Capitolo 1
Parkfield: be here when it happens
California, 1988. Ă qui il centro della storia, a metĂ strada tra lâepoca dâoro della previsione dei terremoti, gli anni sessanta in Cina, e i giorni nostri in Italia, dove dopo ogni scossa se ne discute, in tv e nei tribunali. Dopo ventâanni di previsioni da parte di cinesi e russi, per la maggior parte un poâ naĂŻf e quasi tutte sbagliate, ora anche qui, nella pragmatica e moderna California, ne aspettiamo uno. I sismologi dellâUSGS (United States Geological Survey) lo hanno previsto.
Lâepicentro del futuro sisma Ăš una cittadina che diventerĂ un simbolo della previsione dei terremoti e ha un nome tipico da quelle parti, che Ăš tutto un programma: Parkfield, il âcampo del parcoâ, una cittadina di una ventina di abitanti in mezzo al nulla, una serie di casupole di legno a un piano allineate lungo una main street. Il nome stesso tradisce la sua breve storia, gli edifici bassi e sismicamente sicuri. Vuoi mettere con Castensantangelo sul Nera, Montefalcone di Val Fortore o SantâEgidio alla Vibrata? Nomi che celano storie secolari di castelli, santi, eroi, guerre, terremoti, ricostruzioni e abbandoni, nonchĂ© case antiche e fragili, che di antisismico al massimo hanno sullo spigolo unâeffigie di SantâEmidio, il santo âprotettoreâ dai terremoti.
Parkfield si trova a metĂ strada lâEuropa e lâAsia, culle millenarie delle scienze naturali, tra la Grecia di Aristotele, che nel quarto secolo a.C. ipotizzava fossero i venti sotterranei la causa dei terremoti, e la Cina di Zhang Heng, filosofo, astronomo e anche un poâ sismologo, che nel secondo secolo d.C. inventĂČ il primo strumento per rilevarli. Era lâinizio della lunga storia della scienza dei terremoti. Come per tutti i campi della scienza, si tratta di una storia fatta di idee, teorie, scoperte, innovazioni, calcoli, modelli, fallimenti, ma anche divinitĂ e catastrofismi. Soprattutto, Ăš una storia di scienziati, studiosi, inventori, religiosi, impostori e ciarlatani.
Tra gli appartenenti alla prima categoria un posto speciale lo meritano i ricercatori dellâUSGS di Menlo Park, in California, che a metĂ degli anni ottanta decisero di lanciare il loro esperimento di previsione. Sulla base dello studio minuzioso dei terremoti del passato, William H. Bakun e Allan G. Lindh avevano scoperto che una determinata faglia si rompeva con una certa regolaritĂ : terremoti di magnitudo 6 erano avvenuti allâincirca ogni ventidue anni: nel 1857, 1881, 1901, 1922, 1934 e 1966. Era la âsezione di Parkfieldâ, un pezzo di quaranta chilometri della faglia di San Andreas1. Questo segmento Ăš limitato a nord dalla cosiddetta creeping section, un tratto di centocinquanta chilometri della stessa faglia di San Andreas che di fatto scivola continuamente senza riuscire ad accumulare lâenergia necessaria per scatenare un forte terremoto. A sud della sezione di Parkfield, invece, câĂš un lungo settore di faglia che si sta âcaricandoâ da oltre un secolo, dopo lâultimo grande terremoto che lâha fatto muovere, quello di Fort Tejon del 1857 (magnitudo 7.9). Da allora, le due placche si sono spostate di almeno cinque metri, mentre la faglia Ăš rimasta bloccata: forse câĂš giĂ il potenziale per un altro forte terremoto come quello del 1857 e potrebbe essere il famoso Big One.
Lâultimo terremoto a Parkfield era avvenuto nel 1966, perciĂČ il prossimo era atteso da un momento allâaltro, nel 1988. Questa ricorrenza incoraggiava le speranze di molti ricercatori: i terremoti sono periodici, come la vendemmia o il plenilunio. Solo piĂč rari, forse un poâ piĂč complicati, ma periodici e quindi in qualche modo prevedibili, si pensava.
