Sotto i nostri piedi. Storie di terremoti, scienziati e ciarlatani
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Alessandro Amato

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Sotto i nostri piedi. Storie di terremoti, scienziati e ciarlatani

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Dopo ogni terremoto c'è sempre qualcuno che lo aveva previsto: i Maya, la zia Santuzza, il cane del vicino. I previsori non si fidano della scienza, ma credono che i rospi scappino prima dei terremoti, che la Nato e le trivelle possano scatenarli, che gli scienziati sappiano prevederli ma non lo dicano perché odiano vincere i premi Nobel. Per orientarsi in questo groviglio di scienza e pseudoscienza, "sotto i nostri piedi" ci accompagna in un viaggio attraverso la storia dei terremoti e dei tentativi di prevederli, costellata da pochi acuti e tanti fallimenti. Storie di scienziati e filosofi (da Aristotele a Kant), di terremoti e terremotati (dalla Cina alla Russia, dalla California all'Aquila), di bizzarre teorie e personaggi pittoreschi. Fino ai più recenti passi avanti compiuti dalla ricerca sismologica, che se non consentono ancora la previsione dei terremoti ci offrono però la conoscenza e gli strumenti per una fondamentale riduzione del rischio.[BIO AUTORE]Alessandro Amato, geologo e sismologo, è dirigente di ricerca dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). È stato direttore del Centro Nazionale Terremoti e membro della Commissione Grandi Rischi. Ha coordinato e partecipato a numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali, pubblicando articoli sulle maggiori riviste scientifiche del settore. Da qualche anno si occupa di comunicazione della scienza, anche sui social media (su twitter è @AlessAmato).

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Information

Year
2016
ISBN
9788875786250

Capitolo 1

Parkfield: be here when it happens

California, 1988. È qui il centro della storia, a metà strada tra l’epoca d’oro della previsione dei terremoti, gli anni sessanta in Cina, e i giorni nostri in Italia, dove dopo ogni scossa se ne discute, in tv e nei tribunali. Dopo vent’anni di previsioni da parte di cinesi e russi, per la maggior parte un po’ naïf e quasi tutte sbagliate, ora anche qui, nella pragmatica e moderna California, ne aspettiamo uno. I sismologi dell’USGS (United States Geological Survey) lo hanno previsto.
L’epicentro del futuro sisma è una cittadina che diventerà un simbolo della previsione dei terremoti e ha un nome tipico da quelle parti, che è tutto un programma: Parkfield, il “campo del parco”, una cittadina di una ventina di abitanti in mezzo al nulla, una serie di casupole di legno a un piano allineate lungo una main street. Il nome stesso tradisce la sua breve storia, gli edifici bassi e sismicamente sicuri. Vuoi mettere con Castensantangelo sul Nera, Montefalcone di Val Fortore o Sant’Egidio alla Vibrata? Nomi che celano storie secolari di castelli, santi, eroi, guerre, terremoti, ricostruzioni e abbandoni, nonché case antiche e fragili, che di antisismico al massimo hanno sullo spigolo un’effigie di Sant’Emidio, il santo “protettore” dai terremoti.
Parkfield si trova a metà strada l’Europa e l’Asia, culle millenarie delle scienze naturali, tra la Grecia di Aristotele, che nel quarto secolo a.C. ipotizzava fossero i venti sotterranei la causa dei terremoti, e la Cina di Zhang Heng, filosofo, astronomo e anche un po’ sismologo, che nel secondo secolo d.C. inventò il primo strumento per rilevarli. Era l’inizio della lunga storia della scienza dei terremoti. Come per tutti i campi della scienza, si tratta di una storia fatta di idee, teorie, scoperte, innovazioni, calcoli, modelli, fallimenti, ma anche divinità e catastrofismi. Soprattutto, è una storia di scienziati, studiosi, inventori, religiosi, impostori e ciarlatani.
Tra gli appartenenti alla prima categoria un posto speciale lo meritano i ricercatori dell’USGS di Menlo Park, in California, che a metà degli anni ottanta decisero di lanciare il loro esperimento di previsione. Sulla base dello studio minuzioso dei terremoti del passato, William H. Bakun e Allan G. Lindh avevano scoperto che una determinata faglia si rompeva con una certa regolarità: terremoti di magnitudo 6 erano avvenuti all’incirca ogni ventidue anni: nel 1857, 1881, 1901, 1922, 1934 e 1966. Era la “sezione di Parkfield”, un pezzo di quaranta chilometri della faglia di San Andreas1. Questo segmento è limitato a nord dalla cosiddetta creeping section, un tratto di centocinquanta chilometri della stessa faglia di San Andreas che di fatto scivola continuamente senza riuscire ad accumulare l’energia necessaria per scatenare un forte terremoto. A sud della sezione di Parkfield, invece, c’è un lungo settore di faglia che si sta “caricando” da oltre un secolo, dopo l’ultimo grande terremoto che l’ha fatto muovere, quello di Fort Tejon del 1857 (magnitudo 7.9). Da allora, le due placche si sono spostate di almeno cinque metri, mentre la faglia è rimasta bloccata: forse c’è già il potenziale per un altro forte terremoto come quello del 1857 e potrebbe essere il famoso Big One.
