Design, innovazione e cultura del territorio
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Design, innovazione e cultura del territorio

Carlo Branzaglia

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Design, innovazione e cultura del territorio

Carlo Branzaglia

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Il design può essere uno strumento che permette alle qualità tecniche espresse dai distretti produttivi di costruire politiche industriale in stretta relazione ai contesti territoriali.
Fungendo da collante interno ai distretti stessi, alle filiere, alle reti, alle cloud.
Per questo, ha rappresentato uno strumento competitivo particolarmente rilevante nella storia dell’industria italiana; segnatamente, per un comparto come quello del rivestimento ceramico, dalla forte localizzazione geografica nella provincia di Modena, al momento della sua internazionalizzazione, dagli anni Novanta del secolo scorso.
Il caso di Ceramica Fioranese racconta di una politica aziendale fortemente legata alle competenze territoriali, fino alle loro espressioni più innovative, proprio nell’ambito del design. Carlo Branzaglia (Cesena, 1962). Si occupa di strategic design e design education.
Insegna all’Accademia di Belle Arti di Bologna dove è stato coordinatore DPAA e Design Center Bologna.
È coordinatore scientifico della Scuola Postgraduate di IED Milano; membro dell’International Health Design Network; e siede nel Consiglio di Amministrazione di Fondazione ADI Collezione Compasso d’Oro.
Il suo ultimo volume è Fare Progetti (Logo Fausto Lupetti, II edizione, 2019).

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Information

Year
2021
ISBN
9788868743185

1 words

Premessa
Una ceramica Fioranese
La ceramica
Il materiale
La ceramica fra artigianato e industria
Le caratteristiche di un materiale
Il territorio
Territori e distretti
Il distretto e le imprese
Le imprese e le filiere
Le competenze
Distretti e filiere
Filiere strette e filiere larghe
Il Made in Italy
Il design
Il prodotto
Il design di filiera
Il design come antropologia culturale