A rivederla ora, lâipotesi di Bakun e Lindh fa un poâ sorridere per la sua semplicitĂ , ma quella era lâepoca delle previsioni possibili. Unâimportante ricerca dei geologi David P. Schwartz e Kevin J. Coppersmith, pubblicata nel 1984, aveva evidenziato, attraverso le analisi paleosismologiche2, che alcuni segmenti della faglia di San Andreas in California e della faglia di Wasatch nello Utah si comportavano in modo âcaratteristicoâ. Avevano cioĂš la tendenza a rompersi con le stesse modalitĂ (dimensioni della faglia e quindi magnitudo) a intervalli di tempo regolari. O meglio: relativamente regolari, perchĂ©, come per tutti i fenomeni geologici, le ricorrenze, quando ci sono, sono dellâordine dei secoli o dei millenni, a fronte di processi che durano milioni di anni. La regolaritĂ va quindi vista come unâindicazione di massima, un poâ come quando si dice che in un certo posto la piovositĂ Ăš di 500 mm/anno: nel lungo termine Ăš vero, tuttavia le oscillazioni tra un anno e lâaltro e allâinterno di uno stesso anno sono affette da unâincertezza che puĂČ superare la metĂ del valore medio. Come a dire che se un terremoto avviene su una determinata faglia ogni mille anni (che Ăš lâordine di grandezza dei tempi di ripetizione delle faglie in Italia) questo valore puĂČ risultare essere di cinquecento o duemila anni, e non deve stupire. Questo Ăš il motivo principale per cui i sismologi non sono oggi in grado di prevedere i terremoti entro delle finestre temporali fatte di ore o giorni. Va detto che anche Bakun e Lindh considerarono unâincertezza abbastanza ampia nella loro stima: sei anni. Secondo il loro modello, il terremoto sarebbe potuto avvenire tra il 1988 e il 1993, in quanto i precedenti terremoti erano avvenuti a intervalli non proprio regolari, compresi tra i dodici e i trentadue anni.
«Be here when it happens» riportavano i cartelli turistici intorno a Parkfield alla fine degli anni ottanta. Da noi un consiglio scherzoso come quello avrebbe fatto partire denunce per procurato allarme, avrebbe scatenato lâindignazione delle autoritĂ locali e della stampa per avere rovinato la stagione turistica e fatto calare i prezzi delle case, e probabilmente una trasmissione pseudoscientifica a effetto ne avrebbe annunciato la distruzione totale nelle successive ventiquattrâore. Qui invece la si prende con filosofia, interesse e serenitĂ , cercando anche di sfruttare lâoccasione per attirare i turisti del terremoto. Il Parkfield CafĂ© proponeva difatti alcuni menu tematici: dal Big One, un bisteccone da mezzo chilo, alla piĂč modesta Magnitudo-6 (solo 340 grammi di carne), per concludere con una sequenza di Aftershocks come dessert. Câera la consapevolezza di vivere in un posto dove stava per arrivare un forte terremoto, sĂŹ, ma anche della sicurezza dellâedificio del Parkfield CafĂ© e delle case lĂŹ intorno: i clienti venivano orgogliosamente invitati a sedersi allâinterno per mangiare e godersi il terremoto a pancia piena. «If you feel a shake or a quake, get under your table and eat your steak». Come annotava un giornale locale in un articolo dal titolo Standing on Shaky Ground and Proud to Be There, cioĂš âVivere in una zona sismica e orgogliosi di esserciâ, per la gente che vive qui la paura del terremoto fa registrare una magnitudo prossima allo zero. In quegli anni gli occhi di tutti gli scienziati della Terra erano puntati su questo luogo. E in questo luogo câero anchâio.
Faglie e orologi
Quando una faglia si muove con un forte terremoto, anche le condizioni delle faglie circostanti vengono modificate. Una faglia puĂČ essere âcaricataâ o âscaricataâ dal movimento del terremoto precedente, secondo la sua posizione e le sue caratteristiche. Non solo. Si Ăš visto in molti terremoti recenti che la crosta terrestre Ăš fratturata e piena di fluidi in pressione, principalmente acqua e anidride carbonica. Questi fluidi possono muoversi da una faglia allâaltra, alterandone la resistenza. La capacitĂ che ha una faglia di resistere alle spinte geologiche deriva dalla resistenza allâattrito delle rocce che ne compongono il cuore (quello che in inglese si chiama il fault gauge). Se pompassimo dellâacqua a pressione in questa gauge ne diminuiremmo la resistenza, come per i cuscinetti a sfera che servono ad agevolare il movimento di due parti meccaniche diminuendo lâattrito tra esse. La stessa cosa accade dopo un forte terremoto, forse anche prima: la crosta si deforma, si dilata e i fluidi migrano da una parte allâaltra, andando a infiltrare nuove faglie. Se una di queste Ăš in uno stato critico (se cioĂš ha accumulato deformazione per molto tempo senza rilasciarla con terremoti) la pressione dei fluidi dentro la faglia potrebbe farla scattare, con un terremoto. Si parla di clock advance quando la perturbazione di stress o quella dovuta allâimmissione del fluido fa scattare la faglia prima del tempo. La carica allâorologio la forniscono le spinte geologiche, continue e lente.
