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Il nuovo ordine mondiale dei media

Lelio Simi

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  1. 160 pages
  2. Italian
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Il nuovo ordine mondiale dei media

Lelio Simi

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Quando è successo che abbiamo smesso di leggere, guardare, ascoltare, per trasformarci in pubblico, utenti e cluster di consumo anche nella fruizione delle informazioni?Quali sono i modelli di business che da anni scuotono l'industria dei media in una trasformazione inarrestabile e senza precedenti?Che valore economico ha il nostro desiderio di scoprire cose nuove e come viene sfruttato dalle aziende tecnologiche? Cosa sono le "strategie delle raccomandazioni" con le quali Amazon, Netflix e Spotify riescono a legarci sempre più alle loro library sterminate?Come funziona la subscription economy che vuole trasformarci da acquirenti occasionali di un prodotto in abbonati fedeli di un servizio?In queste pagine è possibile trovare le risposte a queste e altre domande, per tracciare una mappa di questi travolgimenti, ma soprattutto per orientare chi legge a costruire una relazione più consapevole con i media.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2021
ISBN
9788820399214
Images

CAPITOLO 1

LA TECNOLOGIA E IL VALORE DEL PIACERE DELLA SCOPERTA

Da Napster alle guerre dello streaming
Ci piace dire che l’invenzione del motore a scoppio ci ha cambiati, ha cambiato il nostro modo di vivere. In verità, abbiamo costruito la Ford T perché eravamo già cambiati, abbiamo cercato di rifare il mondo perché potesse accogliere la nostra inquietudine.
Richard Rodriguez, Final edition, “Harpers’ Magazine”

IN ATTESA DELL’ERA DELL’ABBONDANZA

Autunno 2018, mentre sfoglio le pagine del quotidiano locale dedicate alla mia città, mi imbatto nella notizia che annuncia l’imminente chiusura del più vecchio negozio di dischi ancora attivo in centro – Chiude un altro pezzo storico della città, titola il giornale. Quel “pezzo storico” è stato il mio principale fornitore di musica per anni, il luogo dove ho comprato i miei primi album quando ero ancora poco più alto del suo bancone principale.
Dopo un lieve sospiro seguito da un “ma dai” a fil di voce, ho ripreso la lettura delle altre notizie dimenticandomi completamente di quel piccolo evento; quando però, qualche giorno dopo, sono passato davanti a quel negozio, vedendo tappezzate di cartone le vetrine mi è venuto un groppo alla gola.
Devo essere totalmente sincero: in quella mia commozione c’era una buona dose di ipocrisia. Nell’ingresso del negozio di pochi metri quadrati al piano terra, sempre pronto ad accogliermi stracolmo di dischi stipati in scaffali ed espositori, non ci mettevo piede da molti anni, da tempo avevo “tradito” quel luogo; prima con negozi molto più grandi, di altre città, che mi avevano dato l’illusione di una maggiore scelta, di un maggior “prestigio” – quel piacere tutto provinciale di potersi vantare di aver acquistato qualcosa a Milano, Parigi o Berlino – e poi negli anni il totale distacco era avvenuto a causa di: vendita di CD per corrispondenza, file MP3 da scaricare da negozi online e ascoltati su iPod, servizi di streaming come Spotify.
Ma d’altronde non è così che oggi va il mondo? Avevo già elaborato il lutto di vedere, sostituito con un rivenditore di capsule per macchine da caffè, il giornalaio vicino casa dei miei genitori, dove ogni domenica mattina nella mia infanzia compivo il rito dell’acquisto dei miei fumetti preferiti; era passata anche la leggera fitta al costato nel vedere sostituito da un negozio di pelletteria la libreria in cui ho comprato da adolescente l’opera omnia di sir Arthur Conan Doyle nell’edizione economica degli Oscar Mondadori. Così, alla fine, anche il buon vecchio Telerecord con i dischi consigliati dal signor Luciano era finito per essere solo un ricordo per me.
Perché è proprio così, le tracce della cosiddetta disruption digitale le possiamo vedere non solo nei documenti di bilancio dei protagonisti delle industrie dei media, ma anche attraversando le strade e le piazze delle nostre città, piccole o grandi che siano. Negozi di dischi spariti, piccole librerie indipendenti scomparse, edicole desertificate.
Ma quando è iniziato tutto? Facciamo un salto indietro di qualche anno.