Premessa

Una ceramica Fioranese

Il termine impresa viene dal latino intrapresa, matrice del nostro stesso verbo intraprendere. Il significato è chiaro: fare impresa è comunque aprire una strada, avventurarsi in un percorso, portare avanti una idea. Intraprendere, appunto, ovvero essere intraprendenti.
L’intraprendenza è un atto che modifica le condizioni dalle quali parte per operare. E con perfetta corrispondenza etimologica, anche l’impresa modifica le condizioni del contesto in cui opera. Intraprendere, e fare impresa, significa scegliere, decidere, agire, a partire da un ambito predeterminato. E, quindi, significa incidere su quell’ambito e modificarlo: ogni intrapresa genera una nuova configurazione, una nuova Gestalt, un nuovo equilibrio rispetto a quello precedente. Produce una innovazione, una discontinuità; e uno spostamento di livello, anzi forse più di uno, nel tempo, se da conseguire sono obiettivi e traguardi.
Per questo l’azienda incide sul contesto nel quale opera. Gestisce le risorse, umane e materiali, le trasforma e le fa crescere; modifica l’ambiente stesso in cui opera, in tutti i sensi, nel bene o nel male. Nel male, se esaurisce e sfrutta risorse senza rigenerarle. Nel bene, se aumenta il valore dei luoghi e il benessere delle persone. È pressoché ovvio che chiunque intraprenda consumi risorse: ma questo, in termini virtuosi, può trasformarsi in un investimento per far crescere il benessere collettivo.
Si tratta di scelta etica e di una assunzione di responsabilità che attraversa una buona pare della cultura imprenditoriale italiana, quella cultura imprenditoriale così fortemente legata alla dimensione della piccola e media impresa, che assorbe l’82% dei lavoratori italiani. Perché la piccola e media impresa non può dimenticarsi di essere connessa al suo territorio: ci vive (con i suoi dipendenti) e ci lavora; ne organizza i flussi e le dinamiche; ne rimodella le logistiche e le attitudini. Se la stessa capacità di fare impresa è un tratto culturale, in alcuni territori proprio la presenza di piccole e medie imprese rende difficilmente separabile la dinamica economica da quella sociale, tanto le due sono intrecciate e connesse, nella quotidianità delle cose così come nella rappresentanza a livello istituzionale.
Ceramica Fioranese viene da una regione, l’Emilia Romagna, piena di una molteplicità di distretti industriali, legati a settori e a tradizioni materiali molto diversi fra loro. Sono territori (quello del distretto della ceramica, in primis) ove il fare impresa ha sempre significato tenere naturalmente presente una responsabilità sociale, molto prima che si desse riconoscimento economico agli asset immateriali, e fra questi alla dimensione etica (incarnata proprio dal bilancio sociale) delle aziende. Questo significa che l’impresa fa parte del tessuto culturale e antropologico che la circonda, e che con esso interagisce attivamente, modificandolo ed evolvendolo. E migliorando le sue capacità in termini di competenze.
Quando poi una azienda decide di investire sul territorio come motore delle competenze più avanzate, allora intraprende un percorso inedito, sperimentale, apparentemente difficile, ma foriero di opportunità e di esiti. Perché chi vive nel territorio si nutre della stessa cultura, e può innervarla delle sue competenze. Se queste competenze sono votate a lavorare sull’innovazione, l’effetto sarà una ricaduta strategica sull’area di pertinenza, destinata a durare nel tempo e a fare la differenza rispetto ad altri comprensori produttivi.
È il tema, ormai tanto celebrato (certe volte anche inutilmente) delle Industrie Culturali e Creative. All’interno delle quali il design ha un ruolo fondamentale perché genera innovazione dei processi, in un sistema già industrializzato e quindi modellizzato. È una attività che fa crescere le altre, lavorando al servizio di imprese e comunità. Un’ attività di pensiero e di azione che ridisegna le tecnologie e il loro uso; rilegge le tradizioni e rende materiale l’innovazione; costruisce significati attorno a funzioni. Tanto più in settori nei quali il design stesso, se inteso nei termini limitativi di un intervento sulle forme degli oggetti, apparentemente non risulta particolarmente evidente.
Se questa premessa ha uno scopo, è quello di spiegare perché una serie di volumi (all’interno della collana Design e Comunicazione di Fausto Lupetti Editore) parte dall’esempio lanciato da Ceramica Fioranese nel corso della sua storia, e a maggior ragione nell’arco dell’ultimo decennio. Ceramica Fioranese e Ceramiche Coem, suo marchio gemello, hanno investito fortemente sul territorio per rinnovarne la stessa metodologia di lavoro, in un settore industriale esposto ad una grandissima competizione internazionale, come quello ceramico. Trasformando la competenza in innovazione; ideando nuove tecniche; variando le metodologie anche sul piano gestionale.
Ceramica Fioranese ha investito sulle nuove tecnologie digitali, riprendendo la tradizione ma rendendola flessibile e adatta alla disparata varietà di applicazioni richiesta dal mercato odierno. Le sue Cementine hanno aperto una intera categoria di mercato, giocando sulla rilettura di decori italiani tradizionali reinterpretati in combinazioni diverse, e prodotti in formati e con applicazioni flessibili, declinabili a dismisura. Ma le Cementine sono un progetto di una designer cresciuta a Sassuolo, Silvia Stanzani, una protagonista in questo settore, che rappresenta una figura formata sul territorio, capace di coniugare quel mix di cultura materiale, originalità ideativa e conoscenza tecnica che è anima del buon design.
Le Cementine sono state anche l’occasione per incominciare a raccontarsi da parte di una azienda che ha trasformato il suo showroom in sale eventi e spazi di formazione; che ha abbattuto l’impatto ambientale delle sue fabbriche; che ha accolto un management al femminile in un settore tipicamente maschile; che ha internazionalizzato mantenendo fermi i concetti chiave del Made in Italy.
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Ceramica Fioranese, anni Settanta
Un racconto che si è evoluto con altri prodotti, anche molto diversi, ma dotati della stessa filosofia.
È il racconto di questo volume, che procede per gradi occupandosi di un territorio, di una azienda, di una metodologia progettuale. Il primo di una serie che si interroga sul valore economico e culturale del design all’interno delle filiere produttive, e delle aziende loro appartenenti.
Partendo da un settore dove forse esso appare meno evidente, ma dove in realtà ha rappresentato la chiave di volta per l’affermazione internazionale, anche in momenti di crisi economica globale.
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Ceramica Fioranese, 2020