Quando a giugno del 1988, con la mia borsa di studio misi piede a Menlo Park, il cuore pulsante del formidabile USGS, mi persi per i corridoi del building 7, quello della sismologia. A dire il vero ne rimasi un poâ deluso perchĂ© erano come i nostri: stretti, lunghi e senza finestre. Mi feci tuttavia piccolo piccolo quando iniziai a sbirciare le targhette accanto alle porte degli uffici. Camminavo con passo incerto, rallentando quando riconoscevo i nomi che mi sfilavano davanti, ognuno di loro firma di pagine fondamentali della sismologia. Li leggevo e rileggevo, ammirato e intimorito, cercando di ricordare quali pagine avessero scritto. Era come camminare nel museo del Louvre: la Gioconda e la Venere di Milo avevano i volti di David M. Boore, Bill Joyner, Thomas C. Hanks, Mary Lou Zoback, Jack Boatwright, Paul A. Spudich, Bernard Chouet, Donna Eberhart-Phillips, Dave Oppenheimer. Naturalmente câerano anche loro, William âBillâ Bakun e Allan âAlâ Lindh, i âprevisoriâ, accanto a Paul Segall, Tom Borcherdt, e tanti altri. Non signori anziani e con la barba bianca, neanche tronfi professoroni indaffarati con scartoffie e segretarie, ma quarantenni in camicia a quadri e infradito. Approdato al primo piano, che risultava essere, con mio iniziale sconcerto, il secondo, incontrai il mio futuro tutor: un indiano del Sud, nero, piccolo e tondo, con piglio deciso e polo celeste aderente a fasciare un addome importante, soprattutto in un uomo da un metro e cinquanta (scarsi). Avrei scoperto dopo che Hariharaiyer Mahadeva Iyer, a capo di un gruppetto di quattro persone, oltre a essere un ottimo scienziato era uno dei maggiori consumatori di peperoncini del pianeta. Dove noi comuni mortali ci arrischiavamo a infilare la punta del coltello per poi passarla incerti in un piatto pieno di pollo e verdure, Iyer attingeva a piene mani fino a far diventare rossa e immangiabile qualunque pietanza. Immangiabile per noi comuni mortali, non per lui.
Fu Iyer a presentarmi Tim Hitchkock, singolare personaggio dellâUSGS, grande viaggiatore amante dellâIndia e dellâEuropa, che mi lasciĂČ per due mesi il suo incredibile ufficio. A differenza degli altri uffici del Survey, il suo era caldo e accogliente: tappeti orientali alle pareti, lampade psichedeliche, ritratti di divinitĂ varie, foto di viaggi con un giovane Tim, basettoni, occhialoni tondi e camicie hippy, apparentemente votato alla cannabis piĂč che alla sismologia. La sua stanza aveva unâaltra singolaritĂ : vi si produceva il miglior caffĂš dellâintero USGS, ed era perciĂČ meta continua di scienziati, tecnici e giovani studenti. Fu il caffĂš, quindi, il mio primo tramite con la sismologia internazionale.
Io non ero al Survey per studiare Parkfield. La mia borsa di studio prevedeva lâapprofondimento della tomografia sismica dei vulcani, di cui Iyer, John Evans e Phil Dawson erano specialisti. Funziona cosĂŹ: si mettono dei sismometri su un vulcano, si lasciano registrare per alcuni mesi i forti terremoti che avvengono in tutto il mondo (i quali, va detto, ci sono sempre) e i piccoli terremoti locali, se e quando capitano. Lo studio delle onde sismiche registrate dai sismometri, dopo che queste hanno attraversato le viscere del vulcano, permette di identificare la profonditĂ e la quantitĂ del magma presente. Studiammo il vulcano Lassen, in California, e poi con quella esperienza studiai altri vulcani italiani.
