Onlife Fashion
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Onlife Fashion

10 regole per un mondo senza regole

Philip Kotler, Riccardo Pozzoli, Giuseppe Stigliano

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10 regole per un mondo senza regole

Philip Kotler, Riccardo Pozzoli, Giuseppe Stigliano

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In un'epoca contraddistinta da repentini e profondi cambiamenti, anche il mondo della moda ha vissuto grandi trasformazioni. I suoi confini, le sue logiche e i suoi protagonisti sono stati ridefiniti, continuano a esserlo e lo saranno nei prossimi anni. Onlife Fashion offre a imprenditori, professionisti, operatori del settore, consulenti e studenti un quadro interpretativo per comprenderne lo stato dell'arte e governarne le evoluzioni. Nella prima parte gli autori analizzano le forze che hanno contraddistinto le profonde trasformazioni vissute dall'industria del fashion e che sono state ulteriormente accelerate dalla pandemia in corso. La seconda parte descrive i dieci principi guida su cui costruire o ricostruire i modelli di business delle aziende di moda, mentre nell'ultima sezione sono riportate le interviste con gli amministratori delegati delle principali imprese del settore. Un libro prezioso, che analizza il mercato della moda focalizzandosi sul segmento "high-end" e dedica uno spazio ad hoc alla strategia di business di alcuni dei principali brand mondiali.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2021
ISBN
9788820398828

LE 10 REGOLE

1/ Be Inclusive
2/ Be a Symphony
3/ Be a Vibration
4/ Be Timeless
5/ Be Inspired
6/ Be Relational
7/ Be Purposeful
8/ Be a Service
9/ Be Collaborative
10/ Be Antifragile