La ceramica

Il materiale

La ceramica è il più antico materiale prodotto dall’uomo. Il suo nome deriva da χεραµικνη τεχνη, in greco arte dell’argilla, ma anche arte del vasaio; tanto i due significati sono connessi. Non è il caso di ricorrere a storiografie puntuali e datazioni specifiche per ricordare che fin dal Paleolitico l’uomo usava l’argilla per confezionare oggetti funzionali, indurendola col fuoco. Finché, in Cina, l’idea di coprirla di smalti e cuocerla successivamente ha permesso di renderla impermeabile; solida all’uso e piacevole allo sguardo, simultaneamente. Anche se poi la decorazione poteva assumere motivi di obiettivo diverso: funzionali, simbolici, estetici, di volta in volta per evidenziare il contenuto, propiziare la benevolenza naturale o divina, dare decoro all’oggetto stesso.
Insomma, la ceramica sembra il primo materiale oggetto di un vero e proprio intervento di design ante litteram. L’argilla d’altra parte è talmente importante nella cultura materiale umana da essere stata, neanche tanto indirettamente, all’origine della scrittura. I token sono dischetti (“gettoni”) in argilla cotta che nell’antica civiltà babilonese venivano usati per individuare con un simbolo il contenuto dei vasi e delle giare. Questo simbolo, evolvendosi in chiave fonetica, finì infatti per generare le prime lettere.
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Foto dal volume DecoRevolution, 2017
La ceramica è stato d’altronde il primo materiale a poter essere considerato naturale e artificiale al tempo stesso. E, in qualche modo, ancora oggi è sospeso fra questi due poli: è sostanzialmente un materiale onnipresente, lavorato dall’uomo nell’arco di millenni (e per questo, ci appare naturale); d’altra parte offre lavorazioni e performance ormai sofisticatissime (ed allora, è anche artificiale). Ciò vale in particolare per il rivestimento ceramico, che ha rappresentato ovviamente una industria successiva a quella della produzione di oggetti d’uso quotidiano perché più complessa sul piano tecnologico e produttivo, ovvero necessitante di macchinari e competenze più complessi.
Le prime decorazioni parietali risalgono a più di tremila anni prima di Cristo, in Mesopotamia, realizzate grazie a cilindrati decorati impressi nell’argilla. Sempre in Mesopotamia, e in Egitto, vengono infine inventate lastre per la pavimentazione, che, colorate, troviamo sotto forma di piastrella in grandi composizioni figurative parietali. Solo grazie all’espansione moresca del 1300 i rivestimenti ceramici si diffondono in Europa.
Da allora però la ceramica è diventata una consuetudine negli ambienti domestici e pubblici per motivi essenziali: la resistenza, e la facilità di manutenzione (innanzitutto, in termini di pulizia). Sono questi elementi fondamentali per lo stesso evolversi della civiltà umana, e delle sue consuetudini quotidiane, non a caso condivisi fra i due grandi settori della produzione ceramica, il rivestimento, appunto e l’arredo bagno.
La stessa materia della ceramica ha subito una evoluzione fortissima, specie nella produzione industriale: il grès, ad esempio, è un materiale il cui progenitore risale agli inizi del 1900, ma che sotto la definizione “porcellanato” ha la sua esplosione proprio nella Sassuolo degli anni Cinquanta. E che si distingue per inedite dosi di resistenza alla pressione e agli agenti esterni.
Sotto l’aspetto tecnologico, il rivestimento ceramico ha raggiunto performance estremamente brillanti, dovute non solo alla produzione del materiale stesso, ma anche alla sua lavorazione meccanica. Nel corso degli anni sono stati testati con esso rivestimenti fotosensibili; paste fatte con materiali di recupero; lastre ad altissima resistenza antibatteriche; o di spessore millimetrico, applicabili a contesti inediti quali il piano cucina. In nome di una flessibilità, e ancorata volta, di una funzionalità uniche.
Questi aspetti già rappresentano una eccellente palestra d’ardimento per il designer che si voglia misurare con prodotti (il rivestimento stesso) e applicazioni (l’ambito nel quale viene inserito) ottimizzando tecniche e procedimenti di lavorazione, e rinnovando le possibilità di adattamento.
Da quando poi le tecnologie digitali hanno permesso di aumentare le opzioni decorative delle superfici, la questione è diventata davvero quella di articolare un mercato quanto mai vasto venendo incontro non solo alle esigenze ma anche ai gusti di pubblici sempre più differenziati, ai quali proporre formati innovativi (le lastre) indirizzandone l’uso proprio attraverso la superficie decorativa.
In questo contesto esplode anche il fenomeno del contract, ovvero della grande competenza destinata ai luoghi aperti al pubblico (che siano alberghi, ospedali o aeroporti…). E non ci sarà certo solo bisogno della mimesi di altri materiali (marmi, legni, cementi…) ma anche di un universo così variegato da potersi permettere tirature limitate, ben oltre le possibilità di ciò che veniva definito il “terzo fuoco”, ovvero l’intervento in terza cottura con elementi decorativi, a numeri di produzione ridotti.

