Salute senza confini
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Salute senza confini

Le epidemie della globalizzazione

Paolo Vineis

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Salute senza confini

Le epidemie della globalizzazione

Paolo Vineis

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La drammatica cronaca dei primi mesi del 2020, legata alla pandemia di COVID-19, ce lo ha dimostrato ancora una volta: in un mondo globalizzato, più facile da percorrere ma anche più intricato e interconnesso e per questo più fragile, anche i concetti di salute e malattia stanno cambiando. Non si tratta più di processi esclusivamente biologici, bensì di fenomeni complessi che investono la sfera ambientale, sociale, economica, politica e culturale. Oggi il cambiamento climatico, i fenomeni migratori, la crisi economica e l'industrializzazione della produzione alimentare sono parametri fondamentali per valutare lo stato di benessere di un individuo o di una popolazione. Paolo Vineis traccia un quadro completo degli aspetti che compongono la salute globale, e propone una tesi forte sul piano politico: in un panorama così mobile e articolato, la salute in molte aree del mondo potrebbe andare incontro a un deterioramento simile a quanto è avvenuto in economia con la crisi del 2008. "Salute senza confini" offre uno sguardo attento e ragionato alle emergenze sanitarie, passate e presenti. Cambiamento climatico, fenomeni migratori e crisi economica: salute e malattia ai tempi della globalizzazione.

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Information

Year
2020
ISBN
9788875789152

Capitolo 1

L’alimentazione

Uno dei fenomeni più notevoli dei nostri tempi è l’allarmante epidemia di obesità e diabete (diabesity) che ha colpito quasi tutto il mondo. Nel 2005 alcuni ricercatori hanno addirittura previsto che questa epidemia potrebbe ridurre l’aspettativa di vita degli americani. L’allarme va preso con cautela e forse, invece di predire una riduzione dell’aspettativa di vita, è più prudente anticipare una maggiore instabilità nel sistema, soprattutto a scapito delle classi sociali più basse. L’analogia tra l’epidemia di obesità e quella dovuta al fumo di sigaretta – che ha causato non solo milioni di tumori ai polmoni ma anche milioni di malattie cardiovascolari e polmonari – merita di essere approfondita in tutte le sue dimensioni.
Il mondo sta facendo molta fatica a liberarsi dal consumo di tabacco, a livello politico e individuale, e la grande diffusione di malattie legate al fumo, iniziata nei primi decenni del secolo scorso nei Paesi ricchi, non si è ancora arrestata e si sta anzi allargando a quelli emergenti. Dobbiamo evitare che quanto avvenuto con il fumo si ripeta con obesità e diabete, magari come conseguenza di quella grande razionalizzazione nella produzione e distribuzione del cibo che si è manifestata in concomitanza con la crisi economica mondiale.