BE INCLUSIVE

In una società profondamente diversa da quella del lusso delle origini, più aperta e votata all’inclusione, l’elitarismo tipicamente associato ai brand dell’high-end rischia di essere fuori contesto.
Proprio per questo, Be Inclusive significa bilanciare l’esclusività dei prodotti con l’inclusività della propria cultura, per non perdere la propria autenticità, alimentare la componente di sogno ma, al contempo, rendere la marca culturalmente più accessibile.
L’high-end fashion ha attraversato diverse fasi di sviluppo che hanno visto la modifica della sua grammatica, in termini di attori, tipologie di prodotto, modalità commerciali ecc.
Quella che possiamo definire prima fase del fashion risale alla fine del XIX secolo. In quegli anni, il tempo e la manualità dell’artigiano come garanzia di qualità e prestigio vengono progressivamente posti in secondo piano dall’estro creativo e dal genio dei primi couturier, a partire da Charles Worth. Questi personaggi, che confezionavano capi su misura per gli esponenti di rilievo dell’epoca, si consideravano e venivano considerati artisti a tutti gli effetti. Originariamente, dunque, l’high-end coincideva con la definizione più rigorosa di lusso e non necessitava di sovrastrutture commerciali quali i brand: erano i soli nomi degli stilisti a rendere esclusivi i prodotti da loro confezionati.
Il successivo momento di discontinuità che è opportuno segnalare coincide con l’avvento del Novecento. In questo periodo, l’alta borghesia crea la domanda per capi d’abbigliamento di pregio e alta qualità che non scaturissero, però, dall’inaccessibile haute couture. Ecco dunque che, tra gli anni ’20 con Sonia Delaunay e il 1966 con l’apertura di Rive Gauche e la prima collezione ready-to-wear firmata da Yves Saint Laurent, viene concepito e vede la luce il concetto di prêt-à-porter.
In questo nuovo scenario, caratterizzato da una richiesta differente rispetto al passato, si configura la seconda fase del fashion. Qui gli stilisti, ora più che mai consapevoli che il valore delle loro opere non risiedeva tanto nell’unicità del prodotto in sé quanto nella loro firma, colgono l’opportunità di trasferire tale prestigio a un prodotto confezionato in modo seriale. Ciò porta alla nascita delle prime maison. Nonostante la standardizzazione che questa filosofia aveva adottato, acquistare un capo ready-to-wear di queste griffe non significava comprare un semplice prodotto, bensì un’identità: quella dello stilista, fatta di un insieme di valori e intersecata con la cultura del momento.
Per l’avvento della terza fase, invece, occorrerà aspettare il superamento del boom economico, periodo caratterizzato dalla diffusione di standard estetici più democratici (come i jeans) e dalla nascita delle marche industriali di qualità. In questo periodo, la strategia di business delle maison, che avevano già abbandonato la scarsità oggettiva come tratto distintivo nel passaggio da haute-couture a prêt-à-porter, subisce infatti un ulteriore cambiamento con la creazione delle cosiddette diffusion line. Attraverso questo espediente, i player dell’high-end provano a segmentare non solo la propria offerta, ma persino il proprio brand, creando linee ad hoc per soddisfare le diverse esigenze di differenti fette di mercato, sempre più vicine al mass-market. I primi passi di questa fase sono stati mossi già alla fine degli anni ’80, ma è soprattutto a cavallo tra gli anni ’90 e il primo decennio del 2000 che se ne vedono i maggiori sviluppi. Ne sono un esempio Versace con Versus o Roberto Cavalli con Just Cavalli. Il vero pioniere di questa strategia, però, è stato Giorgio Armani, con la creazione di Armani Jeans, Emporio Armani e Armani Exchange. Le diffusion line soddisfacevano una necessità di distribuzione. E avevano senso di esistere soprattutto nel periodo pre-digitale, quando il business della moda era prettamente wholesale.
Il passaggio a un’ottica retail ha cambiato nuovamente le carte in tavola. Da quel momento, le diffusion line si sono rivelate in molti casi inefficaci in una prospettiva di lungo periodo: aumentavano il fatturato sull’anno, ma sfociavano nella cannibalizzazione e, soprattutto, finivano con il diluire il valore e la percezione del brand. Per un consumatore medio e definito “escursionista del lusso” (Dubois e Laurent) entrare in contatto con le diffusion line significava prendere come riferimento il prezzo di questi prodotti e non essere più disposto a considerare un altro capo afferente alla linea di punta a un prezzo maggiore. Ciò ha portato, anni dopo, numerosi brand a rivedere il loro portafoglio per limitare la confusione e preservare il loro appeal.
Il brand, infatti, è il più grande difensore del differenziale di prezzo nell’industria del fashion. Non è vero però il contrario: non si può pensare di alzare indiscriminatamente il prezzo di un prodotto con l’obiettivo unico di costruire un determinato immaginario di marca. Per capire questa dinamica si può utilizzare il settore del vino come termine di paragone. Qualsiasi vino eccellente non può fingere di essere un vino di lusso. Il suo prezzo non può essere giustificato solo dalla funzione o dalle caratteristiche. A determinare il valore è la sua singolarità, costruita da elementi immateriali come il retaggio, la storia, il Paese d’origine, il luogo di produzione. I brand che mancano di queste componenti rimangono confinati nell’ambito della comparabilità. Anche i vini molto buoni non possono quindi paragonarsi ai vari Ruinart o Château Pape Clément, perché mancano di una dimensione sacra.
Ritornando ai brand dell’high-end, nessuno pone in discussione i prezzi o li giustifica, perché si avvicinano alla dimensione dell’arte. Affinché questo possa essere costruito occorrono tempo e visione. Il fascino e il mistero delle origini sono una pietra miliare per gran parte dei brand di questo segmento. Non è un caso che molte maison abbiano nomi propri, nomi dei fondatori, nomi di famiglie: essi sono il codice che antecede tutti gli altri codici della marca. Le marche dell’high-end fashion che rimangono fedeli alla loro heritage offrono alle persone una ragione speciale per cui instaurare una relazione con loro. Non essendo qualcosa di necessario, l’acquisto di questi capi è mosso anche e soprattutto da motivazioni profonde e valoriali.
Sogno e tradizione segmentano i brand all’interno del mercato. Per la costruzione di una marca dell’high-end c’è bisogno di creare una mitologia e un culto di seguaci, molto simili a quelli di una religione. I clienti dell’alta moda sono i più attenti e sofisticati, in quanto acquistano simboli e codici. Ecco perché lo storytelling è la leva più importante per l’equity di un brand. Lo hanno compreso anche quelle aziende che non fanno parte del segmento ma aspirano a esserne considerate parte: se il fast fashion deve il suo successo alla distribuzione e ai prezzi accessibili alla massa e l’high-end risulta inarrivabile in termini di qualità e prestigio, i brand premium si concentrano in importanti attività di comunicazione per sostenere continuamente l’immaginario e i margini superiori ai prodotti del mass-market.
L’elitarismo, come dimostrato dall’haute couture, era alla base del lusso, anche per i suoi prezzi elevati. In passato, la sua evoluzione era il risultato della continua lotta tra le élite che cercavano di imporre i propri gusti, reputati migliori di quelli degli altri, come accuratamente teorizzato da diversi sociologi dei consumi, Veblen in primis. Fin dalla sua nascita, il lusso ha prosperato grazie all’esclusività. L’industria dell’alta moda è stata costruita intorno al concetto che vogliamo sempre ciò che non possiamo avere. E, in linea con la tattica commerciale della scarsità strategica, i mondi dei marchi creati intorno a queste aziende sfruttavano codici radicati di esclusività culturale: pubblicità che mostravano solo una certa demografia privilegiata, una presentazione del prodotto che scoraggiava l’interazione, e assistenti alla vendita dai comportamenti volutamente deferiti e distaccati.

