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James Joyce

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La prima redazione di A Portrait of the Artist as a Young Man risale probabilmente al 1903. Dopo essere stato respinto da numerosi editori, pare che Joyce abbia gettato il manoscritto nel fuoco e solo il tempestivo intervento della signora Joyce permise di salvare dalla distruzione circa la metà delle pagine. Manca tutta la prima parte e poche pagine finali. La sezione superstite, riportata in questo libro - dunque precursore del Ritratto dell’artista da Giovane - narra due anni della vita di Stephen Dedalus (in seguito uno dei protagonisti dell’ Ulisse ) e, sebbene poi ripudiata dall’autore, illumina chiaramente il suo percorso artistico.

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Information

XIX

Sorrise perché gli sembrò una così inattesa maturità in lui, questa pietà, o piuttosto questo impulso passeggero di pietà. Ma era l’effettiva attuazione del suo saggio che gli aveva permesso tale maturo piacere, la sensazione di pietà per un altro. Stephen aveva una sua maniera aperta e sincera in molte cose: il suo saggio non era per null’affatto l’esibizione di graziose superficialità. Al contrario esso mirava a definire con molta serietà la sua vera e propria posizione morale. Non si poteva persuadere che se egli scriveva intorno al suo soggetto con facilità o lo trattasse dal punto di vista di impressioni, del bene gliene poteva derivare. Per altro verso era persuaso che nessuno può giovare alla generazione in cui è nato così bene come colui che le offre, sia nell’arte che nella vita, un dono di certezza. Il programma dei patrioti lo colmava di assai ragionevoli dubbi; i suoi articoli non lo soddisfacevano. Oltreché sapeva che ubbidirvi avrebbe voluto dire per lui la rinuncia di ogni altra cosa che gli stesse a cuore e che il suo pensiero sarebbe stato corrotto nelle sorgenti più intime. Si rifiutò quindi di assumere qualunque cómpito che avesse da principio a pregiudicare il suo successo con giuramenti alla patria e tal rifiuto si manifestò in una teoria d’arte ch’era a un tempo severa e liberale. La sua Estetica seguiva soprattutto le idee dell’Aquinate ed egli la mise fuori francamente con un’aria ingenua di scoprire delle novità. E questo fece soprattutto in parte per soddisfare il suo proprio gusto per i ruoli enigmatici e in parte per una genuina disposizione verso ogni cosa tranne che non fosse una premessa della scolastica. All’inizio egli dichiarò che l’arte è l’umana disposizione della materia intelligibile e sensibile verso un estetico fine e sostenne poi che tutte queste umane disposizioni devono cadere sotto la divisione di tre distinti generi naturali, lirico, epico e drammatico. L’arte lirica, diceva, è quella per cui l’artista pone avanti la sua immagine in immediato rapporto con sé stesso, l’arte epica quella in cui l’artista rappresenta la sua immagine in immediata relazione con sé e con gli altri, e la drammatica quella in cui l’artista rappresenta la sua immagine in immediata relazione con gli altri. Le varie forme d’arte, come la musica, la scultura e la letteratura non sottostanno a queste partizioni con la medesima chiarezza ed egli ne concludeva che quelle forme d’arte che mostrano più palesemente la divisione non devono essere chiamate le più eccellenti, e non si dava troppo pensiero se non gli era possibile decidere che un ritratto fosse un’opera d’arte epica o no e se era possibile a un architetto di essere un lirico, o epico o drammatico, a sua volontà. Avendo attraversato questo semplice processo di pensiero e definito la forma letteraria come la più eccellente delle arti, egli procedette a esaminare queste arti secondo la sua teoria e come egli diceva a stabilire le relazioni che debbono sussistere tra l’immagine letteraria, l’opera d’arte stessa e l’energia che l’aveva immaginata e prodotta, quel centro di conscia e reagente, particolare vita ch’è l’artista.
