LE 10 REGOLE
1/ Be Inclusive
2/ Be a Symphony
3/ Be a Vibration
4/ Be Timeless
5/ Be Inspired
6/ Be Relational
7/ Be Purposeful
8/ Be a Service
9/ Be Collaborative
10/ Be Antifragile
BE INCLUSIVE
In una societĂ profondamente diversa da quella del lusso delle origini, piĂš aperta e votata allâinclusione, lâelitarismo tipicamente associato ai brand dellâhigh-end rischia di essere fuori contesto.
Proprio per questo, Be Inclusive significa bilanciare lâesclusivitĂ dei prodotti con lâinclusivitĂ della propria cultura, per non perdere la propria autenticitĂ , alimentare la componente di sogno ma, al contempo, rendere la marca culturalmente piĂš accessibile.
Lâhigh-end fashion ha attraversato diverse fasi di sviluppo che hanno visto la modifica della sua grammatica, in termini di attori, tipologie di prodotto, modalitĂ commerciali ecc.
Quella che possiamo definire prima fase del fashion risale alla fine del XIX secolo. In quegli anni, il tempo e la manualitĂ dellâartigiano come garanzia di qualitĂ e prestigio vengono progressivamente posti in secondo piano dallâestro creativo e dal genio dei primi couturier, a partire da Charles Worth. Questi personaggi, che confezionavano capi su misura per gli esponenti di rilievo dellâepoca, si consideravano e venivano considerati artisti a tutti gli effetti. Originariamente, dunque, lâhigh-end coincideva con la definizione piĂš rigorosa di lusso e non necessitava di sovrastrutture commerciali quali i brand: erano i soli nomi degli stilisti a rendere esclusivi i prodotti da loro confezionati.
Il successivo momento di discontinuitĂ che è opportuno segnalare coincide con lâavvento del Novecento. In questo periodo, lâalta borghesia crea la domanda per capi dâabbigliamento di pregio e alta qualitĂ che non scaturissero, però, dallâinaccessibile haute couture. Ecco dunque che, tra gli anni â20 con Sonia Delaunay e il 1966 con lâapertura di Rive Gauche e la prima collezione ready-to-wear firmata da Yves Saint Laurent, viene concepito e vede la luce il concetto di prĂŞt-Ă -porter.
In questo nuovo scenario, caratterizzato da una richiesta differente rispetto al passato, si configura la seconda fase del fashion. Qui gli stilisti, ora piĂš che mai consapevoli che il valore delle loro opere non risiedeva tanto nellâunicitĂ del prodotto in sĂŠ quanto nella loro firma, colgono lâopportunitĂ di trasferire tale prestigio a un prodotto confezionato in modo seriale. Ciò porta alla nascita delle prime maison. Nonostante la standardizzazione che questa filosofia aveva adottato, acquistare un capo ready-to-wear di queste griffe non significava comprare un semplice prodotto, bensĂŹ unâidentitĂ : quella dello stilista, fatta di un insieme di valori e intersecata con la cultura del momento.
Per lâavvento della terza fase, invece, occorrerĂ aspettare il superamento del boom economico, periodo caratterizzato dalla diffusione di standard estetici piĂš democratici (come i jeans) e dalla nascita delle marche industriali di qualitĂ . In questo periodo, la strategia di business delle maison, che avevano giĂ abbandonato la scarsitĂ oggettiva come tratto distintivo nel passaggio da haute-couture a prĂŞt-Ă -porter, subisce infatti un ulteriore cambiamento con la creazione delle cosiddette diffusion line. Attraverso questo espediente, i player dellâhigh-end provano a segmentare non solo la propria offerta, ma persino il proprio brand, creando linee ad hoc per soddisfare le diverse esigenze di differenti fette di mercato, sempre piĂš vicine al mass-market. I primi passi di questa fase sono stati mossi giĂ alla fine degli anni â80, ma è soprattutto a cavallo tra gli anni â90 e il primo decennio del 2000 che se ne vedono i maggiori sviluppi. Ne sono un esempio Versace con Versus o Roberto Cavalli con Just Cavalli. Il vero pioniere di questa strategia, però, è stato Giorgio Armani, con la creazione di Armani Jeans, Emporio Armani e Armani Exchange. Le diffusion line soddisfacevano una necessitĂ di distribuzione. E avevano senso di esistere soprattutto nel periodo pre-digitale, quando il business della moda era prettamente wholesale.