I CLIENTI DELL’ALTA MODA SONO I PIÙ ATTENTI E SOFISTICATI, IN QUANTO ACQUISTANO SIMBOLI E CODICI. ECCO PERCHÉ LO STORYTELLING È LA LEVA PIÙ IMPORTANTE PER L’EQUITY DI UN BRAND.

I brand dell’high-end fashion, però, hanno dovuto far fronte a un cambiamento culturale: l’esclusività ha smesso di essere un valore. Almeno per i centennial. Come riportato da un report della società di ricerca Kantar e supportato da numerosi studi e documentazioni, le generazioni più giovani di consumatori sembrano non apprezzare in modo così convinto i convenzionali codici di esclusività. L’elitarismo per come è sempre stato concepito, infatti, contrasta con valori profondi nei quali questo gruppo si rispecchia. La Generazione Z si dimostra più aperta e inclusiva rispetto a quelle che l’hanno preceduta. I marchi di maggior successo presso i giovani hanno abbracciato questo senso di inclusività e hanno trasformato un valore “giusto” in un attributo “cool”. È facile intuire come questo cambiamento di percezione possa destabilizzare i player del lusso. Tuttavia, questa non è una tendenza, bensì un cambiamento culturale fondamentale in ciò che spinge il desiderio dei consumatori. E nemmeno le maison si possono sottrarre a tali mutamenti. Già ripercorrendo le tre fasi descritte prima, è possibile constatare un cambiamento nel modo di individuare e percepire qualcosa come “esclusivo”. Inizialmente, infatti, l’esclusività aveva un significato economico e di classe, mentre nella seconda fase la segmentazione sociale ha lasciato spazio alla capacità di riconoscere un marchio, quindi a un tema di conoscenza. Il vero cambio di paradigma, però, è avvenuto successivamente, quando nella terza fase ha iniziato a perdere rilevanza il fattore economico (grazie anche alle diffusion line). Posti davanti alla sfida di riconsolidare un’equity il più delle volte diluita e allo stesso tempo di alimentare il “sogno della crescita” garantendo una distribuzione elevata, i player dell’high-end devono oggi comprendere la necessità di rivedere nuovamente il significato attribuito all’esclusività e integrare il suo opposto, l’inclusività, all’interno del proprio modo di pensare e agire.
Tale mutamento non ha significato lo scivolamento di queste marche dalla cima della piramide a dinamiche tipiche di un mercato di massa, come successo con le diffusion line, ma ha imposto loro di adottare una nuova strategia basata sul bilanciamento tra esclusività delle icone, accessibilità dei prodotti entry-level e inclusività della cultura di marca. I brand dell’high-end ricorrono oggi all’estensione dell’offerta per rendersi più accessibili. Questa pratica è corretta e positiva per la marca se permette di allargare la conoscenza e garantire penetrazione a un numero ristretto, limitato e secondario di prodotti. In questo caso si ottiene una massimizzazione del Customer Lifetime Value nel tempo, perché un acquirente domani potrebbe spingersi a comprare un prodotto di punta del brand che prima non poteva permettersi.
L’effetto collaterale può essere però quello di rendere accessibili prodotti che, a un prezzo inferiore, ambiscono alla stessa funzione sociale di quelli dell’alto di gamma. In questo caso il brand offre la possibilità ai consumatori di fare un trade-down, intaccando allo stesso tempo sia il CLV sia la sua equity.
Nei Paesi maturi, caratterizzati dalla saturazione del mercato, la strategia descritta è ciò che ha determinato gran parte della crescita del segmento. Il cosiddetto fenomeno dell’accessorizzazione del lusso è esemplificativo: non tutti possono acquistare un abito su misura di una prestigiosa maison, ma milioni di persone possono indossare i suoi occhiali da sole o acquistarne il profumo. E il suo successo è indiscusso: si prenda in esempio Chanel e la sua linea beauty dal valore pari al 60% delle entrate totali. Lo stesso vale per un brand come Givenchy, il cui prodotto più venduto nel 2017 è stato un rossetto. Questi due approcci fanno riferimento a due strategie di marketing differenti: brand extension e brand stretching. La prima riguarda l’espansione della marca verso categorie merceologiche affini al core business o interne a esso; la seconda, invece, l’esplorazione di settori lontani rispetto all’area di competenza originale del brand.
Quanto detto però non basta: per evitare gli effetti collaterali e preservare l’aspirazionalità creando, al contempo, una cultura di marca inclusiva, la maggioranza dei brand dell’high-end ricorre a un’altra strategia di segmentazione, ovvero alzare progressivamente i prezzi delle proprie icone. Al fine di spiegare al meglio questo concetto è opportuno introdurre un altro tema, quello dell’archetipo che caratterizza il segmento di cui stiamo trattando. All’interno di Marketing 4.0 esso è stato definito Trumpet model (lo vediamo riassunto nella figura a p. 70). Il carattere distintivo di questo modello risiede nel livello elevato di affinità: le persone tendono a fidarsi della qualità di certi brand, quindi sono disposte a consigliarli ad altri anche se non li comprano e non li usano in prima persona. In questi casi, il numero di sostenitori è più alto del numero di acquirenti effettivi: l’Advocacy supera dunque l’atto di acquisto. In una categoria a tromba, i clienti sono profondamente coinvolti. Tuttavia, il processo di valutazione che seguono è relativamente semplice, perché la maggior parte dei brand ha già sviluppato una specifica reputazione di qualità, costruita nel lungo periodo attraverso il passaparola. Le persone che si sentono attratte da certi brand, come abbiamo anticipato, tendono a raccogliersi in comunità. L’esistenza di esse influenza spesso i potenziali acquirenti spingendoli a informarsi meglio sulla qualità dei prodotti. A causa dei prezzi elevati, ci sono ammiratori che aspirano ad acquistare questi brand ma non possono permetterseli. Costoro, tuttavia, sono comunque ben lieti di raccomandarli ad altre persone, perché sposano e condividono i valori della marca e il mondo possibile che rappresenta. E anche se in seguito potranno permetterseli, non è detto che riescano a procurarseli: la maggior parte dei brand afferenti a questo archetipo è, infatti, di nicchia. Poiché la scarsità incrementa l’attrattiva dei brand agli occhi dei potenziali acquirenti, chi li guida non dovrebbe impegnarsi nell’espandere oltremodo la disponibilità dei prodotti.