Immaginò l’artista stare come mediatore tra il mondo delle sue esperienze e il mondo dei suoi sogni: un mediatore di conseguenza dotato di due facoltà gemelle, una facoltà selettiva e una riproduttiva. Il portare a eguale eccellenza queste due facoltà era il segreto della riuscita dell’opera d’arte. L’artista che volesse districare con molta esattezza la sottile anima dell’immagine dal reticolato di ben definite circostanze che le stanno attorno, e reincarnarle in artistiche circostanze scelte come le più esatte per lei nel suo nuovo ufficio, era il supremo artista. Il perfetto combaciare delle due artistiche facoltà Stephen chiamava poesia. Immaginava il dominio dell’arte aver forma di cono. La parola “letteratura” ora sembrava a lui una parola di sprezzo ed egli la usava per designare la vasta regione mediana che sta fra l’apice e la base del cono, tra la vera poesia e il caos del vano scribacchiare che non lascia traccia. Il suo merito consiste nel suo ritrattare gli esterni; il reame dei suoi principi era il reame delle maniere e delle costumanze della società, spazioso reame. Ma la società stessa egli la concepiva come un corpo complesso in cui certe leggi sono inviluppate e ravvolte, perciò proclamava regno del poeta il regno di queste inalterabili leggi. Una tale teoria avrebbe potuto facilmente condurre il suo ideatore ad accettare in letteratura un’anarchia spirituale s’egli non avesse insistito poi sullo stile classico. Lo stile classico, diceva, è il sillogismo dell’arte, il solo processo legittimo tra un mondo e l’altro. Il classicismo non è l’espressione di una data epoca o di un dato paese, ma lo stato costante della mente artistica. È una qualità, un carattere di sicurezza, di appagamento e di pazienza. Il carattere romantico invece, così spesso e così dannosamente mal interpretato, e non tanto dagli altri come dai romantici stessi, è un carattere malsicuro, insoddisfatto e impaziente, che non trova un porto quaggiù per i suoi ideali e preferisce per ciò contemplarli sotto insensibili figurazioni. Ed è per questo che il carattere romantico arriva a trascurare certi limiti. Le sue figure sono spinte e incalzate a selvagge avventure senza che una solida gravità corporea dia mai loro fermezza, e la mente che le ha concepite finisce col rinnegarle. Per altro verso, il carattere classico, sempre ansioso di limiti, ama piuttosto piegarsi sopra le cose presenti e attuali e lavorarvi attorno a foggiarle in modo che una pronta intelligenza può andare oltre e penetrare nell’intimo del loro significato, ancora inespresso. Con questo metodo lo spirito sano e sereno riesce a produrre e a foggiare cose perfette e imperiture, assistito dalla natura con la sua buona volontà e gratitudine. E fino a quando questo dono di natura ci sia largito è giusto che l’arte non faccia alcuna violenza al dono.
Fra queste due scuole in conflitto la città delle arti è mirabilmente senza pace. A molti spettatori la disputa è sembrata una disputa di nomi, una battaglia in cui la posizione dei modelli non poté mai essere predetta per un solo minuto. Aggiungi a questa lotta incruenta la scuola classica che combatte il materialismo che deve accompagnarla, e la romantica che lotta per serbare la propria coerenza, e osserva con quali sgraziate maniere la critica è costretta a riconoscere l’emergere di ogni risultato. Il critico è colui che è capace, mediante i segni che l’artista reca con sé, di avvicinare il temperamento che ha fatto l’opera d’arte, e vedere che cosa vi sia di buono in quella e che cosa significhi. Per lui un canto di Shakespeare che sembra così libero e vivo, quanto lontano da ogni umano proposito come lo è la pioggia che cade su un giardino o come le luci della sera, si dà a divedere come il discorso ritmico d’un’emozione che non sarebbe in altro modo comunicabile, o almeno non in modo così perfetto. Ma l’avvicinarsi al carattere che ha fatto l’arte è un atto di rispetto dinanzi alla rappresentazione del quale molte convenzioni debbono cadere, poiché certamente quella regione interiore non concederà mai i suoi segreti a chi sia irretito in idee profane.
