insegnante facilitatore. Una nuova frontiera
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insegnante facilitatore. Una nuova frontiera

De Sario Pino, Fedi Daniela

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  1. 180 pages
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insegnante facilitatore. Una nuova frontiera

De Sario Pino, Fedi Daniela

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Il "mal di scuola", così diffuso tra gli studenti, si fa largo sempre più anche tra gli insegnanti. Le classi sono formate da gruppi difficili, compositi, dove spesso i freni si allentano fino a provocare situazioni aggressive o veri e propri abusi. Anche gli insegnanti sono in crisi. La domanda è: "hanno perso la voglia di imparare cose nuove, oppure hanno solo un gran bisogno di rigenerarsi, di recuperare fiducia e ricaricare le batterie?". Questo libro non offre un'analisi della crisi. Più modestamente, ma forse anche più efficacemente, vuole avanzare una proposta di cultura e metodo per concepire buone pratiche possibili. Non come una formula magica adatta per tutte le situazioni, ma come un percorso per attraversare le situazioni complesse, i conflitti intricati, i "banchi" di prova reali che ogni giorno si riproducono in aula. La chiave è ripensare il ruolo dell'insegnate come un facilitatore. È un metodo che richiede una valenza sociale ed educativa, un nuovo sapere complesso.

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Information

Year
2012
ISBN
9788861532458
PARTE
PRIMA
art
Origine e principi
della facilitazione
Ci ritroviamo immersi in un’epoca
piena di paure. Ma io credo
che l’uomo possa ritrovare se stesso.
La famiglia e la scuola costituiranno
i due formidabili baluardi
di una nuova rivoluzione
Giovanni Bollea, neuropsichiatra infantile

Una nuova frontiera:
l’insegnante
facilitatore

Non è una ricerca di perfezione astratta

Quando in questi anni ai nostri corsi formativi abbiamo incontrato gruppi di insegnanti ci siamo sempre chiesti: “Ma hanno davvero voglia di imparare cose nuove, oppure hanno solo un gran bisogno di rigenerarsi, di recuperare fiducia e ricaricare le batterie?”. Il dubbio ci ha costantemente accompagnato. Ancora oggi, in occasione di un “corso di insegnante facilitatore” il dilemma resta attuale e aperto. Crediamo tuttavia che per un insegnante avere delle buone metodologie sia fondamentale, al pari però di trovare un proprio bandolo tutto personale (profondo) per gestire le proprie energie e risorse, senza troppe “emorragie” emotive. Cosa che invece sembra sia molto frequente.
A detta di molti, gli insegnanti sono in crisi. E questo libro non offre i perché della crisi, non è infatti il risultato di indagini e misurazioni, bensì vuole essere una proposta di cultura e metodo per illustrare buone pratiche possibili. A differenza però di altri lavori editoriali, questa proposta di metodo e cultura ci piace pensarla aderente e dentro le situazioni, le più concrete, le più spinose, evitando al massimo l’autoreferenzialità della metodologia, che sulla carta ha sempre una parola buona, una via d’uscita. Mentre sappiamo molto bene che è invece la complessità, la crudezza, la complicanza delle situazioni reali a elevarsi a unico e intricato banco di prova. Proviamo dunque lungo tutto il libro a muoverci tra realtà e teoria, tra mappe e concretezza, proprio come quando in aula, come formatori di insegnanti, conduciamo corsi sull’argomento.