Le due facce della malnutrizione

Stiamo attraversando il primo periodo nella storia dell’umanità in cui ci sono più persone sovrappeso che denutrite. Allo stesso tempo, tuttavia, la denutrizione non è stata interamente sconfitta. Gli anni novanta sono stati un periodo felice per la lotta alla fame (con una sensibile riduzione del numero di persone denutrite), a differenza degli anni duemila, decennio in cui si è assistito a un rallentamento dei successi. Secondo la Food and Agriculture Organization (FAO) complessivamente vi sono all’incirca 820 milioni di individui denutriti nel mondo, con un aumento dal 2015 (http://tinyurl.com/qv647nt; per il periodo precedente si veda Hawkes et al., 2009), la grande maggioranza dei quali nei Paesi a basso reddito. Un problema ancora più diffuso è rappresentato dalla carenza di micronutrienti come le vitamine o il folato, fenomeno che affligge almeno 3 miliardi di abitanti nei Paesi più poveri.
Tuttavia l’altra faccia della malnutrizione sono i circa 1,9 miliardi di persone sovrappeso, di cui almeno 650 milioni sono obese (e il numero sta rapidamente aumentando). L’obesità è strettamente associata al rischio di diabete (fenomeno designato dal neologismo diabesity): il numero di diabetici è destinato a crescere, da circa 108 milioni nel 1980 a 422 milioni nel 2014 e a valori ancora superiori nel 2030, salvo straordinari ma improbabili successi nella prevenzione (Hawkes et al., 2009); e molti di questi sono in Paesi a basso reddito. Ecco perché si parla di double burden, il “doppio carico” della malnutrizione nei Paesi a basso reddito (preferiamo usare questa definizione al posto di quella più comune di “Paesi in via di sviluppo” perché il grado di sviluppo è difficile da definire ed estremamente variabile).
Mentre le cause della denutrizione possono essere facilmente individuate nella povertà strutturale di molte aree geografiche e di molte famiglie, le cause dell’obesità e del diabete in larga misura ci sfuggono. Alcuni fatti sono chiari: nel Regno Unito il consumo di zuccheri raffinati e di grassi è aumentato da cinque a dieci volte negli ultimi due secoli, mentre si è radicalmente ridotto il consumo di cereali ricchi di fibre. Tuttavia non è detto che questo genere di cambiamenti sia l’unica causa dell’epidemia di obesità.
Uno dei maggiori limiti nelle misure preventive sta nell’addossare la responsabilità ai singoli individui, alla loro ingordigia o alla loro pigrizia (alcune delle caratteristiche stigmatizzate nel personaggio di Homer Simpson, in poltrona davanti alla tv con una birra in una mano e una ciambella nell’altra). Questo aspetto è certamente reale e importante, ma sono ancora poco esplorati i determinanti più remoti dell’obesità: per esempio l’“ambiente costruito”, ossia la velocità e la natura dell’urbanizzazione. Questa procede in modo molto più spedito nei Paesi poveri che in quelli ricchi, ha effetti particolarmente importanti per le famiglie a basso reddito, e si accompagna a cambiamenti – come l’accesso a cibi economici e di bassa qualità, o la riduzione dell’esercizio fisico – che influiscono sull’obesità.
Senza arrivare al caso emblematico di Nauru, in tutto il mondo molti milioni di famiglie hanno sostituito un’economia familiare basata sul lavoro manuale e sull’autoconsumo legato alla terra con forme di vita urbanizzate e dipendenti dall’acquisto di cibi a basso prezzo.
La relazione tra gli sviluppi dell’industria alimentare globale, con le sue scelte strategiche, e le conseguenze sulla salute è tuttora poco esplorata. Un numero speciale di “PloS Medicine” uscito nel 2012 ha richiamato l’attenzione sul fatto che c’è ancora pochissima ricerca sulle strategie dell’industria alimentare e su come esse condizionano la salute di milioni, se non miliardi, di persone. Gli autori dell’editoriale ricordano che gli effetti del tabacco sono stati riconosciuti tardi e sono stati lungamente negati dall’industria; solo ora, a più di mezzo secolo dalla dimostrazione del legame con il cancro, sono state avviate incisive politiche di prevenzione nei Paesi sviluppati.