La prima di queste idee profane era per Stephen l’antico principio che il fine dell’arte è di istruire, elevare e divertire. “Sono incapace” scrisse “di trovare pure una traccia di questa concezione puritana dello scopo estetico nella definizione che l’Aquinate dà della bellezza, o in alcunché ch’egli abbia scritto riguardo al bello. Le qualifiche ch’egli attribuisce alla bellezza sono di fatto così comuni e astratte ch’è al tutto impossibile anche per il più acceso seguace dell’Aquinate usarne la teoria con lo scopo di attaccare ogni opera d’arte che provenga dalla mano di qualsiasi artista”. Questo riconoscimento del bello in virtù delle più astratte relazioni concesse a un oggetto al quale il termine può essere applicato fin dove si può sostenere un comandamento di noli tangere non era per sé stesso altro che la giusta conseguenza dell’aver sottratto all’artista ogni legame. I limiti della decenza si presentano troppo prontamente all’osservatore moderno, con l’effetto d’incoraggiare la mente profana a un’assai futile giurisdizione. Poiché non può essere impresso con troppa violenza nella mente del pubblico che la tradizione dell’arte è con gli artisti e che, se essi non hanno per abitudine di oltrepassare questi limiti di decenza, la mente del pubblico non deve perciò concludere ch’essi non possano arrogarsi la libertà di fare quello che vogliono. È assurdo, scriveva ancora l’ardente rivoluzionario, che il critico componga sermoni per inibire all’artista la via che lo porta alla sua rivelazione del bello, come sarebbe assurdo per un funzionario di polizia proibire che due lati d’un triangolo sommati insieme siano più lunghi del terzo lato.
In conclusione la verità non è che l’artista debba domandare ai suoi padroni di casa un documento di licenza che gli dia la facoltà di diportarsi in questa o in quella maniera, ma è ogni età che deve domandare la sanzione dei suoi poeti e dei suoi filosofi. Il poeta è l’intenso centro vitale del suo tempo col quale egli è in rapporto più di qualunque altro essere vivente. Egli solo è capace di assorbire la vita che lo circonda e di spargerla di nuovo intorno a sé in mezzo a una musica planetaria. Quando il poetico fenomeno è segnalato nei cieli, esclamava il nostro saggista, è tempo per i critici di verificare se i loro calcoli sono in accordo con l’opera di lui: è il momento per essi di riconoscere che qui l’immaginazione ha contemplato intensamente la verità dell’essere del mondo visibile, e che la bellezza, lo splendore della verità han cominciato a nascere. L’età, quantunque si seppellisca sotto chilometri e chilometri di formule e di macchine, ha bisogno di queste realtà che solo possono dare e conservare la vita, e solo da quei centri di vivificazione le verrà la forza della vita e la sicurezza. Così lo spirito dell’uomo si riafferma di continuo.
Tranne che per l’eloquente e impetuosa perorazione il saggio di Stephen fu in tutto una minuta disamina di una teoria estetica da lui profondamente meditata. Quando l’ebbe finito ritenne necessario di mutarne il titolo da “Dramma e Vita” in “Arte e Vita”, perché si era reso conto che per rafforzarne le fondamenta non aveva trovato spazio sufficiente per innalzare l’intero edificio. Questo strano e impopolare Manifesto era stato esaminato dai due fratelli, frase per frase, parola per parola, e, infine giudicato perfetto in ogni suo punto, riposto con ogni cura, finché fosse venuto il momento di presentarlo al pubblico. Oltre Maurizio due altre persone ne avevano avuto la primizia e questi erano la madre di Stephen e l’amico Madden. Madden non gliel’aveva domandata direttamente, ma alla fine d’una conversazione in cui Stephen gli aveva raccontato in modo sarcastico la sua visita al Seminario di Clonliffe gli chiese vagamente che cosa avesse suscitato in lui tali idee irriverenti, e per tutta risposta Stephen gli aveva offerto il manoscritto dicendo: «Questo è il primo dei miei esplosivi». La sera seguente Madden gliel’aveva reso lodandogliene assai lo stile. Riconosceva, disse, che quantunque una parte di esso fosse troppo profonda per lui, esso era scritto assai bene.
«Tu sai, Stevie» disse (Madden aveva un fratello che si chiamava anche lui Stephen e usava talvolta per l’amico questo diminutivo familiare): «me l’hai detto tante volte che sono un ragazzo di campagna, e non arrivo a capirvi, voialtri mistici».
«Mistici?» fece Stephen.
«Mistici dei pianeti e delle stelle, sai. Alcuni compagni della Lega appartengono anch’essi al gruppo dei mistici. Quelli sono certo che ti capirebbero».
«Ma ti assicuro che non c’è nulla di mistico nel mio saggio. L’ho scritto attentamente...»
«Oh, me ne sono accorto: è scritto molto bene, ma sono certo che sarà al disopra della comprensione del tuo pubblico».
«Non vorrai mica dirmi, Madden, ch’è una composizione leziosa, piena di fiori retorici!»
«Lo so che l’hai pensata profondamente. Ma tu sei un poeta, no?»
