocchia. È responsabile della “cura delle anime”, un concetto che affonda le radici nel Liber regulae pastoralis (VI secolo), testo in cui papa Gregorio I delineava il ruolo del clero e definiva la “cura delle anime” il principale onere che un prete si deve assumere verso il distretto assegnatogli. I curatori contemporanei, i cui compiti e responsabilità sono spesso fumosi o frammentari, saranno contenti di scoprire che anche dal curato o parroco ci si aspettava l’adempimento di una miriade di incombenze, tra cui pronunciare sermoni, occuparsi dei malati e via dicendo. Si può tornare a questo punto all’etimologia del termine e al significato del latino cura. Il vocabolo aveva tre significati fondamentali: attenzione, premura, impegno; la “cura delle anime” quindi è un concetto complesso perché il curato di fatto non cura le anime in senso stretto, ma se ne prende cura. Secondo l’Oxford, solo nell’inglese medio to cure sviluppa il significato medico legato alla guarigione. “Prendersi cura” non significa necessariamente “curare”, custodire è diverso dalla più incisiva capacità di trasformare guarendo.
Lo stereotipo del curato o del parroco è da sempre quello di una persona umile, infaticabile, che vive di poco e a volte diventa persino servile. È eloquente l’espressione inglese curate’s egg, cioè “l’uovo del curato”, che sta a indicare una cosa buona solo a metà; ha origine da una striscia a fumetti di George du Maurier intitolata “Autentica umiltà”, pubblicata sulla rivista satirica Punch nel 1895. Un curato giovane, magrolino e gobbo, siede al ristorante con un vescovo, suo superiore; questi fa notare al curato che gli hanno servito un uovo andato a male, ma il curato risponde: «Oh, no, signore, le assicuro che è squisito in alcune parti!». Il curato di du Maurier, desideroso di compiacere il superiore, farà sorridere i moderni curatori frustrati, che si sentono in obbligo di rispondere a direttori, amministratori e artisti e di rassicurarli sull’altissima qualità di collezioni e mostre rischiose o controverse. Il curatore è una persona che pone l’accento sul valore e che lo crea, esista esso o meno nella realtà.
In sostanza i due primi significati di curator ricostruiti da David Levi Strauss nell’antica Roma e nel contesto del clero medievale presuppongono la dipendenza da altri, il doversi adeguare all’altrui volontà, piuttosto che agire o esercitare un mandato in forma autonoma. Ciò risulta ben chiaro quando cominciamo a pensare al curatore nel contesto del museo o al servizio di una collezione, ruolo che emerge progressivamente verso il XVI secolo. Il curatore si prende cura degli oggetti e gli oggetti, non il curatore, sono al centro dell’attenzione. Anzi, la storia del curatore si può descrivere come un continuo mettersi al servizio: di istituzioni, opere, artisti, pubblico e mercati. Il fenomeno del curatore indipendente, che in tutta probabilità ha inaugurato la sua breve stagione di gloria negli anni sessanta di pari passo con il movimento dell’arte concettuale, è quindi effimero, incongruo, paradossale. Persino Obrist – la cui fama, operosità e l’immagine pubblica quasi caricaturale ne fanno una versione forzatamente professionalizzata dei pionieri degli anni sessanta – svolge il suo lavoro dipendendo da altri. A forza di arrogarsi prerogative e potere decisionale, il curatore forse si dà un po’ troppa importanza. Nessun curatore è un’isola.
Detto questo, la figura come la conosciamo oggi trova una sua dimensione di autonomia sotto il fondamentale profilo della competenza da conoscitore: una dimostrazione di gusto o esperienza che conferisce un taglio personalissimo all’atto di sovrintendere e allestire. Il titolo di “curatore”, che all’inizio voleva dire un po’ di tutto, dopo il Rinascimento guadagnò, secondo lo studioso Anthony Gardner, una «dimensione scolastica e artistica». Robert Hooke, rivale di Sir Isaac Newton nell’Inghilterra della Restaurazione e “curator of experiments” per la Royal Society di Londra, è un esempio affascinante. Hooke, che fu tra i primi a perfezionare il microscopio e a servirsene, in veste di curatore della Royal Society ebbe l’incarico di organizzare ogni settimana degli esperimenti usando le attrezzature conservate nel Gabinetto della società: uno scrigno di esemplari unici che, secondo Sean Riley Silver, «rispondeva a un grandioso obiettivo dell’istituzione, la realizzazione della società ideale di scienziati immaginata da Francesco Bacone». In teoria il Gabinetto avrebbe dovuto contenere un esemplare di ogni cosa, la stessa aspirazione platonica alla collezione più completa possibile che affliggeva i primi musei, notoriamente sovraccarichi, spesso pieni di copie o falsi di oggetti irreperibili. Gli “esperimenti” di Hooke, che fecero di lui il primo intermediario tra i frequentatori della Royal Society e quel magazzino inaccessibile e stipato di oggetti, erano condotti in maniera teatrale e mettevano in mostra le tante meraviglie che vi erano custodite, illustrandole con chiarezza. Nelle sue prerogative di curatore, Hooke era dipendente ma manteneva un margine di autonomia. Era una posizione che gli permetteva di esibire il suo brillante intelletto, ma nei limiti del materiale a sua disposizione. I suoi esperimenti rendevano un servizio alla Royal Society, valorizzandone il ruolo e i beni in suo possesso. Silver racconta che, secondo alcune fonti, il tempo che Hooke trascorse nel Gabinetto finì per compromettere la sua salute, facendo di lui il precursore dello studioso illuminista, la cui intera esistenza era dedicata agli oggetti e al loro contributo al sapere.
