Senti chi parla
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Senti chi parla

Cosa si dicono gli animali

Francesca Buoninconti, Federico Gemma

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  1. 384 pages
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Senti chi parla

Cosa si dicono gli animali

Francesca Buoninconti, Federico Gemma

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Si dice sempre che gli animali non abbiano voce, eppure sono dei gran chiacchieroni. Dal nostro giardino alle foreste pluviali, dal parco sotto casa alle profondità dell'oceano, l'aria e l'acqua pullulano di messaggi. C'è chi canta come un usignolo, anche negli abissi; chi "parla" utilizzando dialetti tramandati di generazione in generazione; chi comunica danzando, chi si esibisce in un tip tap alla Fred Astaire o preferisce lo stile inimitabile di Michael Jackson. Infine c'è chi si arrangia con mosse, pose e parate, oppure odori, puzze e profumi. E, come al solito, c'è anche chi racconta una marea di bugie. In un mondo fatto di messaggi in codice, cosa bisbigliano e cosa si dicono gli animali? Gli uccelli cantano ogni volta che aprono becco? E i pesci sono davvero muti? Perché i camaleonti cambiano colore? Cosa passa per la testa di una gazzella che, inseguita da un predatore, invece di correre a più non posso inizia a saltare? I delfini si chiamano per nome? E il coccodrillo come fa? Ma soprattutto, perché gli animali mentono? Se almeno una volta nella vita vi siete fatti una di queste domande, "Senti chi parla" è il libro per voi.