LA SCARSITÀ, UNA VOLTA (UNICA) SOURCE OF BUSINESS DELL’HIGH-END, ORA È UTILIZZATA SAPIENTEMENTE COME LEVA DI MARKETING.

Si dice che Karl Lagerfeld, in occasione di ogni meeting sull’andamento delle vendite, decidesse di dismettere sistematicamente i primi tre prodotti della maison. Oppure che la possibilità di scegliere un dato colore per la propria Kelly venisse meno quando diventava troppo diffuso tra le donne dell’alta società. La scarsità, una volta (unica) source of business dell’high-end, ora è utilizzata sapientemente come leva di marketing. Proprio per ricostruire artificialmente l’esclusività con un significato diverso rispetto al passato. La componente di “sacrificio” in termini di risorse, sia economiche sia di tempo, è un fattore da non sottovalutare in questo segmento. Sebbene il numero di persone in grado di acquistare prodotti di lusso sia rimasto limitato, i social media hanno ampliato l’opportunità di entrare in contatto con le marche e apprezzarle. Diventando più accessibile nell’atteggiamento, il lusso ha superato, nell’apprezzamento del valore del marchio, tutte le categorie nella BrandZ™ Global Top 100 del 2019, con un aumento del 29%, dopo quello registrato l’anno prima pari al 28%. Appare quindi chiaro quanto sia necessario oggi attrarre e includere il maggior numero di persone nella fase di Appeal.
MAPPA DEGLI ARCHETIPI DI SETTORE
Fonte: Kotler P., Kartajaya H., Setiawan I. Marketing 4.0. Dal tradizionale al digitale, Hoepli, 2017.
Per fare ciò, le marche dell’high-end hanno bisogno di ingaggiare anche le generazioni più giovani. La industry, dunque, ha dovuto ...

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