Buon Natale, Sarajevo!
Natale 1992
Io almeno, quella permanenza a Sarajevo, l’ho sperimentata così: come trasfigurazione del mistero del Natale.
Dei nostri Natali, a dire il vero, c’erano tutti gli ingredienti.
Le grotte, ma nelle case sventrate.
Gli alberi, ma stroncati e senza stelle filanti.
Le comete, ma instabili sulla capanna perché affidate al fuoco delle granate.
I botti e gli spari, ma più pericolosi dei nostri perché prodotti dai mortai e dai kalashnikov.
I pastori costituiti dalla gente che ci è venuta incontro, ma senza doni di formaggi e di capretti.
C’era la figura del «trasognato», pezzo classico dei nostri presepi, ma senza sorriso sulle labbra e con una meraviglia sconfinante nell’incredulità.
C’erano anche gli angeli che proclamavano la pace in terra agli uomini, ma erano angeli senza ali, che al nostro passaggio per le strade di Sarajevo, non finivano di ripetere «mir, mir, mir», che vuol dire pace!
E c’erano perfino i magi, venuti da lontano, ma non erano solo tre: erano cinquecento, giunti da tanti popoli diversi.
Questa analogia dei magi con la carovana dei cinquecento, a dire il vero, mi ha perseguitato anche al mio ritorno da Sarajevo. Anche noi, in fondo, abbiamo visto la cometa della pace e l’abbiamo seguita. Poi è scomparsa, proprio quando siamo giunti alla casa di Erode. Giunti, infatti, davanti alle potenze militari che tengono sotto controllo la Bosnia, abbiamo subito un calvario di paure, di rimandi, di dinieghi. Abbiamo consumato dei giorni interi in trattative con i potenti, durante i quali abbiamo anche perso il controllo della stella, e si è sfilacciata la speranza. Ma poi ci siamo messi coraggiosamente in marcia, con la stessa caparbietà dei magi, e di notte (impresa mai riuscita, neppure ai caschi blu) siamo entrati in Sarajevo.
Allora è riapparsa per noi la cometa. O Dio, la città era al buio: un buio spettrale, livido, di morte, Anche i dieci autobus, lenti come i cammelli dei magi, scivolavano per le vie della città a fari spenti. Ma per me sembrava tutto illuminato a festa. E quando nella palestra di una scuola, mi sono steso a terra per dormire insieme con i miei compagni di viaggio, mi è parso di ripetere il versetto del vangelo: «prostratisi, lo adorarono».
Ma il Gesù Bambino, da adorare dov’è in questo immenso presepe, sovrastato più dai rantoli di chi muore che dai vagiti di chi nasce?
Ecco, l’abbiamo trovato il giorno dopo. Nelle persone che abbiamo abbracciato lungo la strada. Nei fanciulli che ci venivano incontro per darci la mano e un sorriso di speranza. Nei vecchi commossi per la nostra audacia. Nel giovane soldato piangente alla nostra partenza. Nei capi religiosi della città e nelle autorità civili, che ci hanno implorato di interessare il mondo, l’indifferente, come la città di Betlem, alle sofferenze dei poveri.
Poi, dopo aver lasciato i nostri doni, come i magi, per un’altra strada, l’ONU dei poveri è tornata a casa.
Buon Natale, Sarajevo! Il Signore, quest’anno, sceglierà le tue macerie come sua culla. E ti farà compagnia. Anche se incombe su di te un’ulteriore strage degli innocenti.
Buon Natale, Sarajevo! Gesù Cristo ti faccia sentire forte il suo annuncio di pace, e ti distolga da ogni progetto di violenza e di guerra, sia pure per legittima difesa.
Buon Natale, Sarajevo. Noi cinquecento, non ti dimenticheremo mai. Perché le ferite che non ci hanno provocato le armi da fuoco, ce le hai lasciate tu in cicatrici sanguinanti.
Nella notte santa, sull’albero di Natale rutilante di luci, in segno di speranza, accenderemo una luce pure per te.
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