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Information

Year
2021
ISBN
9788875789763

Parte II

Ugole, orecchie, violini

Capitolo 6

Aria sulla sesta remigante

Nell’immaginario collettivo la primavera ha il profumo dei fiori e il suono dei cinguettii. Il garrito delle rondini, i “cirp” dei passeri indaffarati tra le tegole dei tetti, i fischi striduli dei rondoni che sfrecciano alti nel cielo con la loro inconfondibile silhouette a falce e che con strette virate sfiorano i campanili, l’usignolo che, instancabile, canta anche di notte: è questa la colonna sonora della stagione della rinascita. L’aria di primavera è una melodia a più voci. Ma siamo proprio sicuri che ogni volta che gli uccelli aprono becco lo fanno sempre e solo per cantare?
Il linguaggio degli uccelli è molto più articolato e complesso di così: ogni specie produce una varietà di suoni diversi, ognuno con uno scopo e un messaggio preciso. Suoni che noi genericamente indichiamo sempre come “canto”, ma che invece alle orecchie esperte di ornitologi e birdwatcher sono utilissimi per capire quante e quali specie si trovano nell’area studiata, e soprattutto in che attività sono indaffarate e cosa si stanno dicendo. Possono essere trilli, ronzii, fischi, tambureggiamenti o suoni prodotti in altro modo, schioccando la lingua, battendo il becco o perfino incrociando delle particolari penne. E tutti hanno un significato e uno scopo specifico. La prima cosa da dire, però, è che nella maggior parte delle situazioni non si tratta di canto, ma di versi o richiami: anche questi sono segnali e hanno una funzione precisa.
Tra i versi rientrano i segnali di allarme, che ascoltiamo molto spesso, utilizzati per avvertire i conspecifici (e non solo) dell’arrivo di un pericolo ogni volta che un individuo si sente minacciato. Sono vocalizzazioni che vengono comprese trasversalmente da tutte le specie che vivono nello stesso ambiente, un po’ come l’SOS umano conosciuto a livello internazionale. Il chioccolio del merlo, una serie di sonori schiocchi, è tra questi. Ma se vi è capitato di camminare per i boschi, avrete sicuramente sentito la sentinella delle foreste decidue avvisare tutto il circondario della vostra presenza: con il suo schiamazzo, molto simile al classico verso di un’anatra ma più secco e sordo, meno nasale, la ghiandaia (Garrulus glandarius) mette tutti sull’attenti. Forse avrete anche avuto occasione di vederla: sul suo piumaggio marrone rosato spiccano la parte finale della schiena bianca, la coda nera e le inconfondibili “spalline” azzurre. Le sue penne copritrici, cioè quelle che ricoprono le penne delle ali, sono infatti azzurre con barre orizzontali nere e sottilissime strie bianche. Con un peso che si aggira sui 150-200 grammi e un’apertura alare di circa 55 centimetri, questo corvide comunissimo nei nostri boschi, come pure nei giardini pubblici più grandi, è però anche un’adorabile imbrogliona. Intelligente e con una memoria formidabile, la ghiandaia è un’ottima imitatrice e di questa sua capacità si serve nelle occasioni più disparate.
Fa parte dei disonesti nel mondo della comunicazione: simula i versi di molte altre specie di uccelli, e perfino la voce umana o di altri predatori come i gatti. È un uccello che – se vuole – miagola. E non lo fa per semplice diletto: i suoi sono segnali ingannevoli, spesso prodotti appositamente con lo scopo di confondere. Perché lo fa? Principalmente per ghiottoneria o per necessità. Come tanti altri uccelli, imita i versi dei predatori per incutere timore, come fanno i bambini che giocano a fare il leone o a imitare bestie feroci. E questo può scoraggiare altri conspecifici o predatori ad avvicinarsi al suo nido. È un meccanismo, quindi, di protezione. Oppure utilizza quest’escamotage per assicurarsi una fonte alimentare. Che siano nocciole o faggiole, la ghiandaia può fingersi una poiana, emettere il verso di un astore, di un allocco, o di qualche altro predatore. In questo modo, mentre tutti gli altri uccelli del bosco corrono ai ripari, lei ha campo libero. Uno dei suoi piatti preferiti sono le uova di altri passeriformi. E per mangiarle utilizza a volte una tecnica davvero subdola: imita il canto di quella specie in modo che i genitori lascino momentaneamente il nido per cercare l’intruso nel loro territorio, lasciandole inconsapevolmente via libera1. La ghiandaia è una vera maestra dell’inganno, del resto le sue capacità vocali sono note fin dai tempi antichi: il suo stesso nome scientifico, Garrulus glandarius, in latino significa “chiacchierone, ciarliero” e “mangia-ghiande”. E non a torto il poeta inglese William Wordsworth (1770-1850) la chiamava “dissimulatrice”.
Ma di uccelli che imitano i versi di altre specie per difendere il nido o avere il monopolio di una fonte alimentare è pieno il mondo. L’imitazione è una tecnica molto efficace perché, se è davvero buona, funziona sempre: i costi di ignorare un verso di allarme di un’altra specie superano di gran lunga i costi di rispondere anche a quelli falsi. Decidere se ignorare l’allarme o reagire a esso può fare la differenza tra morire per mano di un predatore o perdere solo un pasto. I destinatari non si abituano mai ai segnali di allarme e reagiscono sempre con la fuga. È per questo che i segnali ingannevoli funzionano: la regola di “al lupo, al lupo” nel mondo animale non vale. Meglio avere sempre salva la pelle.
Come abbiamo detto, poi, i versi di allarme sono universali e vengono compresi dagli animali che vivono negli stessi ambienti, e che quindi condividono gli stessi spazi e spesso gli stessi predatori. Per esempio, è stato dimostrato che gli scoiattoli rossi (Sciurus vulgaris) rizzano le orecchie quando sentono l’allarme lanciato dalle ghiandaie. Si mostrano più vigili e si danno alla fuga: comprendono perfettamente cosa vuol dire quel messaggio codificato e lo distinguono rispetto ad altri suoni altrettanto forti, ma che non indicano un pericolo prossimo e imminente2.