Per gli studenti di storia dell’arte, il Gabinetto della Royal Society si associa senz’altro a qualcosa di familiare: vi riconosceranno infatti un esempio di quella che era chiamata, con un termine tedesco, Wunderkammer o Kunstkammer. La “camera delle meraviglie” è l’antenata celebre del museo, e coloro che la allestivano e la gestivano possono considerarsi precursori dei contemporanei curatori: un eclettico incrocio tra appassionati dilettanti e scienziati professionisti, interessati tanto al sapere quanto alla custodia degli oggetti. (Curioso e curatore derivano entrambi dal latino cura che, come si è visto, descrive sia l’idea di custodire sia quella di interessarsi a qualcosa.) In queste sale, in genere di proprietà della casa reale, di aristocratici o di ricchi commercianti, come nel caso del gabinetto della Royal Society, erano conservati esemplari di varia natura, ritenuti interessanti ai fini di discipline che spaziavano dalla religione alla geologia. Per molti aspetti, i gabinetti erano una logica conseguenza di quel fervore suscitato all’epoca dalle tante scoperte nei territori coloniali e coniugato a un’indagine di stampo umanistico e scientifico, con la conseguente aspirazione a catalogare i risultati di quel grande sforzo conoscitivo. Alcuni curatori di Wunderkammern ne erano anche i proprietari, mentre altri erano incaricati dai signori. Il gabinetto del medico irlandese Hans Sloane, segretario della Royal Society, conteneva una gran varietà di oggetti antichi ed esemplari di interesse naturalistico; fu lasciato in eredità allo stato e divenne il primo nucleo delle collezioni del British Museum. Alcuni curatori di quest’epoca, esuberanti, iperattivi ed eccentrici, sono perfetti antesignani dei colleghi contemporanei. Athanasius Kircher per esempio, gesuita tedesco ed eclettico erudito vissuto nel XVII secolo, studiò la lanterna magica, uno strumento che ha anticipato il cinema, e fu consulente di Gian Lorenzo Bernini per la Fontana dei Quattro Fiumi a Roma, costituendo forse il primo caso nella storia di collaborazione tra artista e curatore.
Il periodo delle Wunderkammern appare come una stagione di libertà per il curatore, che era tuttavia al servizio delle “meraviglie” e dei loro proprietari, come dimostrato dalla natura esclusiva dei gabinetti, per lo più chiusi al pubblico. In ogni caso, il curatore rivestiva una posizione di riguardo all’interno del suo gabinetto, un luogo a volte minuscolo, un piccolo paradiso terrestre dove i proprietari erano padroni assoluti e che il curatore abitava come una sorta di Adamo. Altrettanto suggestivo nel raffronto con il curatore contemporaneo è anche l’approccio multidisciplinare tipico del Rinascimento e del primo Illuminismo, mentre la stanza delle meraviglie trova una significativa eco nel mondo dell’arte contemporanea, con il suo carosello di tecniche, materiali e oggetti stravaganti. (Per non parlare di Internet, eccezionale Wunderkammer digitale.) Nel 2008 al MOMA di New York ci fu una mostra collettiva intitolata appunto “Wunderkammer” con opere di artisti come Louise Bourgeois e Odilon Redon; Cabinet, una rivista d’arte che circola dall’anno 2000, sembra ispirarsi proprio alle Wunderkammern, dichiarando esplicitamente di voler «incoraggiare una nuova cultura della curiosità».
La Wunderkammer si ricollega anche al readymade, tuttora molto presente nella pratica artistica, inventato nel secolo scorso da Marcel Duchamp che esibiva come opere d’arte comuni oggetti di fabbricazione industriale: un badile o, come è noto, un orinatoio girato al contrario. (Duchamp inoltre mise se stesso in una Wunderkammer realizzando una serie di boîtes-en-valise, musei portatili contenenti le sue opere racchiuse in una valigia.) Tuttavia l’atto creativo e formale di disporre oggetti sapendo che saranno guardati non basta ancora a definire il museo che emergerà nei secoli XVIII e XIX e che, come la Wunderkammer, era semplicemente stipato e per niente accessibile al visitatore. Al contrario, toccherà a Duchamp e colleghi, all’esercito di artisti d’avanguardia dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento, il compito di modernizzare i concetti sia di mostra sia di curatela.