«Ho... scritto qualche verso... se è questo che vuoi dire».
«Sai che anche Hughes è un poeta?»
«Hughes!»
«Sì. Scrive per il nostro giornale. Vorresti leggere qualcuno dei suoi saggi poetici?»
«Perché? potresti farmene vedere qualcuno?»
«Ne ho per caso uno in tasca. Ce n’è uno anche nello Sword di questa settimana. Eccolo qua: leggi».
Stephen prese il foglio e lesse un poemetto dal titolo “ Mo Náire Tù” (Sei la mia Vergogna). Era composto di quattro stanze e ogni stanza finiva con la frase irlandese “ Mo Náire Tù” di cui l’ultima parola rimava con una parola inglese nella linea corrispondente. La poesia incominciava:
Che! Dovrebbe la sonante lingua gaelica
Inchinarsi dinanzi al sassone dialetto!
e continuava poi con versi di ardente patriottismo a versare il suo sdegno sull’irlandese che non voleva imparare l’antico linguaggio della sua terra natale. Stephen non rilevò nei versi che la frequenza di forme abbreviate come “e’en”, “ne’er” e “thro’ ”, per “even”, “never” e “thorough”, e poi restituì il foglio all’amico senza alcun commento.
«Suppongo che non ti vada a genio perché è troppo irlandese, ma dovrebbe piacerti perché è quel tipo di scrittura mistica e idealistica a cui di solito voialtri poeti indulgete volentieri; ma bada, ve’, non dire che te l’ho fatta vedere».
«Oh, no».
Madden cavò di tasca un foglio di bozze di stampa piegato in quattro su cui era scritta una poesia di quattro strofe di otto versi ciascuna e che aveva per titolo “Il mio ideale”. Ciascuna strofa cominciava con la frase “Sei tu reale?” e il poemetto parlava degli affanni del poeta in “una valle di lacrime” e dei “palpiti del cuore” che questi affanni gli causavano. Parlava di “stanche notti” e di “giorni ansiosi” e d’un “insaziabile desio” per una perfezione “oltre quella che può dare la terra”. Dopo tanto lugubre idealismo l’ultima strofa offriva al poeta una certa consolante ipotetica alternativa nel suo dolore: con un inizio pieno di speranza:
Sei tu vero, o mio Ideale?
E mai potrai venire a me
In un crepuscolo dolce e gentile
Col tuo bimbo sulle ginocchia?
L’effetto di questi versi fu tale da far salire una vampa di collera al viso di Stephen. Quei versi di princisbecco, il futile alternarsi del ritmo, il ridicolo e grottesco accostamento dell’Ideale di Hughes gravato da un inspiegabile infante, si combinavano per causare a Stephen uno strazio nelle regioni del sensibile. Ancora una volta restituì i versi senza una parola di lode o di biasimo, ma decise in cuor suo che non gli sarebbe stato più possibile frequentare le lezioni di Hughes, mentre rimpiangeva d’aver ceduto a un impulso di simpatia per un amico.
Quando un uomo dopo aver richiesto a un altro un atto d’umana, intelligente simpatia, rimane senza risposta sarebbe un troppo austero devoto della disciplina se biasimasse sé stesso per aver offerto a uno scimunito l’opportunità di partecipare con lui a un più caldo moto di vita. E tale opportunità Stephen aveva creduto di offrire col prestare i suoi manoscritti. Egli non considerava affatto sua madre una scimunita, ma il risultato della sua seconda delusione, quando si rivolse a lei in cerca di stima, fu che da allora si sentì capace di collocare il biasimo sulle spalle degli altri e non sulle proprie, già gravate da tante responsabilità ereditate o acquisite. La madre non gli aveva chiesto di vedere il manoscritto e aveva continuato a stirare i panni sulla tavola di cucina, senza il minimo sospetto del fermento mentale che agitava suo figlio. Il quale aveva seguitato a passare da una sedia all’altra, e a far dondolare inutilmente le gambe da tutti gli angoli liberi del tavolo, e alla fine, incapace di dominare più a lungo la propria agitazione, le chiese di punto in bianco se voleva che le leggesse il suo saggio.
«Oh, sì, Stephen: se non ti dà noia, io andrei avanti a stirare queste poche cose».
«Affatto, affatto».
Stephen si mise a leggere il saggio, lentamente e con enfasi, e quand’ebbe finito ella gli disse ch’...

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