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Miguel de Unamuno

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Identità confuse e verità "nebbiose" (edizione 2022)
Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1914, vede la luce tra le trincee della grande guerra e provoca subito un gran rumore. De Unamuno definisce il suo romanzo una "nivola", per definire l'intreccio romanzo-protagonista-autore che rende speciale questo libro.
Unamuno si concentrò particolarmente sull'evoluzione e sullo sviluppo psicologico dei vari personaggi, contrapponendosi al narratore onnisciente in terza persona presente nel realismo. L'idea quindi è preponderante rispetto alla forma, e la distinzione tra autore e personaggi è spesso labile, tanto da scomparire.
La trama è di per sé piuttosto semplice almeno fino al capitolo 31: da lì in poi inizia un altro libro. Un dialogo serrato tra l'autore e il personaggio principale che – tra accuse reciproche di "inesistenza" – si conclude con la mesta uscita di scena del protagonista, rassegnato alla morte per mano dell'autore.
Qualche dettaglio in più va dato, per incuriosire chi ancora non conoscesse quest'opera.
La vita di Augusto è avvolta in una sorta di nebbia non fisica ma spirituale, che non gli consente di vivere appieno, di accorgersi di quanto accade attorno a lui ma nemmeno di quanto accade dentro di lui. Incontrerà delle donne sulla sua strada, se ne innamorerà (o crederà di innamorarsi), sarà sul punto di sposarsi quando una tremenda delusione lo porta a decisioni estreme.
Il libro diventa speciale quando Augusto decide di incontrare l'autore del libro. Quindi esce dal libro (e dalla nebbia) e si confronta con Unamuno. È un confronto serrato in cui l'identità di Augusto si frammenta e diviene indecisa e indefinita.
È un testo calato nel suo tempo (possiamo vedere il libro anche come un atto di accusa "contro" la guerra appena iniziata), eppure "eterno" sono gli anni del definitivo crollo delle geometrie euclidee (oltre che di una serie di scoperte "sconvolgenti" e "anti-intuitive") e da lì in poi inizia il crollo per le idee di certezza assoluta, individuo e verità. Forse, l'uscita dalla nebbia del personaggio è solo l'ingresso in una nebbia ancora più fitta dalla quale – purtroppo – crediamo di essere usciti.
Riscoprire e ri-leggere questo testo ci aiuta a riconnetterci con un "circolo ermeneutico" che davamo disperso, e ci fa godere del piacere di un'ottima prova di grande letteratura. L'autore: Scrittore e pensatore spagnolo (Bilbao 1864 - Salamanca 1936), è il maggior rappresentante degli intellettuali innovatori della "generazione del '98". Già nei primi saggi En torno al casticismo (1895) attaccò il fanatismo conservatore; la critica dell'isolamento orgoglioso e dell'ostinata fedeltà alla tradizione proseguì nei successivi Ensayos, riuniti da ultimo in sette volumi (1916-18). Ma, partito dalla polemica antitradizionalista e, come più tardi Ortega y Gasset, dall'esigenza di definire il posto della Spagna nell'Europa industrializzata, U. identificò il ruolo della hispanidad nel mantenimento del "senso tragico della vita", cioè nella viva coscienza delle antinomie fondamentali (ragione e fede, vita e intelletto) che il moderno razionalismo non potrà risolvere. Questo e gli altri temi di U., l'ansia di eternità, il rapporto fra Dio e l'uomo, sono sviluppati in saggi, romanzi e nel teatro.

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Orazione funebre a titolo di epilogo

È consuetudine alla fine dei romanzi e dopo la morte o il matrimonio dell’eroe o protagonista dar notizie della sorte degli altri personaggi. Non seguiremo questa consuetudine e non daremo, perciò, alcuna notizia di quanto accadde a Eugenia e a Maurizio, a Rosaria, a Liduvina e a Domenico, al signor Fermin e alla signora Ermelinda, a Vittorio e a sua moglie, e a tutti gli altri che ci sono apparsi intorno ad Augusto, e neppure diremo ciò che provarono e dissero della sua strana morte. Faremo soltanto un’eccezione a favore di chi piò profondamente e sinceramente sofferse per la morte di Augusto, un’eccezione a favore del suo cane, Orfeo.
Orfeo, infatti, si trovò orfano. Quando, saltando sul letto, annusò il padrone, annusò la morte del suo padrone, il suo spirito canino fu avvolto da una densa nube nera. Aveva fatto esperienza di altre morti, aveva annusato e visto cani e gatti morti, aveva ucciso qualche topo, aveva annusato la morte degli uomini, ma credeva che il suo padrone fosse immortale. Perché il padrone era per lui un Dio. Ora, fiutandolo morto, sentì che franavano nel suo spirito tutte le fondamenta della sua fede nella vita e nel mondo, ed un’immensa desolazione invase il suo petto.
Ed accovacciato ai piedi del padrone morto, pensò:
«Povero padrone mio, povero padrone mio! È morto, è morto! Muore tutto, tutto, tutto; tutto è morto per me! Ed è peggio che tutto muoia per me che io muoia al tutto. Povero padrone mio, povero padrone mio! Questi che giace, qui, bianco, freddo, che sa di prossima putrefazione, di carne da mangiare, questi non è più il mio padrone. No, non io è. Dov’è andato il mio padrone, che mi accarezzava, che mi parlava?
«Che strano animale è l’uomo! Mai fa attenzione a ciò che ha presente. Ci accarezza senza che noi si possa saperne la ragione e non quando noi lo accarezziamo; invece, quando ci avviciniamo a lui, ci respinge o ci castiga. Non c’è modo di sapere quel che vuole, ma forse neppure lui lo sa. Pare che sempre faccia attenzione a ciò che non c’è, né guarda quel che vede. È come se per lui esistesse un altro mondo. Ed è evidente che se esiste un altro mondo, non esiste questo.
«E poi parla o latra in modo complicato. Noi ululavamo e per imitarlo, imparammo a latrare, ma neppure così siamo riusciti ad intenderci. Lo intendiamo soltanto quando anche lui ulula. Quando l’uomo ulula o grida o minaccia lo intendono molto bene gli altri animali. Perché in questo caso non è distratto da un altro mondo!... Però latra a modo suo, parla, e ciò gli ha servito per inventare ciò che non ce e a non fissarsi in ciò che c’è. Non appena ha dato un nome a qualcosa, non vede più questo qualcosa; sente solo il nome che gli ha dato, o lo vede scritto. La lingua gli serve per mentire, per inventare ciò che non c’è, e per confondersi. E per lui tutto è un pretesto per parlare con gli altri o con se. stesso. E persino noi cani abbiamo subito il suo contagio!
«È un animale malato, non c’è dubbio. È sempre malato! Solo pare che goda una certa salute quando dorme ma non sempre, perché qualche volta parla nel sonno! Ed anche di questo abbiamo subito il contagio! Ci ha contagiati in tante cose...!
«E poi c’insulta! Chiama cinismo, ossia cosa da cani, la mancanza di pudore, la sfacciataggine, lui, l’animale ipocrita per eccellenza.
Il linguaggio lo ha reso ipocrita. Come se l’ipocrisia dovesse essere chiamata antropismo e la mancanza di pudore forse cinismo. Ed ha voluto renderci ipocriti, ossia, pagli...

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