La ceramica fra artigianato e industria

Si annotava in precedenza come per certi versi la ceramica sia sospesa fra un immaginario naturale e artigianale; ed uno artificiale, e industriale. Per quanto tecnologica essa possa essere, nella nostra antropologia culturale essa rimane un materiale sedimentato nella stessa storia dell’umanità, nei suoi oggetti e nei suoi ambienti; anche se le sue tecniche di lavorazione raggiungono vette di sofisticazione probabilmente inconcepibili per l’utente medio (la produzione di lastre ultra-sottili, ad esempio, è una di queste).
Ma per altri versi la ceramica si è allineata, pur essendo un materiale da costruzione, (quindi non certo un prodotto che si compra in copia unica in boutique) a quella tendenza che dalla introduzione dell’elettronica nella produzione meccanica ha determinato la possibilità di adattare e variegare le fogge del prodotto in uscita dal meccanismo di produzione industriale.
Ne parlò per la prima volta Ezio Manzini, nel suo seminale Artefatti, nel 1996, coniando il concetto di “oggetto in serie variata”. Sono oggetti che nascono da una matrice comune, che può essere variata in serie più o meno limitate a partire dalla “catena di montaggio” industriale. Il che permette la proliferazione dei modelli di consumo e l’avvicinamento talora spasmodico alle esigenze di micro-pubblici. Se questo meccanismo pervade e ha pervaso il mondo degli oggetti di grande consumo, che siano automobili, vestiti, biciclette, telefonini; esso diventa davvero endemico quando agisce su artefatti che non possiamo chiamare semilavorati, ma che in ogni caso hanno una destinazione d’uso finale non unitaria, cioè mirata ad essere di servizio, o ad essere proposta in grandi dimensioni e quantità. Nell’un caso, l’esempio più forte viene dal packaging, che può differenziare facilmente gli elementi costitutivi di una serie di confezioni partendo da una matrice iniziale: meno alette, aperture in zone diversi, chiusure differenziate… Nel secondo caso, è proprio la ceramica: una produzione in serie che differenzia formati, spessori e decori a partire da macchine a controllo numerico, con un prodotto destinato ad essere proposto in dimensioni ampie e numeri abbondanti. Non è un caso che le due associazioni di categoria che rappresentano i produttori di macchinari per la lavorazione di ceramica e imballaggi (rispettivamente, UCIMA e ACIMAC) abbiamo la stessa sede e gli stessi apparati direttivi; a Baggiovara, sulla superstrada che collega Modena (capoluogo di provincia) a Sassuolo. Alcune aziende, peraltro, producono macchinari per entrambi i settori merceologici: in una area geografica (le province di Bologna, Modena Reggio Emilia) fortemente caratterizzata da una cultura della meccanica che innerva molteplici settori, oltre a quello ceramico: l’automotive tanto per fare un esempio, ma anche la lavorazione del cibo.
Meccanica non è più però la parola giusta: è meccatronica il termine che descrive quel consolidato innesto dell’elettronica sui procedimenti meccanici, che permette la gestione di variazioni di prodotto sulla base di un comune progetto, potendo l’informatica rendere flessibili ed adattabili alcuni parametri e passaggi della “catena ...

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