L'uomo con la borsa al collo
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L'uomo con la borsa al collo

Genealogia e uso di un'immagine medievale

Giuliano Milani

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L'uomo con la borsa al collo

Genealogia e uso di un'immagine medievale

Giuliano Milani

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Nel corso del medioevo scultori, predicatori, poeti e pittori hanno impiegato l'immagine di un uomo con la borsa attorno al collo punito all'inferno per rappresentare avari, usurai, peccatori, eretici, banditi e scomunicati. Il libro segue le tracce di questa raffigurazione infamante dalla Bisanzio del IX secolo all'Alvernia dell'XI, dalla Digione duecentesca ai comuni italiani dell'età di Dante e Giotto, ricostruendo la vicenda di una figura che, pur rimanendo fedele alla propria funzione, subì una costante evoluzione: un'immagine che, nell'alternarsi delle contingenze e dei contesti, assunse significati sempre più complessi e contribuì alla formazione di un modo condiviso di pensare il male.

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Information

Year
2018
ISBN
9788833130040

1. L’usuraio individuato e colpito: (Guiard de Laon e Etienne de Bourbon a Digione nel 1240)

A partire dai quindici anni, non credo al regno di nessun dio né in cielo né in terra, anzi dovunque lo si dislochi mi sembra pericoloso. D’altra parte condivido l’opinione che la gran parte dei concetti che maneggiamo sia di origine teologica. La teologia aiuta a capire da dove sono scaturiti i fondi di caffè a cui tuttora ricorriamo.
Elena Ferrante, La frantumaglia
1. L’usuraio e la sua statua da Etienne de Bourbon a Jacques Le Goff
L’immagine dell’uomo con la borsa al collo è al centro di una storia raccontata per la prima volta attorno alla metà del Duecento.
Accadde a Digione che, mentre un prestatore di denaro si trovava sotto al portale della chiesa della beata Vergine e stava prendendo in sposa una donna con cui pensava che avrebbe vissuto a lungo unito in matrimonio, un altro usuraio di pietra, scolpito con la borsa sopra quel portale, fece cadere la sua borsa sulla testa di quello vivo che immediatamente spirò e morì insieme alla moglie. A quel punto tutti gli altri usurai fecero distruggere le immagini scolpite che si trovavano sul portale nella parte anteriore della chiesa e sopra il muro esterno. Lo vidi poco dopo il fatto e il maestro Guiardus, vescovo di Tournai, predicava questa storia proprio lì.14
Si trova nel Trattato sulle diverse cose da predicare un repertorio di exempla, cioè narrazioni pronte da inserire nei sermoni, che il frate dominicano Etienne de Bourbon († 1261) cominciò a scrivere intorno al 1250 nel convento di Lione e lasciò incompiuto alla sua morte, dopo che per vari decenni aveva predicato e condotto inquisizioni in giro per la Francia.
Le ragioni per cui questo racconto confluì nella raccolta sono facili da immaginare e ben dimostrate dalla posizione che il frate volle dar loro. Il racconto finì infatti nel primo libro, in cui si trattava delle cose di cui bisogna aver paura, sotto il titolo settimo, riservato al timore della morte.15 Sarebbe difficile – in effetti – trovare una vicenda più adatta a suscitare questa paura, giudicata dal predicatore un buon punto di partenza per il pentimento, la conversione e dunque la salvezza. Forse per questo i molti autori che copiarono, abbreviarono e saccheggiarono il testo di Etienne de Bourbon,16 in genere non se la lasciarono scappare.
Se la storia segnalava a tutti la necessità di pentirsi finché se ne aveva il tempo, più particolarmente la segnalava a chi aveva praticato un peccato grave come l’usura. Per questo Etienne de Bourbon decise di riportarla una seconda volta, in una forma più distesa, nel quarto libro del suo Tractatus, intitolato al «dono della forza» (il dono da usarsi per combattere le cose da evitare), sotto il titolo undicesimo, relativo all’avarizia, nel paragrafo riservato a quella particolare sottospecie di avarizia che prende appunto il nome di usura:
Accadde a Digione, verso l’anno del Signore 1240, che un usuraio volesse celebrare con grande sfarzo le sue nozze. Fu quindi condotto verso la chiesa parrocchiale di Notre-Dame con strumenti musicali accordati e stava sotto il portico della chiesa perché la fidanzata pronunciasse il suo assenso e il matrimonio fosse ratificato, secondo l’usanza, dalle “parole per il presente” così che potesse infine venir solennizzato con la celebrazione della messa e gli altri atti dentro la chiesa. In quel momento, mentre i fidanzati, pieni di gioia, si accingevano a entrare in chiesa, un usuraio di pietra che era stato scolpito al di sopra del portico nell’atto di essere trascinato all’inferno dal diavolo cadde con la sua borsa sulla testa dell’usuraio vivo che stava per sposarsi, lo colpì e lo uccise. Le nozze si trasformarono in lutto, la gioia in dolore. L’usuraio di pietra escluse dalla chiesa e dai sacramenti quello vivente che i preti non escludevano e volevano anzi ammettere. Gli altri usurai della città versarono del denaro per far distruggere le altre sculture che si trovavano in quel portico, nella sua parte anteriore – le ho potute vedere distrutte io stesso – perché un’altra disgrazia del genere non potesse capitare.17
In questa più ampia versione nella storia c’è una data (il 1240 circa), ma non compare più il riferimento alla fonte (il maestro Guiardus). Potrebbe essere un indizio del fatto che si tratta della versione originale. Certamente ci sono molti particolari in più. Alcuni (lo sfarzo, gli strumenti musicali) sembrano messi lì per far risaltare la ricchezza dell’usuraio; altri, quelli relativi al matrimonio (l’assenso, le «promesse per il presente», l’imminenza della messa) sottolineano che quell’evento fatale non aveva semplicemente punito la vittima per il suo peccato, ma anche impedito che ricevesse i sacramenti che i sacerdoti gli stavano inopinatamente per dare. Curioso infine il riferimento alla colletta compiuta dagli altri usurai per far smontare le sculture, che conferisce un tocco paradossale considerato che (come mostra la disposizione della materia data da Etienne di Bourbon al suo trattato) gli usurai erano, in fin dei conti, una particolare tipologia di avari. Forse proprio per questa sua stranezza – sempre nel caso in cui questa fosse la versione originaria – quando Etienne la riprese e la riassunse, questo particolare sparì.
C’è qualcosa di simile tra il lavoro che occupò Etienne de Bourbon negli ultimi anni della sua vita e quello che è stato compiuto sette secoli dopo dal grande medievista che lo studiò.
Il merito di rendere noto a un pubblico vasto l’esempio dell’usuraio di Digione spetta a Jacques Le Goff che nel 1986 decise di inserirlo in uno dei testi più fortunati della sua vasta produzione: La borsa e la vita.18 Così come il domenicano duecentesco, anche Le Goff cercò di dare senso al frammento di racconto che aveva trovato accostandolo ad altri frammenti sulla base di una visione complessiva, di una teoria di riferimento capace di renderlo comprensibile. Se il frate lo aveva inserito nella griglia dei «doni dello Spirito Santo», lo storico mise quest’exemplum a dimostrazione di una tesi, quella per cui tra XI e XIII secolo si era manifestata in modo fragoroso una contraddizione tra due sviluppi contrastanti: la permanente condanna ecclesiastica del prestito a interesse, fondata sui divieti biblici e ribadita a più riprese da trattati teologici e concili, in base alla quale l’unico esito possibile per i prestatori di denaro era l’inferno, e la crescente diffusione di questa pratica tra i cristiani, sintomo e causa della crescita economica. Secondo Le Goff, solo alla fine del medioevo la Chiesa aveva cominciato a mitigare le sue posizioni introducendo la distinzione tra usure lecite e illecite, la parziale giustificazione del prestito a interesse e soprattutto l’offerta agli usurai di nuove possibilità di salvezza: in vita, con il pentimento e la restituzione degli illeciti guadagni, e dopo la morte, con le preghiere d...

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