La promessa del CD e la politica dei prezzi delle major

Nel 1999 l’industria dei media prosperava come non mai, sul finire di quell’anno i numeri parlavano, per molti dei suoi settori, ancora di guadagni eccellenti.
La vendita dei giornali veleggiava in mare aperto, lontana dalle secche nelle quali si sarebbe trovata nemmeno un decennio dopo; gli incassi dei cinema nel principale mercato al mondo, il Nord America, toccavano quota 7,3 miliardi di dollari con un incremento sull’anno precedente del 9,7% (uno dei più sostenuti dal 1977 a oggi)1.
Poi c’era la musica registrata: il giro di affari aveva raggiunto i 25,2 miliardi di dollari secondo i dati della IFPI (International Federation of the Phonographic Industry), una pietra miliare che rappresenta il picco massimo, a tutt’oggi, mai raggiunto da questa industria.
Oltre il 90% di quei miliardi proveniva dalla vendita dei Compact Disc. Lanciati ufficialmente sul mercato nel 1982, avevano ormai sostituito quasi completamente i dischi in vinile; un vero affare per le grandi case discografiche, che avevano abbandonato senza alcun rimpianto il vecchio supporto, incrementando i margini di guadagno anche grazie al fatto di aver messo il prezzo ai consumatori dei CD a una cifra nettamente più alta, nonostante fossero molto meno costosi da realizzare rispetto al disco a 33 giri.
D’altronde era praticamente impossibile sfuggire al fascino iridescente di quel dischetto di 12 centimetri di diametro in policarbonato da inserire in un lettore laser per tramutare in musica una serie di dati impressi su un sottilissimo foglio metallico. La sua promessa andava molto oltre quella di un suono riprodotto privo di rumori e fruscii, puro come mai ascoltato da orecchio umano: quello che le persone avevano tra le mani, allora, era un piccolo anticipo del terzo millennio, una finestra sul futuro come l’avevano immaginato da bambini guardando i programmi alla televisione che raccontavano come avrebbero vissuto, da adulti, nelle ipertecnologiche case del Duemila.
Di quel fascino le grandi case discografiche erano perfettamente consapevoli e, senza farsi il minimo scrupolo, hanno pensato bene di approfittarsene: negli Stati Uniti, un’inchiesta della Federal Trade Commission, nel 2001, ha obbligato le cinque major della musica di allora – Emi, Time-Warner (WEA), Sony, Bertelsmann (BMG) e Universal – a patteggiare una transazione. Le autorità americane avevano accusato le principali case discografiche di aver venduto i CD con un sovrapprezzo scaricando sui consumatori statunitensi un costo addizionale, stimato in 480 milioni di dollari, a partire dal 19972.
Una pratica che i giganti dell’industria musicale avevano perpetrato non soltanto negli USA, ma anche in Europa, tanto da spingere ad aprire un’inchiesta sulla loro attività; non è andata diversamente in Italia, visto che l’Antitrust nel 1997 ha comminato un’ammenda per 7,69 miliardi di lire (quasi 4 milioni di euro) al gotha dell’industria discografica italiana, anche questa volta con l’accusa di aver fatto cartello e aumentato i prezzi dei CD3.
Non c’è che dire, una bella dimostrazione che chi allora controllava il mercato non avesse affatto a cuore i propri clienti (cioè noi).

Il sogno di superare l’era della scarsità

Il costo di un CD rappresentava un mezzo investimento per chi, come me, non aveva molti soldi in tasca: “sbagliare” acquisto era mortificante, per questo era importante avere più informazioni possibili su un disco, dalle riviste specializzate, dai programmi alla radio, dalle fanzine e dagli amici che condividevano con te i tuoi gusti musicali.
Ma poi non era affatto detto che quel disco, consigliatissimo, saresti riuscito a trovarlo nel rivenditore vicino casa. Il più delle volte dovevi scegliere tra le cose che i negozi avevano a disposizione e, se vivevi in provincia, la gamma era spesso alquanto ristretta. È vero che alcuni negozianti sapevano consigliarti, tenevano titoli al di là della loro “vendibilità”, ma alla fine ti sentivi sempre all’interno un confine estremamente limitato.
Ricordo che un giorno, in un grande negozio di musica, dopo aver preso un vecchio Blue Note di Wayne Shorter rimasterizzato e Mundo Civilizado di Arto Lindsay, continuavo a saltare da un settore dedicato a un genere musicale all’altro. Poi mi devo essere fermato a guardare quella distesa di scaffalature in successione piene di vinili e CD con un’aria un po’ persa, tanto che la mia ragazza di allora guardandomi mi disse: “Certo che sarebbe bello averli tutti a disposizione e poterli ascoltare quando vogliamo”. L’idea che una cosa simile fosse minimamente possibile ci provocò una piccola vertigine, come se ci avessero detto “sarebbe bello avere una macchina del tempo e viaggiare in qualsiasi epoca”: una fantasia bella e irrealizzabile ma che il solo pensarla ti lascia a bocca aperta.
Ecco, alla fine, la promessa del Compact Disc non poteva andare molto oltre il fatto di essere, niente più, che la versione aggiornata del disco a 78 giri. Si era passati da un giradischi con puntina in ferro a un lettore con un fascio di luce a infrarossi, però tutto ciò che ruotava attorno poco era riuscito a cambiare, nella sostanza, la nostra esperienza, il nostro rapporto con l’industria della musica rispetto al passato; la capacità del CD di evocare un futuro prossimo ipermoderno portava a una visione tanto affascinante quanto ancora adolescenziale, come quella delle macchine volanti disegnate sulle copertine delle riviste di fantascienza; potevamo certo ancora perderci nell’ammirarle, ma non era quello che veramente sognavamo.
Quello che desideravamo veramente era qualcosa che sapesse accogliere la nostra “inquietudine”, la nostra sete perenne di conoscere cose nuove in modo diverso da come ci era stato imposto fino ad allora. Volevamo insomma abbandonare l’era della scarsità ed entrare in quella dell’abbondanza. Non sapevamo ancora che quel desiderio stava per essere esaudito, con conseguenze inimmaginabili.

