L'Italia dei comuni (1100-1350)
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L'Italia dei comuni (1100-1350)

François Menant

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L'Italia dei comuni (1100-1350)

François Menant

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François Menant traccia un quadro completo delle vicende politiche, economiche e culturali di un periodo cruciale per la formazione dell'Italia moderna, quello compreso tra il 1100 e il 1350. In quei secoli l'Italia centro-settentrionale fu teatro di un'esperienza unica nel contesto dell'Europa del tempo: lo sviluppo delle città comunali.La singolarità del fenomeno deriva in primo luogo da un eccezionale sviluppo urbano: circa sessanta città avevano una popolazione compresa tra i 10.000 e gli 80.000 abitanti e tre raggiunsero il record dei 100.000 abitanti. Nelle città italiane si concentrava una notevole parte delle ricchezze dell'Europa e del bacino mediterraneo, grazie alla fitta rete commerciale e bancaria che gli italiani seppero intrecciare. I profitti venivano investiti, e non solo nella terra e nelle case, ma anche nell'arte: i palazzi comunali, le chiese degli ordini mendicanti, gli affreschi di Giotto e Ambrogio Lorenzetti sono il preludio del Rinascimento.In questo quadro i sistemi politici cittadini raggiungono la loro pienezza istituzionale, fondata sull'indipendenza da ogni altro potere, sul rinnovamento dell'arte oratoria e del diritto e sulla sperimentazione di nuove tecniche di amministrazione, dalla contabilità pubblica alla regolare archiviazione dei documenti. In queste città lo sviluppo culturale e quello politico-istituzionale procedono dunque in parallelo, in un contesto spesso lacerato dai conflitti, ma anche aperto e dinamico: quello di una società in sommovimento che nel corso di questi secoli cambia profondamente e nella quale l'esperienza comunale lascia un segno profondo, ancora ben visibile.

