In pieno Rinascimento, nella seconda metà del XVI secolo, e grazie alle intuizioni di un illustre cittadino mantovano, Leone de’ Sommi ebreo, viene pubblicato il trattato Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche, in pratica il primo manuale di regia teatrale.
Perché un mantovano ebreo, pertanto “emarginato” per condizione sociale, decida di scrivere per il teatro, argomento avulso dalla propria cultura, trova significato in quel processo di dialogo fra culture diverse che contraddistinguerà l’agire degli uomini più ispirati del Rinascimento e che getterà le basi della modernità. Il trattato di Leone de’ Sommi si colloca come il punto di incontro tra sacra rappresentazione medievale e commedia dell’arte, teatro popolare e quello di corte, architettura e scena, cultura ebraica e cristiana, antico e moderno, conferendo all’evento teatrale i caratteri dell’opera d’arte.
Per comprendere come tutti questi aspetti dialoghino fra di loro è necessario recuperare le tessere del puzzle che vanno a comporre lo scenario del teatro rinascimentale.
Chiunque abbia consultato un testo di storia del teatro della prima metà del secolo scorso avrà notato che Leone de’ Sommi non è neppure menzionato, solo nel 1975 la Enciclopedia dello spettacolo riporta alcune notizie relative alla vita e all’opera. Prima di allora soltanto Alessandro D’Ancona aveva dedicato un ampio spazio al teatro degli ebrei a Mantova, riservando un’attenzione particolare a Leone de’ Sommi e alla sua attività di drammaturgo e impresario teatrale[1]. In seguito, la sua figura è stata ricordata nel 1904 quando un incendio distrusse gran parte dei manoscritti conservati nella biblioteca di Torino. In questi ultimi anni, sull’onda di un processo di rilettura della storia e della cultura del nostro paese, storici e ricercatori stanno riscoprendo la straordinarietà di figure un tempo relegate ingiustamente al margine del processo culturale. Nel caso di Leone de’ Sommi, l’incendio di Torino e il dissenso verso il mondo ebraico hanno senza dubbio contribuito ad avvolgere nell’indifferenza il suo prestigio.
La rinascita desommiana avviene secondo una direttrice che da una parte coinvolge gli studi moderni di cultura ebraica, intesi come ridefinizione della questione ebraica rispetto alla cultura dei non ebrei, e dall’altra gli studi di teatro, tesi alla ridefinizione del processo storico e culturale dello spettacolo. Nello specifico, Leone de’ Sommi recupera l’interazione fra la comunità degli ebrei mantovani e il fenomeno di inventio teatrale nel periodo rinascimentale. Fin dagli esordi, egli utilizza la scrittura ebraica, dunque sacra, per esaltarne la dimensione poetica.Una scelta coraggiosa che si confronta con la tradizione rabbinica e nello stesso tempo, proiettandosi in una visione più vasta, recupera la tradizione per rivestirla dell’abito della modernità. In questo caso il linguaggio sacrale non rimane relegato alla sinagoga, ma si espande al di fuori dei suoi confini arricchendosi degli elementi che contraddistinguono l’ambiente rinascimentale, diventando anch’essi fattori determinanti nel processo di reinvenzione letteraria e artistica.
In questo contesto può essere interessante notare come studi recenti abbiano associato l’antica presenza di comunità ebraiche all’origine suggestiva del termine Mantova, che nella definizione semantica giudaica troverebbe in Man Tovah il significato di «[città della] manna buona»[2]. Mi sembra che non si potrebbe immaginare un termine più appropriato per un territorio che dal X al XVII secolo ha conosciuto un continuo sviluppo economico, sociale e culturale culminato nel XVI secolo consacrando Mantova fra le maggiori capitali culturali europee. Manna, intesa come dono divino ma anche nutrimento, in senso traslato, per coloro che amano abbeverarsi alla fonte della conoscenza. Man Tovah, di nome e di fatto, fin dagli albori ha beneficiato di doni speciali in ambito culturale, diventando una roccaforte intellettuale del Rinascimento. Gli studi di questo periodo sono normalmente interessati agli eventi storico-politici, alle lettere e alle arti, relegando il teatro a manifestazione di scarso interesse. La continua ricerca di nuove fonti teatrali sta portando alla luce documenti sconosciuti che gettano una nuova luce alle generiche classificazioni ottocentesche di commedia dell’arte, teatro di corte, sacre rappresentazioni, teatro popolare, solo per citarne alcuni, evidenziando degli scenari talmente complessi da stravolgere, in alcuni casi, l’impianto su cui poggia la storia del teatro moderno.