La facilitazione e l’approdo
a un piano di metodo

Ma quali sono le tematiche della facilitazione? E facilitazione vorrà forse dire che insegnare è facile? Oppure, che in ogni classe, anche la più dura, è possibile volersi bene, fare lezione fluentemente? Possiamo dire che la “Facilitazione” con la “F” maiuscola si fa largo già in epoche non sospette, vedi nel primo e nel secondo dopoguerra in Usa e in Europa, nella clinica psicologica e nella cosiddetta pedagogia attiva. Ma è con l’esplosione del fenomeno del bullismo, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, che cresce una domanda implicita di facilitazione, che assume nomi diversi, al centro comunque di una richiesta di aiuto diffusa.
Il cosiddetto “mal di scuola”, così proverbiale e stereotipato tra gli studenti, si fa largo sempre più anche tra gli insegnanti. Le classi sono formate da gruppi difficili, compositi, dove sempre più spesso i freni si allentano e nascono situazioni aggressive e anche veri e propri abusi. Come non ricordare qualche mese fa quella maestra elementare, che per dividere due bambini di dieci anni che si stavano azzuffando, ci ha rimesso la milza? E non bastano le situazioni incresciose nel gruppo-classe o direttamente nei confronti di alcuni studenti, va aggiunto l’incremento di situazioni difficili con i genitori, tra cui ad esempio anche casi di botte al preside perché vieta l’uso del cellulare in classe, o anche le diffuse aggressioni verbali provenienti da genitori durante i colloqui sul rendimento dei loro figli.
Va quindi aggiunto che la facilitazione non è buonismo, non è semplificazione, non è un insieme di regole obbligate e pedisseque. Non è il prodotto di una visione positivista delle relazioni e delle istituzioni, scuola compresa, in cui debbano regnare asettiche sensazioni pacifiche e conciliatrici o anche rapporti ordinati, sempre moderati e moderabili. Non è neanche una forma di autocontrollo fisso o la condanna a norme rispettose sempre e comunque dell’altro e del contesto. Ma cos’è allora?
La facilitazione è intervento diretto
e trasformativo
La facilitazione si occupa di entrare nell’agone complicato e disfunzionale, agendo dentro la complessità dei comportamenti, nel basso, perché considera il groviglio divergente e dissonante il luogo fondamentale della moderazione e della ricomposizione relazionale e produttiva.
Lo sappiamo, il termine stesso induce a considerazioni dubbie. Del termine facilitazione, il nostro invito al lettore è di abbandonare il mero piano lessicale che lo vede come sostantivo e verbo ordinario ed elementare: “ti mando una mail così ti facilito il compito”, “la facilitazione dei tuoi acquisti”, “la spesa è facilitata basta un clic”. Così come di tralasciare la parte dei sinonimi e contrari: facilitazione/complicazione, agevolazione/impedimento, appoggio/impaccio, vantaggio/intralcio, concessione/ostacolo.
Proponiamo invece l’approdo a un piano di metodo, dove il termine può acquistare una valenza sociale ed educativa, di nuovo sapere complesso. Perché? Perché tiene conto che ogni persona, relazione, organizzazione abbia aspetti funzionali buoni e aspetti disfunzionali non buoni. Perché tiene conto che qualsiasi aggregazione (famiglia, gruppo, lavoro) presenti necessità produttive e finalistiche al pari di necessità relazionali e socializzatrici. Perché tiene conto che in qualità di mammiferi ultrasociali noi della specie “sapiens” ci attraiamo e ci respingiamo, in un’annosa e spesso incomprensibile altalena fatta di competizione e cooperazione, senza apparenti logiche fisse. O almeno poco pronosticabili. Lasciando quindi il piano lessicale per un piano di metodo, la facilitazione acquista nuovi connotati.
La facilitazione è metodo
ed educazione
È un corredo di strumenti migliorativi intenzionali che aiutano le aggregazioni a non slittare nelle routine conflittuali, bensì a divenire più rispettose e a crescere reciprocamente. Tali strumenti sono situazionali, ovvero studiati per essere adeguati e aderenti a situazioni e persone, per uno stile che integra fattori e attori, ne rispetta ruoli e gerarchie, pur sollecitando evoluzioni inclusive e cooperativistiche e ben sapendo che i richiami competitivi sono frequenti e diffusi.
Nel corso del libro vedremo come sia importante l’“integrazione”, mettere cioè insieme cose e persone, fattori e attitudini, comunemente intesi solo come distinti e separati. L’integrazione è voler avvicinare, allestire nuovi insiemi, pur conoscendo molto bene quali siano le forze che tendono a scindere, separare, escludere. Ma dicevamo dell’integrazione: per esempio di come gli aspetti emotivi in una classe si possano provare a convogliare verso il fare didattico e viceversa. Di come i tratti e i comportamenti di singoli studenti possano giocare con quelli del gruppo, per un aiuto o un contenimento. Di come i comportamenti negativi non sempre siano fini a se stessi, ma possano preservare risorse e opportunità. Quindi, la facilitazione diviene importante proprio perché la classe è il luogo dell’integrazione, dove con un po’ di metodo, si possono regolare con maggiore fluidità i contrasti, le passività, le simpatie e le antipatie. Non dentro un quadro di perfezione, ma di sufficiente fluenza, mettendo in conto però che tutto è in divenire, è mobile, è dinamico: la classe, il singolo studente, le regole scolastiche, il proprio vissuto interno dell’insegnante. Questo lo chiamiamo “casino”1, come un piano di continuo e progressivo movimento, una crosta di bradisismo permanente, dove tutto si muove.
Saper agire “dentro il casino”