L’ultimo terremoto a Parkfield era avvenuto nel 1966, perciò il prossimo era atteso da un momento all’altro, nel 1988. Questa ricorrenza incoraggiava le speranze di molti ricercatori: i terremoti sono periodici, come la vendemmia o il plenilunio. Solo più rari, forse un po’ più complicati, ma periodici e quindi in qualche modo prevedibili, si pensava.
A rivederla ora, l’ipotesi di Bakun e Lindh fa un po’ sorridere per la sua semplicità, ma quella era l’epoca delle previsioni possibili. Un’importante ricerca dei geologi David P. Schwartz e Kevin J. Coppersmith, pubblicata nel 1984, aveva evidenziato, attraverso le analisi paleosismologiche2, che alcuni segmenti della faglia di San Andreas in California e della faglia di Wasatch nello Utah si comportavano in modo “caratteristico”. Avevano cioè la tendenza a rompersi con le stesse modalità (dimensioni della faglia e quindi magnitudo) a intervalli di tempo regolari. O meglio: relativamente regolari, perché, come per tutti i fenomeni geologici, le ricorrenze, quando ci sono, sono dell’ordine dei secoli o dei millenni, a fronte di processi che durano milioni di anni. La regolarità va quindi vista come un’indicazione di massima, un po’ come quando si dice che in un certo posto la piovosità è di 500 mm/anno: nel lungo termine è vero, tuttavia le oscillazioni tra un anno e l’altro e all’interno di uno stesso anno sono affette da un’incertezza che può superare la metà del valore medio. Come a dire che se un terremoto avviene su una determinata faglia ogni mille anni (che è l’ordine di grandezza dei tempi di ripetizione delle faglie in Italia) questo valore può risultare essere di cinquecento o duemila anni, e non deve stupire. Questo è il motivo principale per cui i sismologi non sono oggi in grado di prevedere i terremoti entro delle finestre temporali fatte di ore o giorni. Va detto che anche Bakun e Lindh considerarono un’incertezza abbastanza ampia nella loro stima: sei anni. Secondo il loro modello, il terremoto sarebbe potuto avvenire tra il 1988 e il 1993, in quanto i precedenti terremoti erano avvenuti a intervalli non proprio regolari, compresi tra i dodici e i trentadue anni.
«Be here when it happens» riportavano i cartelli turistici intorno a Parkfield alla fine degli anni ottanta. Da noi un consiglio scherzoso come quello avrebbe fatto partire denunce per procurato allarme, avrebbe scatenato l’indignazione delle autorità locali e della stampa per avere rovinato la stagione turistica e fatto calare i prezzi delle case, e probabilmente una trasmissione pseudoscientifica a effetto ne avrebbe annunciato la distruzione totale nelle successive ventiquattr’ore. Qui invece la si prende con filosofia, interesse e serenità, cercando anche di sfruttare l’occasione per attirare i turisti del terremoto. Il Parkfield Café proponeva difatti alcuni menu tematici: dal Big One, un bisteccone da mezzo chilo, alla più modesta Magnitudo-6 (solo 340 grammi di carne), per concludere con una sequenza di Aftershocks come dessert. C’era la consapevolezza di vivere in un posto dove stava per arrivare un forte terremoto, sì, ma anche della sicurezza dell’edificio del Parkfield Café e delle case lì intorno: i clienti venivano orgogliosamente invitati a sedersi all’interno per mangiare e godersi il terremoto a pancia piena. «If you feel a shake or a quake, get under your table and eat your steak». Come annotava un giornale locale in un articolo dal titolo Standing on Shaky Ground and Proud to Be There, cioè “Vivere in una zona sismica e orgogliosi di esserci”, per la gente che vive qui la paura del terremoto fa registrare una magnitudo prossima allo zero. In quegli anni gli occhi di tutti gli scienziati della Terra erano puntati su questo luogo. E in questo luogo c’ero anch’io.