Tuttavia Parkfield permeava il building 7 e tutto il Survey. Seminari, discussioni scientifiche accese (non tutti credevano nella âprevisioneâ), rivisitazioni dei vecchi terremoti, idee nuove e tentativi pionieristici di leggere i segnali del terreno. Prima del terremoto di Parkfield, pensavamo tutti, o quasi tutti, che qualcosa si sarebbe dovuto vedere nei dati dei mille strumenti installati grazie allo speciale programma di previsione finanziato dal governo statunitense: uno sciame precursore, una deformazione presismica, un mutamento del terreno, una variazione della concentrazione di un gas. Negli anni sessanta e settanta erano state spesso riportate notizie di fenomeni presismici, la maggior parte dei quali provenienti dalla Cina: deformazioni del suolo, falde acquifere modificate, gas dal terreno, effetti luminosi, animali con strani comportamenti. Il piĂč delle volte erano osservazioni fatte o riportate a posteriori, dopo il terremoto, ma si riteneva possibile, anzi probabile, che dei segnali precursori ci fossero. Se si legge un dizionario scientifico di quegli anni â per esempio in casa mia girava la XXXV edizione del Novissimo Melzi (1964) â alla voce terremoto veniva citata espressamente la «Previsione del --: se il sismo (sic) proviene, come in molti casi, dalla frattura di strati in profonditĂ , Ăš probabile che precedano tensioni elastiche della corteccia, le quali dovrebbero manifestarsi alla superf., ed essere rilevabili con strumenti adatti».
Soprattutto, allâinizio degli anni ottanta era ancora fresca lâesperienza cinese di Haicheng, cittĂ da un milione di abitanti che nel 1975 fu evacuata (si diceva) prima di un forte terremoto di magnitudo 7.3. Vari fenomeni avvenuti nei mesi prima del terremoto avevano allarmato la popolazione e spinto le autoritĂ a intervenire. Ci furono âsoloâ duemila vittime, ma avrebbero potuto essercene centomila secondo le stime, forse un tantino esagerate, del governo cinese.
Qualcosa del genere, anche se su scala molto ridotta, era avvenuta anche a Parkfield: gli ultimi due terremoti, nel 1934 e nel 1966, erano stati preceduti da un foreshock diciassette minuti prima della scossa di magnitudo 6. Quindi, si pensava, se misuriamo, osserviamo e analizziamo tutto lâanalizzabile, per anni, certo capiremo cosa accade prima di un terremoto. Installando sismometri, misuratori di sforzo e di deformazione, magnetometri, rilevatori di gas, possiamo registrare giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, quello che accade nellâarea intorno alla faglia. Qualunque anomalia verrĂ rilevata. Ore prima? Giorni, settimane, minuti o secondi? Non importa, qualunque cosa, ma prima. Altrimenti prevedere un terremoto con unâincertezza di anni a cosa serve? Certo non a far dormire i parkfieldiani nei loro pick-up per otto anni. La caccia al âprecursoreâ era ufficialmente aperta anche nel mondo occidentale.
Naturalmente, gli abitanti di Parkfield se ne fregavano del terremoto, vivendo in case basse di legno, strasicure; le uniche accortezze richieste erano fissare le librerie alle pareti e chiudere il gas per evitare incendi. Eppure il terremoto a Parkfield non arrivĂČ nel 1988, e neanche nel 1993, data di chiusura della finestra di previsione. Fu a questo punto che iniziarono le critiche allâintera operazione. Si attese ancora qualche anno e verso la fine degli anni novanta si iniziĂČ a parlare apertamente di fallimento. Le reti di monitoraggio, sostenute dai finanziamenti governativi, cominciavano allora ad accusare lâetĂ . Gli strumenti pensati a metĂ anni ottanta erano quasi obsoleti, la manutenzione era sempre piĂč difficile e lasciata alla buona volontĂ dei ricercatori che non volevano dilapidare un patrimonio cosĂŹ faticosamente accumulato. Mettere in piedi una rete multiparametrica come quella costa enormi fatiche, mantenerla per anni con continuitĂ implica dedizione e investimenti. E se poi arrivasse veramente questo terremoto, e gli strumenti si fossero spenti il giorno prima? Potremmo non vedere il microterremoto che anticipa la scossa principale, o la deformazione che accelera nelle ore precedenti, oppure ancora il radon che aumenta o diminuisce. E cosĂŹ, grazie piuttosto alla caparbietĂ dei sismologi che ai contributi governativi, si riuscĂŹ a mantenere in piedi la struttura per un altro decennio, tra alti e bassi nei finanziamenti e nellâatteggiamento dei colleghi, della stampa e della politica.