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Information

Year
2020
ISBN
9788833135144

1. Il tempo dei consoli (1100-1190)

1. Il quadro politico: l’Italia prima dei comuni
Il regno d’Italia nell’Impero
Per capire alcune specificità delle città italiane di età comunale occorre risalire all’alto medioevo: fu allora che si fissò il quadro politico nel quale poterono prendere forma le loro istituzioni. Conquistato da Carlomagno nel 774, il regno longobardo avrebbe condiviso, con il nome di Regnum Italiae, il destino dell’impero che di lì a poco sarebbe stato fondato. Il regno comprendeva l’Italia del nord e la Toscana e tendeva a premere periodicamente sulle terre pontificie. Tra il 951 e il 962 venne conquistato da Ottone I che assunse anche il titolo imperiale. Da allora i sovrani del regno furono sempre scelti all’interno della cerchia dei principi tedeschi: una volta eletti re di Germania, essi venivano acclamati dall’aristocrazia italiana e incoronati re d’Italia a Pavia, e poi imperatori a Roma. Il «viaggio a Roma» esauriva, per gran parte dei re germanici, la loro permanenza nella penisola, e rappresentava sempre una verifica importante dell’atteggiamento nei loro riguardi da parte dei sudditi italici. I contingenti dei principi e dei prelati germanici, organizzati per questo viaggio secondo un rituale ben prefissato, si univano a quelli dei loro omologhi italiani. Lungo il percorso il re/imperatore alloggiava nei palazzi posseduti nelle città, raccoglieva i proventi del fodro (fodrum), un’imposta esatta per l’occasione, ridava vita tanto alla fedeltà dei subordinati che ad antiche prerogative prossime all’oblio, confermava i privilegi dei predecessori…
Una situazione del genere poneva gravi problemi di controllo politico e di coerenza amministrativa: il re, di fatto, non governa l’Italia se non quando vi soggiorna e così il paese può restare per decenni praticamente abbandonato a se stesso. Detentori dell’autorità in assenza del re sono i vescovi, che nel X secolo hanno quasi sempre ricevuto in delega le prerogative della potestà regia, con gli annessi diritti fiscali e patrimoniali, e che tali prerogative esercitano a partire dalle città in quanto centri episcopali. I grandi signori laici, marchesi e conti, che hanno un potere comparabile, intrattengono con le città un rapporto molto meno forte. Il generale trasferimento di competenze politiche in capo ai vescovi è un fattore importante di mantenimento della centralità urbana, di cui più tardi beneficeranno i comuni.
All’inizio del XII secolo non resta nulla degli strumenti di governo a disposizione dei sovrani carolingi: palazzi, amministrazione centrale, patrimonio demaniale, pedaggi: tutto ormai è perduto e da gran tempo. Con l’incendio del palazzo di Pavia nel 1024 si compie la rovina dell’amministrazione regia, e le principali risorse che i sovrani riescono a mantenere sono il fodro e il servizio militare loro dovuti durante il viaggio in Italia. La restaurazione tentata da Federico I Barbarossa e dai suoi successori avverrà dunque all’interno di qualcosa che assomiglia a una tabula rasa: nessuno contesta l’autorità degli imperatori germanici, ma essi non dispongono quasi più degli strumenti per esercitarla.
L’originalità più forte di questo regno d’Italia, nel quadro dell’Occidente del tempo, è l’esistenza di una forte realtà urbana che è riuscita a mantenersi nel corso dei secoli precedenti. Roma non è ormai che l’ombra di ciò che era stata, e tuttavia rimane, a dispetto delle sue rovine, una delle maggiori città occidentali. Palermo e alcune altre città del sud restano del pari centri di primaria importanza. Ma la Toscana, e soprattutto la piana del Po costituiscono le sole regioni in Occidente nella quali abbia resistito una vera rete di città, capaci di conservare una centralità politica ed economica, e di accogliere un’élite laica sufficientemente colta. Lo sviluppo di età comunale maturerà grazie a tali, antiche, premesse sociali e culturali.
Le terre pontificie
A partire dal 754 i re franchi prima, gli imperatori germanici poi garantiscono ai papi la potestà su una fascia di territori che taglia in diagonale la penisola. La riforma della Chiesa produrrà poi un tale rafforzamento dell’indipendenza e del prestigio dei pontefici da consentire l’affermazione del loro dominio su tutti i territori prossimi a Roma (il cosiddetto «Patrimonio» della Chiesa romana) e anche la rivendicazione del loro controllo sulle province più lontane. Si tratta tuttavia di un’azione ostacolata dalle autonomie locali e spesso dagli stessi imperatori. Del resto, anche all’interno dell’Urbe l’esercizio del potere è tutt’altro che privo di ostacoli: per una buona parte del XII secolo i papi soggiornano a Roma meno che in altre città vicine come Orvieto o Viterbo. Innocenzo III, approfittando del vuoto di autorità imperiale che fa seguito alla morte di Enrico VI (1197), estese la propria autorità al ducato di Spoleto (più o meno corrispondente all’attuale Umbria) e alla Marca anconetana; dopo il 1250 anche la Romagna (con le città di Ferrara e Ravenna) entrò a far parte nello stato pontificio, che raggiunse così le frontiere che avrebbe conservato fino al XIX secolo.
Più a sud, l’Italia greca, longobarda e musulmana viene conquistata dai normanni alla fine dell’XI secolo, e diviene uno dei regni occidentali più potenti, con Palermo come capitale.
Venezia
Venezia manterrà sempre, tra i comuni italiani, la sua specificità originaria, assicurata dall’eccezionalità del sito dove sorge la città, dalle vicende della fondazione e dai modi di vita dei suoi abitanti. La città era nata in seguito al ripiegamento di nuclei di popolazione bizantina in fuga di fronte all’invasione longobarda (568): l’insediamento nelle isolette della laguna, fra le quali Rialto (il centro futuro di Venezia), si sarebbe esteso a spese della preesistente Torcello. La conquista franca del 774 si arresta anch’essa al limite della laguna. Il capo della comunità mantiene un titolo da funzionario bizantino (dux/doge), ma dopo il 726 egli risulta eletto in modi del tutto indipendenti dall’autorità bizantina e confrontandosi anzi da pari a pari con i sovrani: un trattato con l’imperatore Lotario nell’840 e un privilegio del basileus, che riconosce nel 993 l’autonomia di Venezia, rappresentano i fondamenti dello statuto eccezionale della città. La creazione dell’episcopato nel 776 e l’arrivo delle reliquie di san Marco da Alessandria nell’828 rafforzano l’identità veneziana. A partire dal IX secolo si comincia a intravedere un’aristocrazia dedita alle attività dell’armamento navale e del grande commercio marittimo, specialmente con Bisanzio.