Faglie e orologi
Quando una faglia si muove con un forte terremoto, anche le condizioni delle faglie circostanti vengono modificate. Una faglia può essere “caricata” o “scaricata” dal movimento del terremoto precedente, secondo la sua posizione e le sue caratteristiche. Non solo. Si è visto in molti terremoti recenti che la crosta terrestre è fratturata e piena di fluidi in pressione, principalmente acqua e anidride carbonica. Questi fluidi possono muoversi da una faglia all’altra, alterandone la resistenza. La capacità che ha una faglia di resistere alle spinte geologiche deriva dalla resistenza all’attrito delle rocce che ne compongono il cuore (quello che in inglese si chiama il fault gauge). Se pompassimo dell’acqua a pressione in questa gauge ne diminuiremmo la resistenza, come per i cuscinetti a sfera che servono ad agevolare il movimento di due parti meccaniche diminuendo l’attrito tra esse. La stessa cosa accade dopo un forte terremoto, forse anche prima: la crosta si deforma, si dilata e i fluidi migrano da una parte all’altra, andando a infiltrare nuove faglie. Se una di queste è in uno stato critico (se cioè ha accumulato deformazione per molto tempo senza rilasciarla con terremoti) la pressione dei fluidi dentro la faglia potrebbe farla scattare, con un terremoto. Si parla di clock advance quando la perturbazione di stress o quella dovuta all’immissione del fluido fa scattare la faglia prima del tempo. La carica all’orologio la forniscono le spinte geologiche, continue e lente.
Quando a giugno del 1988, con la mia borsa di studio misi piede a Menlo Park, il cuore pulsante del formidabile USGS, mi persi per i corridoi del building 7, quello della sismologia. A dire il vero ne rimasi un po’ deluso perché erano come i nostri: stretti, lunghi e senza finestre. Mi feci tuttavia piccolo piccolo quando iniziai a sbirciare le targhette accanto alle porte degli uffici. Camminavo con passo incerto, rallentando quando riconoscevo i nomi che mi sfilavano davanti, ognuno di loro firma di pagine fondamentali della sismologia. Li leggevo e rileggevo, ammirato e intimorito, cercando di ricordare quali pagine avessero scritto. Era come camminare nel museo del Louvre: la Gioconda e la Venere di Milo avevano i volti di David M. Boore, Bill Joyner, Thomas C. Hanks, Mary Lou Zoback, Jack Boatwright, Paul A. Spudich, Bernard Chouet, Donna Eberhart-Phillips, Dave Oppenheimer. Naturalmente c’erano anche loro, William “Bill” Bakun e Allan “Al” Lindh, i “previsori”, accanto a Paul Segall, Tom Borcherdt, e tanti altri. Non signori anziani e con la barba bianca, neanche tronfi professoroni indaffarati con scartoffie e segretarie, ma quarantenni in camicia a quadri e infradito. Approdato al primo piano, che risultava essere, con mio iniziale sconcerto, il secondo, incontrai il mio futuro tutor: un indiano del Sud, nero, piccolo e tondo, con piglio deciso e polo celeste aderente a fasciare un addome importante, soprattutto in un uomo da un metro e cinquanta (scarsi). Avrei scoperto dopo che Hariharaiyer Mahadeva Iyer, a capo di un gruppetto di quattro persone, oltre a essere un ottimo scienziato era uno dei maggiori consumatori di peperoncini del pianeta. Dove noi comuni mortali ci arrischiavamo a infilare la punta del coltello per poi passarla incerti in un piatto pieno di pollo e verdure, Iyer attingeva a piene mani fino a far diventare rossa e immangiabile qualunque pietanza. Immangiabile per noi comuni mortali, non per lui.
Fu Iyer a presentarmi Tim Hitchkock, singolare personaggio dell’USGS, grande viaggiatore amante dell’India e dell’Europa, che mi lasciò per due mesi il suo incredibile ufficio. A differenza degli altri uffici del Survey, il suo era caldo e accogliente: tappeti orientali alle pareti, lampade psichedeliche, ritratti di divinità varie, foto di viaggi con un giovane Tim, basettoni, occhialoni tondi e camicie hippy, apparentemente votato alla cannabis più che alla sismologia. La sua stanza aveva un’altra singolarità: vi si produceva il miglior caffè dell’intero USGS, ed era perciò meta continua di scienziati, tecnici e giovani studenti. Fu il caffè, quindi, il mio primo tramite con la sismologia internazionale.