L’industria alimentare segue strategie non molto diverse da quelle usate in passato da quella del tabacco, come i massicci investimenti in pubblicità, spesso mirata a sottogruppi della popolazione, o la corruzione dei ricercatori (fenomeno di cui conosciamo probabilmente solo la punta dell’iceberg). La mortalità per cancro del polmone negli Stati Uniti tra il 1960 e il 2010 è all’incirca raddoppiata (da 24 a 48 morti ogni 100.000 per anno); la frequenza di obesità (IMC [indice di massa corporea] > 30) negli stessi anni è passata dal 13 al 22,5 per cento, un tasso di crescita che non accenna a diminuire (valori che si sommano a una frequenza di sovrappeso di circa il 30 per cento, stabile). E per di più si tratta di percentuali: l’impatto numerico globale è molto più marcato rispetto al dato riferito al cancro del polmone (senza voler sottovalutare l’importanza del tabacco).
Cambiamenti macroscopici si sono verificati e ancora si stanno verificando nella produzione e nella distribuzione del cibo. La liberalizzazione dei commerci ha facilitato la cosiddetta integrazione verticale dei TFP (transnational food processors): l’industria alimentare è infatti in grado di coprire tutti i segmenti, dalla raccolta fino alla distribuzione, in un sistema integrato di tipo altamente industrializzato, con enormi vantaggi contrattuali e una riduzione dei costi a tutti i livelli. Negli Stati Uniti il grado di concentrazione (la quota di mercato coperta dalle prime quattro imprese del settore) per il commercio alimentare al dettaglio è passato dal 24 per cento nel 1997 al 46 per cento nel 2003. In Inghilterra, Paese in cui vivo, nel 2018 le cinque principali imprese di commercio di cibo al dettaglio coprivano il 70 per cento del mercato (http://tinyurl.com/vbzgn9z). Ormai è possibile fare la spesa quasi solo da Tesco, Sainsbury’s e in pochi altri grandi supermercati. Il taglio dei costi è cominciato dal personale: secondo la lezione di Ryanair, i costi si abbattono facendo fare il lavoro al cliente, e in quest’ottica i cassieri sono stati sostituiti da casse self-service.
Accanto ai TFP, l’altra grande novità degli ultimi decenni sono gli investimenti diretti all’estero (IDE, o FDI, foreign direct investment), cioè il fatto che imprese transnazionali (che rispondono agli azionisti, non ai clienti) investono finanziariamente nel cibo, considerato un bene di consumo come un altro. L’investimento rende molto di più se il cibo non è semplicemente un prodotto della terra, coltivato e trasportato al consumatore, ma se è trasformato: anzi, quanto più è trasformato, come lo sono le bevande gassate e i cibi confezionati, tanto più la resa economica è alta. Forse il “segreto” dell’epidemia di obesità sta proprio in questo punto. Nei supermercati inglesi o americani – l’Italia almeno da questo punto di vista rappresenta un’anomalia positiva – la scelta è diversificata perché i cibi sono presentati in sempre nuove versioni (come fossero modelli di automobili) per stimolare la richiesta e aumentare il guadagno degli investitori. Tesco e Sainsbury’s competono sul rapporto tra prezzo e attrattività esercitato dai nuovi “modelli” di cibi confezionati; le diffuse pubblicità di tipi sempre nuovi di hamburger – in particolare negli Stati Uniti e nel Regno Unito – sono un altro esempio. L’operazione di diversificazione può essere svolta solo dalle grandi catene, e i piccoli negozi di generi alimentari si stanno riducendo, almeno a Londra, a boutiques di prodotti genuini ma molto cari, accessibili solo alla media borghesia.
Quanto detto riguardo alla vendita al dettaglio vale anche per la ristorazione: street food, snack bar (per la maggior parte legati a grandi catene) ecc. sono sempre più diffusi, in particolare nell’Europa dell’Est, in Asia e in America Latina. In Vietnam, Cina e Indonesia la stima di crescita è rispettivamente dell’11, del 10 e dell’8 per cento l’anno. Secondo alcune ricerche, l’assunzione di calorie da cibi distribuiti da catene di fast food negli Stati Uniti è passata dal 10 per cento del 1977 al 21 per cento del 1996 (Moodie et al., 2103; Hawkes et al., 2009). Ma secondo altri la quota è inferiore, intorno all’11 per cento negli adulti. Un aspetto collaterale ma non trascurabile è che quasi tutti i cibi preconfezionati sono impacchettati in cellophane o in plastica e contribuiscono alla produzione di materiale inquinante difficile da smaltire.
Che cosa ci riserva il futuro? Sempre più cibi industriali e (mal)trattati. Le politiche di “aggiustamento strutturale” (structural adjustment programs) e la liberalizzazione dei commerci non potranno che incrementare la forza e la diffusione dei grandi TFP. Se il WTO si oppone al contenimento della vendita di sigarette, è difficile che arretri di fronte alle critiche all’industria alimentare; si consideri che a livello globale le transazioni legate al cibo sono l’11 per cento del totale, una percentuale superiore a quella dei carburanti. Sulle resistenze a politiche di contenimento della diffusione del junk food torneremo nell’ultimo capitolo.