Secondo la maggior parte delle fonti, nell’Ottocento e nel Novecento il curatore del museo non godeva di una vera e propria libertà d’azione. Il compianto Edward F. Fry, curatore associato del Solomon R. Guggenheim Museum di New York a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, descrisse il ruolo emergente del curatore come quello di un funzionario al completo servizio dello stato, come lo erano le molte collezioni museali (si pensi in particolare a quella del Louvre a Parigi) sviluppate a seguito di rivolgimenti politici e campagne imperialistiche. Come la Wunderkammer, il Louvre, inaugurato nel 1793, aveva un significato spiccatamente simbolico, era un vero e proprio ingranaggio della macchina politica. Sin dai suoi esordi all’indomani della Rivoluzione francese, l’istituzione fece propri gli obiettivi didattici della nascente Repubblica e poi con Napoleone si trasformò in un “museo universale”, strumento di propaganda per esibire il bottino di guerra. L’imperatore nominò personalmente il curatore: affidò infatti l’incarico all’ex pornografo Dominique Vivant Denon; questi divenne responsabile, nelle parole dello studioso e gallerista Karsten Schubert, «della più grande collezione museale che sia mai esistita» (sebbene frutto di sottrazione indebita). Denon era un personaggio di indubbio carisma, tuttavia la sua mansione era, in buona sostanza, catalogare questo bottino e prendersene cura.
Poco dopo la vittoria di Waterloo, gli inglesi adottarono una strategia simile con il British Museum. Le sale espositive vennero organizzate in ordine cronologico, ma gli oggetti rimasero accatastati senza neanche un’etichetta. Per dirla con Schubert «il curatore si limitava a vedere nel visitatore un altro se stesso». Non si trattava di un’immagine dinamica, ma pedante, reazionaria e burocratica; il “curatore” assomigliava al bibliotecario o all’accademico. «I musei presentavano i politici loro padroni quali custodi della cultura universale» scrive Schubert. «Di fatto il museo si pose al servizio dell’imperialismo.»
Parallelamente, alla metà del XIX secolo, giunse all’apice del successo la formula espositiva del Salon. Con le sue numerose varianti, tra cui le esposizioni universali e la mostra annuale della Royal Academy di Londra, è uno dei primi esempi di mostra organizzata selezionando i partecipanti, abitudine oggi consolidata nel mondo dell’arte. Molto frequentato, presieduto da una giuria e assolutamente accademico nell’impostazione (in aperto contrasto con il mercato dell’arte che era in piena fioritura all’epoca), il Salon di Parigi in origine accoglieva (con cadenza annuale o biennale) solo membri dell’Académie Royale de Peinture et Sculpture, che aveva l’avallo statale; dopo la Rivoluzione però vennero aperte le porte anche ad artisti che non ne facevano parte. A metà dell’Ottocento, il Salon parigino si trasferì dal Louvre al Palais de l’Industrie sugli Champs Élysées, una sede simile a una fiera commerciale, antesignana degli spazi delle odierne fiere di settore. A quell’epoca ormai il Salon non disdegnava più il lato commerciale dell’arte; sul catalogo per esempio era pubblicato un indirizzo per poter contattare l’artista affinché gli acquirenti potessero farsi avanti.
La ribellione degli artisti contro il Salon è leggendaria e debitamente romanzata dagli storici dell’arte. In genere si narra che la giuria esercitasse una pressione soffocante contro cui lottavano gli artisti più innovativi dell’epoca, ma si tratta di una lettura fuorviante. I giudici del Salon non erano sempre coerenti, ammettevano un artista un anno per bocciarlo l’anno successivo; raramente furono rifiutati artisti che divennero poi celebri, mentre gli artisti ribelli tenevano all’autonomia commerciale tanto quanto a quella estetica. Nel 1855 per esempio, Gustave Courbet allestì di tasca propria un Pavillon du Réalisme accanto al Salon perché, anche se ben dieci delle sue tele erano state ammesse, l’Atelier dell’artista era stato giudicato troppo grande. (In un supplemento del 2014 della rivista Mousse dedicato agli artisti-curatori, Elena Filipovic, curatrice e autrice, definì l’iniziativa di Courbet «un intraprendente one-man show».) Il 1863 fu l’anno di svolta, con la prima edizione del Salon des refusés che esponeva le opere non ammesse alla manifestazione principale. L’evento si collocava all’estremo opposto di quello pilotato dalla giuria al Palais de l’Industrie, ed ebbero ...

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