Ogni specie di uccello ha almeno un verso di allarme, ma le cince sono delle vere maestre: emettono suoni di allarme differenti a seconda del predatore in arrivo e Chris Templeton dell’Università di Washington è stato il primo nel 2005 a decodificare il linguaggio della cincia americana (Poecile atricapillus): un rapace in volo viene segnalato con un leggero e acuto “siiit”, mentre un predatore fermo o appollaiato tra le fronde di un albero corrisponde a un “chickadii-dii-dii”. E il numero di “dii” che si ripetono alla fine del verso indica le dimensioni del predatore e quindi il grado di minaccia: più il predatore è piccolo, più numerosi saranno i “dii”. Una civetta nana del Nord America (Glaucidium californicum) verrà indicata con quattro “dii” finali, mentre per il gufo della Virginia (Bubo virginianus) ne basteranno due: questo perché i predatori piccoli e agili si muovono meglio nel folto della vegetazione e rappresentano una minaccia più seria3. Ma c’è di più, il “chickadii” è un verso ad ampio spettro che oltre a mettere in allerta i conspecifici, richiama la loro attenzione per attaccare in gruppo. È il caso del mobbing, un comportamento aggressivo e intimidatorio messo a punto da molte specie nei confronti di predatori o di chi invade il loro territorio. Gabbiani e cornacchie ne sono maestri: sulle isole, le colonie di gabbiani attaccano rapaci o aironi migratori che sono solo di passaggio e lo stesso fanno se qualche predatore tenta di avvicinarsi al nido. Allo stesso modo si comportano le cornacchie o le taccole: si avvalgono della forza del gruppo per scacciare e infastidire specie anche molto più grandi, perfino aquile reali.
Ci sono poi versi che vengono chiamati “di contatto” e che corrispondono invece a un “io sono qui, tu tutto bene?”. Sono suoni brevi, rapidi, spesso sommessi, utilizzati da molti uccelli sociali o da gruppi familiari, anche nella ricerca del cibo. Molte specie sociali, poi, che volano o addirittura migrano in stormi, sono famose per i loro vocalizzi in volo: usano questi richiami per non perdersi di vista e stare compatte. Una specie tra tutte, le gru (Grus grus): il loro passaggio nei cieli italiani nelle notti di primavera o in autunno si fa sempre sentire. Famosi “casinari” sono i codibugnoli (Aegithalos caudatus): piccoli batuffoli piumosi dal peso di appena 7 grammi, con un minuscolo becco e la coda più lunga del corpo, che vivono in gruppi familiari di 6-30 individui. Di solito è la coppia riproduttrice che si porta dietro i giovani delle covate precedenti, spesso con qualche cincia nel mezzo. E la loro presenza si palesa subito: il gruppo si tiene costantemente in contatto con degli acuti “srih-srih-srih” mentre vola tra gli alberi in cerca di cibo o riparo. I versi di contatto sono fondamentali anche per i genitori e la prole, soprattutto nel primo periodo successivo all’involo, cioè quando i giovani sono usciti dal nido e devono iniziare a cavarsela da soli. In questo momento molto delicato della vita da genitori, per esempio, gli adulti di cardinale rosso (Cardinalis cardinalis) – il passeriforme nordamericano completamente rosso che ha ispirato il videogioco Angry Birds – comunicano la loro posizione con dei sommessi “cip” frammentati: in questo modo coordinano le manovre nella vegetazione, si scambiano le loro coordinate a vicenda ed evitano di farsi sentire dai predatori. È come se parlassero sottovoce, bisbigliando indicazioni per non essere localizzati.
La verità, però, è che la comunicazione tra genitori e prole inizia ancora prima dell’involo e addirittura della nascita dei pulli: comincia quando le uova ancora si devono schiudere. Eh sì, poco prima di schiudersi le uova pigolano. Il pullo, ormai completamente sviluppato e pronto a rompere il guscio, avverte i genitori che sta per venire al mondo: se lo dovessimo traslare nei mammiferi, potrebbe essere una sorta di “guarda mamma che ti si sono rotte le acque”. Una volta venuti al mondo, i nidiacei – come tutti i pargoli – strillano parecchio. Chiamano i genitori e soprattutto la forza della loro voce, l’insistenza del loro pigolare e l’ampiezza del loro becco spalancato indicano ai genitori quanta fame hanno e di quanto cibo hanno bisogno, e danno preziose informazioni sul loro stato di salute. In quest’ultimo caso, a dire il vero, influisce molto anche il colore dell’interno del becco: più è giallo-arancio, bello carico, più il pullo sta bene ed è in forma, mentre più sarà pallido, meno il pullo sarà forte e vitale. Se le chiamate da “mamma, papà, ho fame” – dette in inglese begging calls – sono fondamentali sia per i pulli che per il successo riproduttivo dei genitori, ci sono poi i tenerissimi incitamenti a uscire dal nido quando è il momento giusto, mentre le richieste di cibo continueranno anche fuori dal nido, finché i giovani non saranno in grado di provvedere ai loro bisogni da soli.
Vi ho anticipato, però, che questo è un mondo fatto di onesti ma anche di grandissimi bugiardi e millantatori. E a mentire si comincia da piccoli, soprattutto se sei un cuculo comune (Cuculus canorus) o un altro parassita di cova, un gruppo che comprende quasi 90 specie di farabutti distribuite in tutto il mondo: circa 50 specie di cuculi; 20 di Viduidi, nell’Africa subsahariana; 10 di Indicatoridi, particolari picchi ghiotti di miele che indicano la presenza di alveari selvatici; e 5 di vaccari, grossi passeriformi del Centro e Sud America.
Tutte queste specie sono parassiti di cova, cioè non costruiscono il proprio nido, ma depongono l’uovo in un nido altrui. Sono maghi dell’inganno: producono uova di dimensioni e colori praticamente identiche a quelle delle specie parassitate. Ma i veri caini sono i pulli che usciranno da quelle uova. La maggior parte di loro ucciderà i fratellastri in vario modo: lanciandoli giù dal nido o a beccate, mentre i genitori adottivi non sono presenti. L’inganno più grande risiede nel loro “pianto”: un solo pullo di cuculo comune è capace di imitare e simulare un pianto pari a quello di tutta la nidiata parassitata per farsi dare il cibo necessario: è un super-stimolo a cui i genitori adottivi rispondono con molta più solerzia4. Le begging calls sono quindi fondamentali per il piccolo parassita di cova per crescere sano e forte. Ma come fa a conoscere il linguaggio dei suoi genitori adottivi? Come fa a parlare la loro stessa lingua e a farsi accettare?
Per diverso tempo si è ipotizzato che almeno per alcune specie questo repertorio orale fosse programmato geneticamente e l’ipotesi non era campata in aria. Per quanto riguarda il cuculo comune, infatti, questa specie si è talmente evoluta e coevoluta con i suoi ospiti, in una lunga corsa agli armamenti, che le femmine possono essere divise in tribù: ogni tribù è specializzata nel parassitare specie differenti, imitando alla perfezione la forma e il colore delle uova. Per questo ipotizzare che anche il “mamma, ho fame” sia diventato ormai un carattere ereditario, selezionato nel tempo, non è un’assurdità. Gli studi in merito, però, sono molto discordanti. Secondo una prima ipotesi, i cuculi sarebbero eccellenti studen...

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