Io non ero al Survey per studiare Parkfield. La mia borsa di studio prevedeva l’approfondimento della tomografia sismica dei vulcani, di cui Iyer, John Evans e Phil Dawson erano specialisti. Funziona così: si mettono dei sismometri su un vulcano, si lasciano registrare per alcuni mesi i forti terremoti che avvengono in tutto il mondo (i quali, va detto, ci sono sempre) e i piccoli terremoti locali, se e quando capitano. Lo studio delle onde sismiche registrate dai sismometri, dopo che queste hanno attraversato le viscere del vulcano, permette di identificare la profondità e la quantità del magma presente. Studiammo il vulcano Lassen, in California, e poi con quella esperienza studiai altri vulcani italiani.
Tuttavia Parkfield permeava il building 7 e tutto il Survey. Seminari, discussioni scientifiche accese (non tutti credevano nella “previsione”), rivisitazioni dei vecchi terremoti, idee nuove e tentativi pionieristici di leggere i segnali del terreno. Prima del terremoto di Parkfield, pensavamo tutti, o quasi tutti, che qualcosa si sarebbe dovuto vedere nei dati dei mille strumenti installati grazie allo speciale programma di previsione finanziato dal governo statunitense: uno sciame precursore, una deformazione presismica, un mutamento del terreno, una variazione della concentrazione di un gas. Negli anni sessanta e settanta erano state spesso riportate notizie di fenomeni presismici, la maggior parte dei quali provenienti dalla Cina: deformazioni del suolo, falde acquifere modificate, gas dal terreno, effetti luminosi, animali con strani comportamenti. Il più delle volte erano osservazioni fatte o riportate a posteriori, dopo il terremoto, ma si riteneva possibile, anzi probabile, che dei segnali precursori ci fossero. Se si legge un dizionario scientifico di quegli anni – per esempio in casa mia girava la XXXV edizione del Novissimo Melzi (1964) – alla voce terremoto veniva citata espressamente la «Previsione del --: se il sismo (sic) proviene, come in molti casi, dalla frattura di strati in profondità, è probabile che precedano tensioni elastiche della corteccia, le quali dovrebbero manifestarsi alla superf., ed essere rilevabili con strumenti adatti».
Soprattutto, all’inizio degli anni ottanta era ancora fresca l’esperienza cinese di Haicheng, città da un milione di abitanti che nel 1975 fu evacuata (si diceva) prima di un forte terremoto di magnitudo 7.3. Vari fenomeni avvenuti nei mesi prima del terremoto avevano allarmato la popolazione e spinto le autorità a intervenire. Ci furono “solo” duemila vittime, ma avrebbero potuto essercene centomila secondo le stime, forse un tantino esagerate, del governo cinese.
Qualcosa del genere, anche se su scala molto ridotta, era avvenuta anche a Parkfield: gli ultimi due terremoti, nel 1934 e nel 1966, erano stati preceduti da un foreshock diciassette minuti prima della scossa di magnitudo 6. Quindi, si pensava, se misuriamo, osserviamo e analizziamo tutto l’analizzabile, per anni, certo capiremo cosa accade prima di un terremoto. Installando sismometri, misuratori di sforzo e di deformazione, magnetometri, rilevatori di gas, possiamo registrare giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, quello che accade nell’area intorno alla faglia. Qualunque anomalia verrà rilevata. Ore prima? Giorni, settimane, minuti o secondi? Non importa, qualunque cosa, ma prima. Altrimenti prevedere un terremoto con un’incertezza di anni a cosa serve? Certo non a far dormire i parkfieldiani nei loro pick-up per otto anni. La caccia al “precursore” era ufficialmente aperta anche nel mondo occidentale.
Naturalmente, gli abitanti di Parkfield se ne fregavano del terremoto, vivendo in case basse di legno, strasicure; le uniche accortezze richieste erano fissare le librerie alle pareti e chiudere il gas per evitare incendi. Eppure il terremoto a Parkfield non arrivò nel 1988, e neanche nel 1993, data di chiusura della finestra di previsione. Fu a questo punto che iniziarono le critiche all’intera operazione. Si attese ancora qualche anno e verso la fine degli anni novanta si iniziò a parlare apertamente di fallimento. Le reti di monitoraggio, sostenute dai finanziamenti governativi, cominciavano allora ad accusare l’età. Gli strumenti pensati a metà anni ottanta erano quasi obsoleti, la manutenzione era sempre più difficile e lasciata alla buona volontà dei ricercatori che non volevano dilapidare un patrimonio così faticosamente accumulato. Mettere in piedi una rete multiparametrica come quella costa enormi fatiche, mantenerla per anni con continuità implica dedizione e investimenti. E se poi arrivasse veramente questo terremoto, e gli strumenti si fossero spenti il giorno prima? Potremmo non vedere il microterremoto che anticipa la scossa principale, o la deformazione che accelera nelle ore precedenti, oppure ancora il radon che aumenta o diminuisce. E così, grazie piuttosto alla caparbietà dei sismologi che ai contributi governativi, si riuscì a mantenere in piedi la struttura per un altro decennio, tra alti e bassi nei finanziamenti e nell’atteggiamento dei colleghi, della stampa e della politica.