Il fenomeno della globalizzazione dell’industria alimentare è stato particolarmente intenso in alcune aree strutturalmente più deboli. Le isole del Pacifico hanno rappresentato un laboratorio naturale delle politiche di smercio di cibi preconfezionati da parte degli Stati Uniti e dell’Australia, in particolare per quanto riguarda la carne in scatola (spesso ricavata dalle parti meno nobili di montoni e tacchini). E nelle stesse isole la globalizzazione ha anche causato una drastica riduzione del consumo di pesce fresco, a favore del consumo di pesce in scatola, in seguito alla vendita delle concessioni di pesca ai giapponesi.
Un potente motore dello sviluppo dell’industria alimentare transnazionale – come in tutti gli altri settori industriali – è la pubblicità. La spesa pubblicitaria globale per il cibo è passata da 216 miliardi di dollari nel 1980 a 512 nel 2004, e negli Stati Uniti l’industria alimentare spende in pubblicità più di qualunque altra industria (Moodie et al., 2103; Hawkes et al., 2009). Gran parte di questa pubblicità, diffusissima sui canali televisivi americani, promuove prodotti altamente calorici e grassi: pizze grondanti formaggio, hamburger con tripli strati di carne ecc. Nel 2013, nel periodo natalizio, nella metropolitana di Londra Sainsbury’s pubblicizzava l’intero pranzo di Natale (tacchino incluso) in un solo hamburger a 1,99 sterline.
Tra le aziende più aggressive nelle campagne promozionali c’è la Frito-Lay, che in Thailandia ha più che duplicato i suoi investimenti in pubblicità tra il 1999 e il 2003: nello stesso periodo nel Paese il consumo di snack da parte dei bambini è cresciuto del 30 per cento. La Frito-Lay (una divisione di Pepsi-Cola) va ricordata anche per un episodio di conflitto di interessi. Un gruppo di ricercatori ha infatti pubblicato di recente una rassegna che nega le prove di cancerogenicità dell’acrilamide, una sostanza che si produce nella frittura (per esempio delle patatine). Al di là della valutazione delle prove in sé, colpiscono alcuni fatti: la ricerca è stata sponsorizzata dalla Frito-Lay e il senior author dell’articolo ha lavorato per anni in un’agenzia pubblica di ricerca sul cancro (la IARC, International Agency for Research on Cancer) prima di passare all’industria privata, per la quale è ora impegnato nel ridimensionamento sistematico delle prove di cancerogenicità raccolte dalla stessa agenzia per cui lavorava in precedenza. Sui conflitti di interessi torneremo nei capitoli 7 e 8.
Ho accennato al fatto che la crisi economica, ma anche le soluzioni “liberiste” che sono state proposte, come le politiche di aggiustamento strutturale, possono comportare deterioramenti rapidi dello stato di salute in certe aree del mondo. Per quanto possa apparire sorprendente, una delle più prestigiose riviste mediche internazionali, il “New England Journal of Medicine” (NEJM), nel 2005 ha pubblicato un articolo che ipotizzava un potenziale declino dell’aspettativa di vita negli Stati Uniti nel XXI secolo (Olschansky et al., 2005). Il principale motore di questo declino sarebbe proprio l’obesità, con il suo carico associato di malattie cardiovascolari e diabete. La crescita dell’aspettativa di vita – costante dal 1850 in poi nei Paesi ad alto reddito – ha subito una decelerazione negli ultimi tre decenni, in particolare negli Stati Uniti, e perfino un’inversione nei bianchi poveri (su questo torneremo oltre). La probabilità di morire precocemente può essere fino a quattro volte più alta per le persone di 18-30 anni fortemente obese, ossia con IMC > 40; e una diagnosi di diabete in giovane età può ridurre l’aspettativa di vita di ben 13 anni (Olshansky et al., 2005). Complessivamente l’obesità marcata (IMC > 40) riduce l’aspettativa di vita di un periodo compreso tra 5 e 20 anni.
Secondo le stime degli autori dell’articolo del “NEJM”, se l’epidemia di obesità non subirà presto un’inversione di marcia, l’aspettativa globale di vita degli americani potrebbe ridursi per la prima volta dal 1850. Un rallentamento dell’aspettativa di vita peraltro è già stato osservato in Giappone, a Okinawa, come conseguenza dell’obesità e delle malattie cardiovascolari. Quest’ultima osservazione ha tuttavia radici più complesse legate al basso peso alla nascita di un’intera generazione. Su questo punto torneremo nel capitolo dedicato all’epigenetica.