Il passaggio a unâottica retail ha cambiato nuovamente le carte in tavola. Da quel momento, le diffusion line si sono rivelate in molti casi inefficaci in una prospettiva di lungo periodo: aumentavano il fatturato sullâanno, ma sfociavano nella cannibalizzazione e, soprattutto, finivano con il diluire il valore e la percezione del brand. Per un consumatore medio e definito âescursionista del lussoâ (Dubois e Laurent) entrare in contatto con le diffusion line significava prendere come riferimento il prezzo di questi prodotti e non essere piĂš disposto a considerare un altro capo afferente alla linea di punta a un prezzo maggiore. Ciò ha portato, anni dopo, numerosi brand a rivedere il loro portafoglio per limitare la confusione e preservare il loro appeal.
Il brand, infatti, è il piĂš grande difensore del differenziale di prezzo nellâindustria del fashion. Non è vero però il contrario: non si può pensare di alzare indiscriminatamente il prezzo di un prodotto con lâobiettivo unico di costruire un determinato immaginario di marca. Per capire questa dinamica si può utilizzare il settore del vino come termine di paragone. Qualsiasi vino eccellente non può fingere di essere un vino di lusso. Il suo prezzo non può essere giustificato solo dalla funzione o dalle caratteristiche. A determinare il valore è la sua singolaritĂ , costruita da elementi immateriali come il retaggio, la storia, il Paese dâorigine, il luogo di produzione. I brand che mancano di queste componenti rimangono confinati nellâambito della comparabilitĂ . Anche i vini molto buoni non possono quindi paragonarsi ai vari Ruinart o Château Pape ClĂŠment, perchĂŠ mancano di una dimensione sacra.
Ritornando ai brand dellâhigh-end, nessuno pone in discussione i prezzi o li giustifica, perchĂŠ si avvicinano alla dimensione dellâarte. AffinchĂŠ questo possa essere costruito occorrono tempo e visione. Il fascino e il mistero delle origini sono una pietra miliare per gran parte dei brand di questo segmento. Non è un caso che molte maison abbiano nomi propri, nomi dei fondatori, nomi di famiglie: essi sono il codice che antecede tutti gli altri codici della marca. Le marche dellâhigh-end fashion che rimangono fedeli alla loro heritage offrono alle persone una ragione speciale per cui instaurare una relazione con loro. Non essendo qualcosa di necessario, lâacquisto di questi capi è mosso anche e soprattutto da motivazioni profonde e valoriali.
Sogno e tradizione segmentano i brand allâinterno del mercato. Per la costruzione di una marca dellâhigh-end câè bisogno di creare una mitologia e un culto di seguaci, molto simili a quelli di una religione. I clienti dellâalta moda sono i piĂš attenti e sofisticati, in quanto acquistano simboli e codici. Ecco perchĂŠ lo storytelling è la leva piĂš importante per lâequity di un brand. Lo hanno compreso anche quelle aziende che non fanno parte del segmento ma aspirano a esserne considerate parte: se il fast fashion deve il suo successo alla distribuzione e ai prezzi accessibili alla massa e lâhigh-end risulta inarrivabile in termini di qualitĂ e prestigio, i brand premium si concentrano in importanti attivitĂ di comunicazione per sostenere continuamente lâimmaginario e i margini superiori ai prodotti del mass-market.
Lâelitarismo, come dimostrato dallâhaute couture, era alla base del lusso, anche per i suoi prezzi elevati. In passato, la sua evoluzione era il risultato della continua lotta tra le ĂŠlite che cercavano di imporre i propri gusti, reputati migliori di quelli degli altri, come accuratamente teorizzato da diversi sociologi dei consumi, Veblen in primis. Fin dalla sua nascita, il lusso ha prosperato grazie allâesclusivitĂ . Lâindustria dellâalta moda è stata costruita intorno al concetto che vogliamo sempre ciò che non possiamo avere. E, in linea con la tattica commerciale della scarsitĂ strategica, i mondi dei marchi creati intorno a queste aziende sfruttavano codici radicati di esclusivitĂ culturale: pubblicitĂ che mostravano solo una certa demografia privilegiata, una presentazione del prodotto che scoraggiava lâinterazione, e assistenti alla vendita dai comportamenti volutamente deferiti e distaccati.