Roma, sala sismica INGV, 28 settembre 2004, le sette e trenta di sera. Ero ancora al lavoro, stavo cercando di chiudere le ultime cose per tornare a casa a un’ora decente. Essendo in quel periodo il responsabile del Centro Nazionale Terremoti dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) mi capitava spesso di rimanere fino a tardi in istituto. Mi sentii chiamare da Aldo, in turno quella sera nella sala di monitoraggio sismico: i pennini dei sismometri del nord Italia avevano iniziato a muoversi, lentamente, un paio di minuti prima.
Quando arrivai in sala sismica, Aldo e Luciano già discutevano sul possibile epicentro. Dal tipo di onde avevano capito subito che l’epicentro non era in Italia e neanche in Grecia o nei paesi del Mediterraneo. La frequenza delle oscillazioni non lasciava dubbi: era un telesisma, ossia un terremoto lontano almeno duemila chilometri. Niente di sorprendente, comunque. Di terremoti così o più forti la nostra rete ne registra una decina ogni mese, da varie zone del mondo. Nei primi minuti successivi a un terremoto non è mai facile mettere d’accordo due turnisti su un epicentro o una magnitudo. Figuriamoci loro due, un molisano e un maremmano irruenti e testardi.
In caso di terremoti lontani come quello, il più delle volte i primi sismometri italiani a rilevarli sono quelli del nord-est, Trieste e il Friuli, segno che si tratta di uno dei tanti sismi della Cina, del Giappone, dell’Indonesia o della catena himalayana. Ma in quel caso le prime stazioni sismiche ad agitarsi erano state Bardonecchia e le altre delle Alpi occidentali. Aldo e Luciano avevano quindi ristretto la ricerca al nord-ovest, ma litigavano tra l’oceano Atlantico e il Nord America. Nel 2004 non avevamo ancora dei sistemi per la localizzazione rapida dei terremoti in tutto il mondo così come li abbiamo oggi, ciò nonostante la loro grande esperienza li aveva portati nel giro di pochi minuti a individuare la possibile area origine: azimut 300°, distanza diecimila chilometri: gli Stati Uniti, quindi, e la West Coast in particolare.
Ma vuoi vedere che… certo! I sismometri non potevano saperlo e i sismogrammi non lo mostravano, ma quello non era un terremoto qualunque: era il terremoto di Parkfield! Quello che aspettavamo dal 1988. Un po’ in ritardo, certo, ma era indubbiamente lui: magnitudo 6, epicentro a dieci chilometri dal “campo del parco”, profondità dell’ipocentro otto chilometri. Gli aftershocks delle ore successive fecero capire che si era mossa proprio quella sezione della faglia che si stava monitorando da vent’anni. L’unica sorpresa fu la direzione della rottura della faglia. Quando se ne sblocca una, i due lembi a destra e a sinistra scorrono uno rispetto all’altro, muovendosi di circa un metro nel caso di un terremoto di quella magnitudo. Lo spostamento tuttavia non è contemporaneo lungo tutta la faglia. La rottura inizia in un punto, spesso una delle estremità, e si propaga verso l’altro con una velocità impressionante: circa diecimila chilometri all’ora, otto volte la velocità del suono e undici volte quella di un aereo di linea. Nel caso di Parkfield, la rottura della faglia durante il terremoto del 1966, e forse anche nei precedenti, era avvenuta da nord a sud, mentre nel 2004 avvenne in direzione opposta, da sud a nord. Per il resto, il terremoto del 2004 fu un gemello dei precedenti.
In un solo giorno si stabilirono due fatti importantissimi per la sismologia: in primo luogo, il modello del terremoto “caratteristico” in qualche caso funziona. In altre parole i terremoti tendono, almeno in alcuni casi, a ripetersi con le stesse caratteristiche negli stessi luoghi e quindi sono in qualche modo prevedibili. Numero due, nessun fenomeno precursore fu rilevato prima del terremoto, niente foreshock né sciami precursori, nessuna deformazione misurabile o anomalia magnetica; quanto alle tempistiche, be’, fanno un po’ come gli pare. I terremoti, dunque, sono imprevedibi...

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