Città e aristocrazia feudale
All’inizio di uno studio sui comuni italiani, è necessario soffermarsi sui rapporti di potere e sull’evoluzione sociale dell’XI secolo, periodo designato di solito come «precomunale» o «feudale». La formazione della società feudale prelude infatti direttamente alla genesi dei comuni, in modo particolare in Lombardia: qui, ad esempio a Milano o a Cremona, la società comunale si organizza all’inizio in ordini. Troviamo così dei milites, distinti in capitanei e valvassores a partire dalla legge sui feudi di Corrado II del 1037, e dei cives, estranei, in linea di principio, all’organizzazione feudale. La divisione fondamentale che attraversa la «società d’ordini» oppone tuttavia l’insieme dei cittadini e dei milites ai contadini, i «rustici», sottomessi al potere signorile. Le clientele vassallatiche si organizzano soprattutto attorno ai vescovi, ai capitoli delle cattedrali e ad alcuni grandi monasteri.
Toscana e Umbria sono molto meno feudalizzate e la signoria rurale non vi appare come un fenomeno generale. Altrove invece, specie in larga parte del Piemonte e del nord-est e delle frange appenniniche dell’Emilia, della Romagna e della Toscana, l’organizzazione feudale gravita attorno ai conti e ai marchesi e resta fondamentalmente rurale. In tutte queste regioni la società comunale degli inizi non include l’aristocrazia feudale, il che non impedisce che anch’essa risulti fortemente militarizzata.
Le signorie feudali laiche però non presentano la stessa solidità delle formazioni omologhe formatesi oltralpe: tali signorie laiche restano cioè marginali in una geografia politica nella quale l’elemento costitutivo è prima di tutto la città con il suo territorio, corrispondente normalmente a quello della diocesi. Uno dei passaggi più importanti di una celebre pagina di Ottone di Frisinga1 sull’Italia della metà del XII secolo è precisamente quello dove si constata come non vi siano quasi più in Italia grandi signori laici pienamente indipendenti da una città.
2. Genesi e primo sviluppo dei comuni (fine XI-metà XII secolo)
L’affermarsi del gruppo dirigente
La cosiddetta riforma gregoriana, dal nome del suo principale protagonista, papa Gregorio VII (1073-1085), che aveva trasformato profondamente la Chiesa nella seconda metà dell’XI secolo, produsse nelle città italiane conseguenze politiche di grande portata. Prima di tutto perché fece del papa un soggetto politico di primo piano; ancora, perché ad essa, in alcune città, e fra queste innanzitutto Milano, si accompagnò un movimento popolare (la «pataria») rivolto contro i preti concubinari o troppo interessati ai profitti che l’aristocrazia feudale traeva dai beni ecclesiastici; e infine perché assegnò il ruolo degli sconfitti a gran parte dei vescovi, e dei loro capitanei, che avevano rifiutato la riforma schierandosi con lo scisma voluto dall’imperatore Enrico IV (1056-1108) contro le pretese di Gregorio VII e del suo successore Urbano II (1085-1099).
Durante i quaranta anni che precedono la soluzione del conflitto (con il concordato di Worms, 1122), le comunità dei cives si organizzano autonomamente approfittando dell’assenza dei vescovi in alcune città e opponendosi a Enrico IV. La genesi del comune matura dunque fuori dall’inquadramento proprio di una qualche autorità superiore. I privilegi che Enrico V (1106-1125) concede ripetutamente facilitano l’evoluzione all’interno di alcune città; quanto a Lotario III (1125-1137) e a Corrado III (1138-1152), essi sono quasi sempre lontani dalla penisola. Il concordato di Worms riconosce inoltre l’autonoma elezione del vescovo da parte del capitolo cattedrale e l’investitura del nuovo eletto da parte dell’imperatore per quanto riguarda le prerogative temporali proprie della diocesi, considerate alla stregua di beni regi (iura regalia).
La formazione del nuovo sistema politico, favorito da simili circostanze, non ha tuttavia nulla di casuale: il regime comunale costituisce il punto d’approdo di un processo di ascesa dei gruppi sociali cittadini arricchiti dai commerci, dal prestito a interesse, dalle attività di monetazione e dagli affari con gli enti ecclesiastici; gruppi cittadini che cominciano inoltre a investire i loro guadagni nella proprietà fondiaria, talora persino nell’acquisto di signorie rurali. In città come Pisa, Genova e Venezia essi approfittano dell’espansione marittima, che unisce alla guerra contro i musulmani il commercio con la Sardegna, la Corsica e il litorale adriatico – e con il commercio lo sfruttamento –. E così, sempre più attivi nelle pratiche del diritto, ossia le pratiche dei notai, dei giudici e degli avvocati già molto importanti nelle città italiane, questi soggetti riescono a inserirsi nella cerchia dei vescovi. Attorno al 1100 essi si impongono alla testa delle città alleandosi con una parte dell’aristocrazia feudale (come in Lombardia, a Piacenza, a Pisa) oppure rimanendo da soli (è il caso della maggior parte delle città piemontesi e toscane): è l’origine vera e propria dei comuni (fig. 1).
La genesi delle istituzioni comunali
Il termine «comune» (in latino commune, comune, comunum) è utilizzato alla fine dell’XI secolo come aggettivo (iuramentum comune, comune consilium ecc.) mentre il sostantivo viene usato correntemente a partire dal 1120 circa, spesso nella forma di comune civitatis. Poiché la documentazione politica di quel tempo era ...

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