I CLIENTI DELLâALTA MODA SONO I PIĂ ATTENTI E SOFISTICATI, IN QUANTO ACQUISTANO SIMBOLI E CODICI. ECCO PERCHĂ LO STORYTELLING Ă LA LEVA PIĂ IMPORTANTE PER LâEQUITY DI UN BRAND.
I brand dellâhigh-end fashion, però, hanno dovuto far fronte a un cambiamento culturale: lâesclusivitĂ ha smesso di essere un valore. Almeno per i centennial. Come riportato da un report della societĂ di ricerca Kantar e supportato da numerosi studi e documentazioni, le generazioni piĂš giovani di consumatori sembrano non apprezzare in modo cosĂŹ convinto i convenzionali codici di esclusivitĂ . Lâelitarismo per come è sempre stato concepito, infatti, contrasta con valori profondi nei quali questo gruppo si rispecchia. La Generazione Z si dimostra piĂš aperta e inclusiva rispetto a quelle che lâhanno preceduta. I marchi di maggior successo presso i giovani hanno abbracciato questo senso di inclusivitĂ e hanno trasformato un valore âgiustoâ in un attributo âcoolâ. Ă facile intuire come questo cambiamento di percezione possa destabilizzare i player del lusso. Tuttavia, questa non è una tendenza, bensĂŹ un cambiamento culturale fondamentale in ciò che spinge il desiderio dei consumatori. E nemmeno le maison si possono sottrarre a tali mutamenti. GiĂ ripercorrendo le tre fasi descritte prima, è possibile constatare un cambiamento nel modo di individuare e percepire qualcosa come âesclusivoâ. Inizialmente, infatti, lâesclusivitĂ aveva un significato economico e di classe, mentre nella seconda fase la segmentazione sociale ha lasciato spazio alla capacitĂ di riconoscere un marchio, quindi a un tema di conoscenza. Il vero cambio di paradigma, però, è avvenuto successivamente, quando nella terza fase ha iniziato a perdere rilevanza il fattore economico (grazie anche alle diffusion line). Posti davanti alla sfida di riconsolidare unâequity il piĂš delle volte diluita e allo stesso tempo di alimentare il âsogno della crescitaâ garantendo una distribuzione elevata, i player dellâhigh-end devono oggi comprendere la necessitĂ di rivedere nuovamente il significato attribuito allâesclusivitĂ e integrare il suo opposto, lâinclusivitĂ , allâinterno del proprio modo di pensare e agire.
Tale mutamento non ha significato lo scivolamento di queste marche dalla cima della piramide a dinamiche tipiche di un mercato di massa, come successo con le diffusion line, ma ha imposto loro di adottare una nuova strategia basata sul bilanciamento tra esclusivitĂ delle icone, accessibilitĂ dei prodotti entry-level e inclusivitĂ della cultura di marca. I brand dellâhigh-end ricorrono oggi allâestensione dellâofferta per rendersi piĂš accessibili. Questa pratica è corretta e positiva per la marca se permette di allargare la conoscenza e garantire penetrazione a un numero ristretto, limitato e secondario di prodotti. In questo caso si ottiene una massimizzazione del Customer Lifetime Value nel tempo, perchĂŠ un acquirente domani potrebbe spingersi a comprare un prodotto di punta del brand che prima non poteva permettersi.
Lâeffetto collaterale può essere però quello di rendere accessibili prodotti che, a un prezzo inferiore, ambiscono alla stessa funzione sociale di quelli dellâalto di gamma. In questo caso il brand offre la possibilitĂ ai consumatori di fare un trade-down, intaccando allo stesso tempo sia il CLV sia la sua equity.
Nei Paesi maturi, caratterizzati dalla saturazione del mercato, la strategia descritta è ciò che ha determinato gran parte della crescita del segmento. Il cosiddetto fenomeno dellâaccessorizzazione del lusso è esemplificativo: non tutti possono acquistare un abito su misura di una prestigiosa maison, ma milioni di persone possono indossare i suoi occhiali da sole o acquistarne il profumo. E il suo successo è indiscusso: si prenda in esempio Chanel e la sua linea beauty dal valore pari al 60% delle entrate totali. Lo stesso vale per un brand come Givenchy, il cui prodotto piĂš venduto nel 2017 è stato un rossetto. Questi due approcci fanno riferimento a due strategie di marketing differenti: brand extension e brand stretching. La prima riguarda lâespansione della marca verso categorie merceologiche affini al core business o interne a esso; la seconda, invece, lâesplorazione di settori lontani rispetto allâarea di competenza originale del brand.