INTERNET ALL’ATTACCO DEL MONOPOLIO DELLA SCOPERTA

Che cosa ci spinge ad acquistare un libro, un disco o un quotidiano, a guardare un film al cinema o su un canale televisivo a pagamento? Se non l’unica, sicuramente la principale ragione è la nostra curiosità, la nostra voglia di scoperta che ci fa vivere un momento di serendipità come un piccolo miracolo privato.
C’è un momento nel quale si crea una connessione e, di conseguenza, una sorta di patto tra noi e un determinato prodotto dell’industria dei media che ci porta a investire un po’ di denaro e del nostro tempo, con la richiesta che, in cambio, la scintilla che si è accesa ci illumini per un tempo più lungo di un attimo e mantenga la sua piccola o grande promessa che ci ha appena fatto.
È un momento fondamentale nel motivarci all’acquisto, perché desideriamo da un lato ripeterlo all’infinito continuando a scoprire cose e dall’altro, assolutamente non meno importante, tornare a riviverlo. Quanto ci delizia rivedere film o serie televisive che abbiamo amato, ascoltare di nuovo, e ancora di nuovo, un brano musicale per rinnovare e ricordare il piacere che abbiamo provato la prima volta che lo abbiamo scoperto?
Il nostro piacere della scoperta – da rinnovare e rivivere continuamente – potrebbe essere definito come il carburante che alimenta tutta l’industria dei media, dalle news all’editoria libraria, dalla musica registrata e dal vivo all’intrattenimento televisivo e cinematografico.
Non è quindi semplicemente un’idea astratta, un concetto generico, ma qualcosa di assolutamente concreto che ha un (grande) valore economico. Ma questa curiosità, questo nostro piacere della scoperta non dipende solo da noi, dipende soprattutto da chi controlla la catena di valore di queste industrie, a cominciare da chi decide quali artisti e contenuti produrre e quali no, quanto denaro investire nella loro promozione, quante copie stampare dei loro prodotti e quanto capillarmente, o meno, distribuirli nei punti vendita.

La sconfitta di Napster

Controllare questa catena di valore vuol dire per le major avere saldamente in mano il loro destino, per questo devono regimentare dentro un percorso preciso e determinato il piacere della scoperta dei consumatori; perché quando la voglia di scoperta trova altre strade, uscendo dai percorsi stabiliti, iniziano per loro i veri problemi.
Per esempio, per l’industria della musica, le cassette audio con le quali le persone duplicavano i dischi rappresentavano un modo con cui i consumatori “deviavano” dal percorso stabilito, così poi come i CD clonati e masterizzati: per i padroni della musica fastidiose perdite lungo i canali che avevano ancora saldamente in mano.
Almeno fino al 1999, quando arriva Napster e tutta un’industria viene messa in discussione.
La piattaforma Internet realizzata da due teenager che avevano cominciato a frequentare la Northeastern University di Boston cambia completamente le carte in tavola perché capace di mettere a disposizione di milioni di persone, da “pari a pari”4, milioni di tracce musicali, semplicemente installando un software nel computer di casa. Una parte fondamentale della catena di valore di quella industria, la distribuzione “fisica”, i negozi di dischi, viene saltata a piè pari.
Il tutto, per di più, totalmente gratis. Tuttavia, il fatto che la musica che Napster permetteva di condividere fosse gratuita è un aspetto sostanzialmente sopravvalutato per capire il successo immediato e travolgente della piattaforma e della fama conquistata dai suoi due fondatori (con tanto di celebrazione sulla copertina della rivista “Time” per uno di loro, Shawn Fanning). Come giustamente è stato fatto notare:
Nell’era di Internet i consumatori non erano soddisfatti del settore musicale perché mancava di praticità e flessibilità per il modo nel quale i contenuti erano accessibili. Questo ha portato le persone a condividere illegalmente musica, non tanto perché era gratuita, ma perché era messa a disposizione in una quantità praticamente illimitata, on demand e in singole tracce facili da scaricare5.
Ecco: flessibile, efficiente, on demand, praticamente illimitata, “spacchettata” (superando cioè il vecchio packaging del CD musicale) sono tutte caratteristiche da tenere bene a mente perché è su queste che, principalmente, le grandi aziende tecnologiche faranno leva per portare le loro piattaforme a conquistare il mondo.
C’è quindi una lezione da tenere a mente: Internet aveva creato già nel 1...

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