Da questi presupposti e da quanto è emerso recentemente, si evince come debba essere ripensato anche il Rinascimento mantovano, ad esempio, nell’ambito dello spettacolo, immaginando la corte dei Gonzaga come un laboratorio di sperimentazione teatrale, in cui la comunità ebraica svolge un ruolo determinante sia nell’allestimento della messinscena che nel processo di reinvenzione dello spettacolo.
È opportuno premettere che, per comprendere il ruolo che ha avuto lo spettacolo alla corte mantovana e quali siano stati gli elementi che hanno determinato la sua trasformazione, dovremo ripercorrere, parallelamente all’evoluzione storica, quella culturale, religiosa affinché il tutto abbia a ricomporre il puzzle di cui si è parlato all’inizio. Per quanto la storiografia moderna abbia cercato di aggiornare gli studi di Burckhardt, essi rappresentano la base per lo studio del Rinascimento italiano e, secondo quelle definizioni, Mantova è un modello di città rinascimentale contrassegnata dal consolidamento del governo del principe. Un despota che suo malgrado, sopraffatto dalla spinta umanistica, non disdegna promuovere quei processi di relazione che produrranno un rinnovamento in campo educativo, politico, economico e culturale e che costituiranno il modello dei valori occidentali nei secoli successivi.
La disunione politica dell’Italia si rifletteva in un localizzarsi della vita artistica e letteraria in tanti centri quali la Roma papale, le repubbliche di Firenze, Venezia, e i principati di Ferrara, Urbino, Mantova, eccetera. I signori stessi si dilettavano nell’esercizio letterario e non sentivano d’aver raggiunto un’autentica gloria se questa non trovava rispondenza nella magnificenza delle corti e nel numero dei letterati protetti. La professione delle armi forniva senza dubbio delle occasioni di miglioramento; prova ne sia che il palazzo Gonzaga di Mantova, straordinariamente ampliato e abbellito dai suoi proprietari nel XV secolo, e il palazzo costruito dai Montefeltro in Urbino venivano considerate tra le più grandiose dimore del tempo. L’investitura imperiale a marchesi di Mantova e i matrimoni con principesse germaniche resero possibile ai signori Gonzaga un periodo di strette relazioni con l’impero, di cui essi si servirono per accrescere la loro autorità e influenza. Le famiglie al potere in Italia si tenevano in stretto contatto tra di loro con continui scambi di visite e di corrispondenza: esse agivano come forza politica unificatrice che serviva gli interessi del cittadino individuale. Il despota era un antidoto all’esclusivismo locale e le sue attività facevano ritenere la sua esistenza necessaria al benessere della comunità. Tale opinione trovò un valido sostegno nei canoni dell’umanesimo. Con la riverenza per il passato e l’omaggio che tributava all’autorità degli esperti, l’umanesimo era fautore dei principi di disciplina più che di quelli di libertà. La cultura e le arti offrivano il mezzo con il quale si potevano sviare gli uomini dal pensiero dell’autogoverno e far trovare loro nuove forme di autoespressione al posto delle represse attività politiche. Il governo principesco era esaltato come l’unico ambito in cui le multiformi possibilità umane potevano trovare una completa espressione. Perciò l’insegnamento della filosofia corrente, non meno degli avvenimenti futili della vita, consentirono al dispotismo di mettere nuove radici e minare le tradizioni di libertà.
Nello stesso tempo, la tendenza da parte dei despoti a cercare di ottenere l’investitura dal papa o dall’imperatore teneva in vita la concezione dell’impero medievale, ponendo sotto l’egida della tradizione feudale l’evoluzione dello stato moderno[3]. Il signore e la sua corte hanno un bisogno spasmodico di autocelebrazione, che diventa opportunità e garanzia per affermare le qualità del buongoverno e insieme garantirsi un posto nella storia. Tutta la complessa struttura cortigiana necessita di una continua “campagna pubblicitaria” che mistifichi dietro i princìpi di liberalità le vessazioni dei sudditi. Lo spettacolo è un ottimo veicolo per propagandare il divertimento fine a se stesso e acclamare il suo promotore: il principe. Di contro, il teatro di piazza realizzato da buffoni, girovaghi e saltimbanchi, promuove una controcultura povera di mezzi, dal linguaggio immediato, ironico, volgare ma di sicuro effetto. Gli elementi su cui si realizzerà il teatro moderno si fondano principalmente sulla sacra rappresentazione di impronta medievale, i cui caratteri si vanno continuamente a modificare attingendo dalle consuetudini locali e arricchendosi di elementi letterari e scenotecnici.