Roma, sala sismica INGV, 28 settembre 2004, le sette e trenta di sera. Ero ancora al lavoro, stavo cercando di chiudere le ultime cose per tornare a casa a unâora decente. Essendo in quel periodo il responsabile del Centro Nazionale Terremoti dellâINGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) mi capitava spesso di rimanere fino a tardi in istituto. Mi sentii chiamare da Aldo, in turno quella sera nella sala di monitoraggio sismico: i pennini dei sismometri del nord Italia avevano iniziato a muoversi, lentamente, un paio di minuti prima.
Quando arrivai in sala sismica, Aldo e Luciano giĂ discutevano sul possibile epicentro. Dal tipo di onde avevano capito subito che lâepicentro non era in Italia e neanche in Grecia o nei paesi del Mediterraneo. La frequenza delle oscillazioni non lasciava dubbi: era un telesisma, ossia un terremoto lontano almeno duemila chilometri. Niente di sorprendente, comunque. Di terremoti cosĂŹ o piĂč forti la nostra rete ne registra una decina ogni mese, da varie zone del mondo. Nei primi minuti successivi a un terremoto non Ăš mai facile mettere dâaccordo due turnisti su un epicentro o una magnitudo. Figuriamoci loro due, un molisano e un maremmano irruenti e testardi.
In caso di terremoti lontani come quello, il piĂč delle volte i primi sismometri italiani a rilevarli sono quelli del nord-est, Trieste e il Friuli, segno che si tratta di uno dei tanti sismi della Cina, del Giappone, dellâIndonesia o della catena himalayana. Ma in quel caso le prime stazioni sismiche ad agitarsi erano state Bardonecchia e le altre delle Alpi occidentali. Aldo e Luciano avevano quindi ristretto la ricerca al nord-ovest, ma litigavano tra lâoceano Atlantico e il Nord America. Nel 2004 non avevamo ancora dei sistemi per la localizzazione rapida dei terremoti in tutto il mondo cosĂŹ come li abbiamo oggi, ciĂČ nonostante la loro grande esperienza li aveva portati nel giro di pochi minuti a individuare la possibile area origine: azimut 300°, distanza diecimila chilometri: gli Stati Uniti, quindi, e la West Coast in particolare.
Ma vuoi vedere che⊠certo! I sismometri non potevano saperlo e i sismogrammi non lo mostravano, ma quello non era un terremoto qualunque: era il terremoto di Parkfield! Quello che aspettavamo dal 1988. Un poâ in ritardo, certo, ma era indubbiamente lui: magnitudo 6, epicentro a dieci chilometri dal âcampo del parcoâ, profonditĂ dellâipocentro otto chilometri. Gli aftershocks delle ore successive fecero capire che si era mossa proprio quella sezione della faglia che si stava monitorando da ventâanni. Lâunica sorpresa fu la direzione della rottura della faglia. Quando se ne sblocca una, i due lembi a destra e a sinistra scorrono uno rispetto allâaltro, muovendosi di circa un metro nel caso di un terremoto di quella magnitudo. Lo spostamento tuttavia non Ăš contemporaneo lungo tutta la faglia. La rottura inizia in un punto, spesso una delle estremitĂ , e si propaga verso lâaltro con una velocitĂ impressionante: circa diecimila chilometri allâora, otto volte la velocitĂ del suono e undici volte quella di un aereo di linea. Nel caso di Parkfield, la rottura della faglia durante il terremoto del 1966, e forse anche nei precedenti, era avvenuta da nord a sud, mentre nel 2004 avvenne in direzione opposta, da sud a nord. Per il resto, il terremoto del 2004 fu un gemello dei precedenti.
In un solo giorno si stabilirono due fatti importantissimi per la sismologia: in primo luogo, il modello del terremoto âcaratteristicoâ in qualche caso funziona. In altre parole i terremoti tendono, almeno in alcuni casi, a ripetersi con le stesse caratteristiche negli stessi luoghi e quindi sono in qualche modo prevedibili. Numero due, nessun fenomeno precursore fu rilevato prima del terremoto, niente foreshock nĂ© sciami precursori, nessuna deformazione misurabile o anomalia magnetica; quanto alle tempistiche, beâ, fanno un poâ come gli pare. I terremoti, dunque, sono imprevedibi...