Capitolo 2

Il cambiamento climatico

Questo capitolo parla di quanto sappiamo oggi sul cambiamento climatico, delle incertezze che accompagnano le nostre conoscenze e delle conseguenze che il cambiamento climatico può avere sulla salute attraverso diversi meccanismi. Il cambiamento del clima sembrava inimmaginabile pochi decenni fa, e rappresenta un evidente esempio della portata globale dell’influenza dell’uomo sul nostro pianeta. Le conseguenze principali sullo stato di salute si verificheranno con tutta probabilità attraverso la scarsità d’acqua (di buona qualità) e attraverso i mutamenti nella distribuzione di malattie trasmissibili come la malaria.

Il quinto rapporto dell’IPCC: gli effetti sulla salute

Il capitolo sulla salute (Working Group 2) del quinto rapporto dell’IPCC contiene molti dati che portano ulteriori prove a favore dell’importanza e della rapidità del cambiamento climatico. Per esempio, 13 dei 14 anni più caldi da quando si è cominciato a registrare i livelli di temperatura sono nel XXI secolo. Il rapporto, come molte altre fonti autorevoli, richiama l’attenzione sulle conseguenze più drammatiche che si riscontreranno nei prossimi anni.
La prima è sicuramente l’insufficiente disponibilità di risorse idriche di buona qualità per tutti. Benché non vi siano prove che a livello globale sia cambiata la velocità con cui si esauriscono le acque di superficie e di profondità, si prevede che nelle aree subtropicali aride questo capiterà tra pochi anni. Sul lungo periodo una grave carenza d’acqua è prevista per almeno tre fenomeni concomitanti: la domanda crescente, i cambiamenti nelle precipitazioni e la fusione dei ghiacciai. Si stima che, rispetto alla disponibilità attuale, ogni aumento di 1 grado della temperatura provocherà un calo del 20 per cento nelle fonti idriche rinnovabili per un ulteriore 7 per cento della popolazione. Inoltre l’aumento della temperatura farà crescere i sedimenti nelle sorgenti, la siccità provocherà una ridotta diluizione dei contaminanti chimici e le inondazioni porteranno a un collasso ciclico dei sistemi di smaltimento dei rifiuti.
Se non saranno istituite misure di mitigazione e adattamento, entro il 2100 milioni e milioni di persone patiranno le conseguenze di alluvioni, mentre le erosioni costiere provocheranno una perdita di terreni coltivabili. Secondo il rapporto, gli effetti del cambiamento climatico sulla produzione di cibo dipendono da complesse interazioni tra livelli di CO2, azoto e ozono, temperatura, disponibilità d’acqua ed eventi climatici estremi, tutti fenomeni la cui ampiezza è difficile da prevedere. Sebbene si siano osservati anche effetti positivi sulla produttività agricola dovuti al cambiamento climatico, finora questi sono stati superati da quelli negativi, soprattutto nel caso della coltivazione del mais.
Si stima che nel complesso i raccolti potranno ridursi fino al 2 per cento per decennio in questo secolo, mentre fino al 2050 la domanda aumenterà del 14 per cento per decennio. La produzione di alimenti risente molto dei forti sbalzi climatici e se gli aumenti di temperatura saranno estremi (più di 4 gradi), i danni in questo settore – che ora si limitano alle aree temperate – saranno percepiti a tutte le latitudini. Il cambiamento climatico è un “moltiplicatore di problemi” (threat-multiplier) per i gruppi sociali più poveri, anche a causa dell’aumento dei prezzi del cibo. È verosimile che questo non sarà un problema solo nei Paesi a basso reddito, come è oggi, ma che si creeranno nuove sacche di povertà nei Paesi ad alto reddito, in cui i livelli di disuguaglianza sono in aumento.
Le conseguenze del cambiamento climatico saranno diverse nei diversi continenti. In Europa l’IPCC stima «altamente probabile» un aumento delle persone colpite da alluvioni nei bacini fluviali e lungo le coste, con conseguenti ingenti perdite economiche. Vi sarà al contempo una riduzione della disponibilità idrica insieme a un aumento della domanda. E in altri continenti potranno esserci importanti conseguenze sulle malattie trasmesse da vettori, come hanno suggerito diversi rapporti a partire da un articolo di “Science” sulla diffusione della malaria ad altitudini elevate in Etiopia e Colombia (Siraj et al., 2014).
Per quanto riguarda le misure preventive e protettive, è abbastanza ovvio che le strategie di “mitigazione” – cioè di abbattimento dei livelli di CO2 – potranno dare risultati solo sul lungo o lunghissimo periodo, mentre misure di “adattamento” fisico e biologico alla situazione data possono aspirare ad avere effetti più rapidi. Tu...

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