Quanto detto però non basta: per evitare gli effetti collaterali e preservare lâaspirazionalitĂ creando, al contempo, una cultura di marca inclusiva, la maggioranza dei brand dellâhigh-end ricorre a unâaltra strategia di segmentazione, ovvero alzare progressivamente i prezzi delle proprie icone. Al fine di spiegare al meglio questo concetto è opportuno introdurre un altro tema, quello dellâarchetipo che caratterizza il segmento di cui stiamo trattando. Allâinterno di Marketing 4.0 esso è stato definito Trumpet model (lo vediamo riassunto nella figura a p. 70). Il carattere distintivo di questo modello risiede nel livello elevato di affinitĂ : le persone tendono a fidarsi della qualitĂ di certi brand, quindi sono disposte a consigliarli ad altri anche se non li comprano e non li usano in prima persona. In questi casi, il numero di sostenitori è piĂš alto del numero di acquirenti effettivi: lâAdvocacy supera dunque lâatto di acquisto. In una categoria a tromba, i clienti sono profondamente coinvolti. Tuttavia, il processo di valutazione che seguono è relativamente semplice, perchĂŠ la maggior parte dei brand ha giĂ sviluppato una specifica reputazione di qualitĂ , costruita nel lungo periodo attraverso il passaparola. Le persone che si sentono attratte da certi brand, come abbiamo anticipato, tendono a raccogliersi in comunitĂ . Lâesistenza di esse influenza spesso i potenziali acquirenti spingendoli a informarsi meglio sulla qualitĂ dei prodotti. A causa dei prezzi elevati, ci sono ammiratori che aspirano ad acquistare questi brand ma non possono permetterseli. Costoro, tuttavia, sono comunque ben lieti di raccomandarli ad altre persone, perchĂŠ sposano e condividono i valori della marca e il mondo possibile che rappresenta. E anche se in seguito potranno permetterseli, non è detto che riescano a procurarseli: la maggior parte dei brand afferenti a questo archetipo è, infatti, di nicchia. PoichĂŠ la scarsitĂ incrementa lâattrattiva dei brand agli occhi dei potenziali acquirenti, chi li guida non dovrebbe impegnarsi nellâespandere oltremodo la disponibilitĂ dei prodotti.
LA SCARSITĂ, UNA VOLTA (UNICA) SOURCE OF BUSINESS DELLâHIGH-END, ORA Ă UTILIZZATA SAPIENTEMENTE COME LEVA DI MARKETING.
Si dice che Karl Lagerfeld, in occasione di ogni meeting sullâandamento delle vendite, decidesse di dismettere sistematicamente i primi tre prodotti della maison. Oppure che la possibilitĂ di scegliere un dato colore per la propria Kelly venisse meno quando diventava troppo diffuso tra le donne dellâalta societĂ . La scarsitĂ , una volta (unica) source of business dellâhigh-end, ora è utilizzata sapientemente come leva di marketing. Proprio per ricostruire artificialmente lâesclusivitĂ con un significato diverso rispetto al passato. La componente di âsacrificioâ in termini di risorse, sia economiche sia di tempo, è un fattore da non sottovalutare in questo segmento. Sebbene il numero di persone in grado di acquistare prodotti di lusso sia rimasto limitato, i social media hanno ampliato lâopportunitĂ di entrare in contatto con le marche e apprezzarle. Diventando piĂš accessibile nellâatteggiamento, il lusso ha superato, nellâapprezzamento del valore del marchio, tutte le categorie nella BrandZ⢠Global Top 100 del 2019, con un aumento del 29%, dopo quello registrato lâanno prima pari al 28%. Appare quindi chiaro quanto sia necessario oggi attrarre e includere il maggior numero di persone nella fase di Appeal.
MAPPA DEGLI ARCHETIPI DI SETTORE
Fonte: Kotler P., Kartajaya H., Setiawan I. Marketing 4.0. Dal tradizionale al digitale, Hoepli, 2017.
Per fare ciò, le marche dellâhigh-end hanno bisogno di ingaggiare anche le generazioni piĂš giovani. La industry, dunque, ha dovuto ...