La grande rivoluzione dello spettacolo si concretizza con il passaggio dalla piazza alla corte. Le radici della drammaturgia sacra medievale, se affondano nel simbolismo del rito, attingono però la loro linfa da quel bisogno sempre vivo nel popolo della finzione drammatica che né gli anatemi dei Santi Padri né le proteste delle costituzioni apostoliche né le scomuniche ufficiali della Chiesa erano mai riuscite a soffocare. Fino a quando, però, restava relegato nel chiuso delle navate, il dramma conservava pur sempre un particolare carattere rituale, vincolato com’era alle leggi e alle necessità della liturgia da cui traeva origine. Qualche soffio di una vita più aderente alla realtà quotidiana serpeggiava a volte entro il latino ecclesiastico, ravvivando di un lampo d’umanità la ieratica secchezza del testo liturgico, ma erano balenii, fugaci apparizioni di quel sentimento popolare proprio delle masse assistenti al divino mistero, oltre i quali era impossibile procedere senza snaturare l’essenza stessa della celebrazione religiosa che il dramma aveva il compito di sottolineare.
Le pratiche devozionali avevano un notevole ascendente sulla popolazione, per il massiccio coinvolgimento delle persone nel ruolo di figuranti e di organizzatori dell’evento. Il fenomeno è confermato in zone dell’Italia centro-meridionale, mentre non ci sono pervenuti documenti che attestino questa pratica in territorio mantovano, tuttavia non si può escludere che in forme diverse l’intero paese ne fosse coinvolto. Si pensi al forte consenso popolare delle processioni, retaggio di rituali arcaici, che si arricchiscono di macchine fantasmagoriche, dotate in alcuni casi di meccanismi di movimento o pirotecnici in una simbiosi tra lo sforzo fisico richiesto per portare quelle mastodontiche architetture e lo stupore generato dallo sfolgorio delle luci. Idealmente si ricrea in una dimensione dilatata quanto in forme più contenute veniva rappresentato nelle chiese o sul palcoscenico della sacra rappresentazione. Se talvolta si conserva la pratica del «percorso di espiazione» che alla fine indica al devoto la salvezza, successivamente si assiste a una rivisitazione dell’allestimento: riprendendo lo schema del teatro classico e reinventando la scena fissa, si realizza un vero e proprio palcoscenico dove i vari momenti “stazioni” si alternano in successione, lasciando il pubblico fermo nello stesso luogo a contemplare gli eventi. In questo modo si garantisce continuità alla messinscena che, pur svolgendosi su una struttura fissa, si arricchirà nel tempo di soluzioni e artifici sempre più sofisticati. Era perciò naturale che, uscendo sul sagrato o nelle piazze piene di sole e di vita, le rappresentazioni diventassero a poco a poco spettacoli coloriti a cui concorrevano a dar vita i più disparati elementi che la tradizione laica ed ecclesiastica poteva offrire[4].
Confraternite e istituzioni religiose, consapevoli che i padri della Chiesa diffidavano da ogni forma di rappresentazione, sperimentano il potente veicolo che lo spettacolo esprime per esercitare ogni forma di condizionamento. Ogni pretesto va bene per allestire la vita dei santi, per onorare una pia intenzione, non importa quanto l’operazione sia svuotata di spessore culturale o sia di scarso valore artistico, l’importante è raggiungere l’effetto. Il fatto è che questo teatro veniva incontro alle necessità e ai gusti di una società nuova, nella quale il fatto religioso era sentito con uno spirito ben diverso che nel passato, come una necessità etica, come il codice di una morale del corretto vivere civile più che come il dramma soprannaturale delle anime di fronte alla grazia e all’eternità che aveva scosso, in altri tempi e con tanta forza, le masse cristiane.
La nuova economia urbana, immergendo l’uomo in una realtà dinamica, gli aveva fatto sentire con urgenza una viva curiosità per le cose che lo circondano e che egli considera con ben altri occhi e da un punto di vista ben diverso da quello dei suoi predecessori, tutti ancora volti ai problemi della vita futura. Si attua così, nello spirito della borghesia che è, non bisogna dimenticarlo, l’elemento propulsore di questa nuova società, la grande svolta della religiosità occidentale: il ritorno dal regno di Dio alla natura, dalle cose ultime alle prossime, dai problemi escatologici ai problemi più semplici del mondo delle creature. Sulla immagine di Dio fuori dal mondo cui lo spirito umano anelava congiungersi distruggendosi, prevale l’idea di una potenza divina operante nelle cose stesse. Per un complesso affievolirsi del sentimento religioso, il testo sacro o agiografico viene ad assumere una nuova dimensione, nella quale prende il sop...