Ci sono metodi di insegnamento ma anche di organizzazione che agiscono “sopra il casino”, sono solitamente metodi normativi e regolatori, che partono dall’alto, tipici dei modelli monodirettivi, che si accentrano su regole e capi, azzerando ogni forma di espressione e divergenza, all’insegna della “normazione” e/o della “manipolazione”. Ci sono altri metodi che contemplano “talvolta il casino”, considerandolo come fattore occasionale ed episodico, un incidente circoscritto, al quale tamponare con tanta cognizione riparatrice (troppa), per passare dalla vertenza alla “negoziazione”; siamo già in uno stile a nostro avviso preferibile. Quello che questo libro intende sviluppare è perlopiù la strumentazione per stare “dentro il casino”, quale condizione contemporanea diffusa, perché crediamo che standoci all’interno in maniera vigile, attiva, e per di più attrezzati, si possa riuscire a trasformarlo. Questo approccio si chiama “facilitazione” perché parte dal fatto che il “casino” esiste, e che spesso si prende gioco delle regole, anche di quelle migliori. Ma su questo aspetto avremo modo di tornarci.
art
Fig. 1 – Modelli e strategie da parte dell’insegnante
Qualche anno fa abbiamo tenuto un percorso formativo abbastanza corposo in un istituto professionale toscano, una di quelle scuole italiane dove l’abbandono scolastico è significativo e dove un insegnante su cinque chiedeva aiuto, sotto varie forme. Dal report di una delle insegnanti partecipanti leggiamo:
Il bullismo e le sue diverse forme di aggressività vengono “sbattuti in prima pagina” ma raramente si ha la pazienza di indagare sulle loro premesse, sui comportamenti antisociali diffusi e, ancor meno, di prendersene cura. I docenti coinvolti nel corso si sono chiesti cosa possa fare l’insegnante nei contesti difficili. Come uscire dal circolo vizioso della autocommiserazione di fronte alla demotivazione, alla maleducazione, alle azioni di disturbo degli studenti? Una risposta è arrivata: possiamo diventare “insegnanti facilitatori”, ovvero insegnanti che mettono al centro la persona dello studente, che sanno sostare con lui nella negatività, nel disagio, nell’incertezza e orientarlo verso comportamenti costruttivi. Il corso ha rappresentato come “una reazione nuova” alle difficoltà che gli insegnanti sono chiamati ad affrontare.
Un’altra insegnante partecipante:
Gli insegnanti si annoiano e soffrono del proprio autocommiserarsi e del deprecare i tempi e le generazioni funeste che è dato loro di sopportare. Il corso ha rappresentato un brusco e salutare passaggio al “da farsi”. Personalmente ho tratto soddisfazione dall’uscire dalla solitudine professionale, dalla condivisione non tanto dei problemi (quelli li condividiamo anche troppo) quanto della tensione emotiva e fattiva verso possibili soluzioni.
Da questi brevi racconti emerge una doppia difficoltà: una nel ruolo dello studente e una in quello dell’insegnante. La difficoltà dello studente (e della classe) è data dallo studio stesso, dall’obbligo di studiare, un esercizio che spesso implica fatica, sforzo, stress, rinunce, di cui molto spesso il ragazzo non ne comprende bene il senso; il tutto è poi condito da sentimenti, più frequenti quelli di paura, ansia, disgusto e vergogna (il senso di soddisfazione e piacere c’è eccome, ma possiamo pur dire che è minoritario e saltuario). Sono frequenti frasi del tipo “Non ho voglia di studiare, non mi frega nulla”, “Non mi interessa nulla di questa materia”, “È inutile, queste cose non le capirò mai…”.
La difficoltà dell’insegnante è ben scritta nelle due testimonianze, è di fatto nell’esercizio dell’insegnare, ruolo giuridicamente riconosciuto, con le sue componenti didattiche e di valutazione, ma che sempre di più in questi ultimi dieci anni produce stanchezza, autocommiserazione, solitudine, delusione, inibizione della tensione emotiva. “Come smuovere l’apatia?”, “Mi identifico con la lezione”, “So cosa provo ma mi disturba parlarne con i colleghi, c’è sempre qualcuno che giudica”, “Non mi sento quando sono in classe, sento solo che loro non mi devono contrastare nel programma, quando succede mi dà molto fastidio e mi dà rabbia!”.
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Fig. 2 – Una doppia difficoltà
In quel percorso, schematizzando, abbiamo incontrato due tipi di insegnanti: il primo, per così dire, “dogmatico”, che pur ascoltando i nuovi metodi, ha le sue certezze, una su tutte “coi ragazzi bisogna comandare e farsi valere”, per una paura molto diffusa tra gli adulti in genere, che si chiama “presa del potere”. È infatti difficile che lavorare e aggregare vengano intese come funzioni dinamiche, reciproche, vige fortemente l’asimmetrico “o il potere a me, oppure a te”. Da qui, l’insegnante che si fissa su uno stile normativo, asettico, distaccato, più per paura e ignoranza, ci sembra di poter dire, che per convinzione. Un secondo tipo invece, è l’insegnante “amico della classe”, che cerca sempre l’accordo con gli studenti, è empatico, fa raccontare le loro storie, e si pone in questo un po’ come un fratello maggiore, dentro un ruolo fisso che è amichevole.
art
Fig. 3 – Dogmatico e amicone
L’insegnante facilitatore non è tanto un formato, uno schema, ma un orientamento metodologico, un indirizzo pratico, che non si erge a nuova dottrina. Questo approccio cerca pur tuttavia di evitare il dogmatismo asettico da una parte e l’eccessiva e fissata amicalità dall’altra. Pur comprendendone le ragioni, i retroterra, i buoni motivi per cui un insegnante possa muoversi con quello che ha, che ha acquisito nella professione e nella vita, senza troppe sofisticate elaborazioni.
Il casino in classe c’è,
la perfezione non esiste
Abbiamo detto che la facilitazione tende ad agire “dentro il casino”, proprio perché è il modo migliore per contenerlo, regimarlo, trasformarlo. Questo è il senso “dal basso”, che vuole dire provare a comprendere, ascoltare, immedesimarsi, senza che l’insegnante si carichi tuttavia la classe sulle proprie spalle (non è un assistente sociale, uno psicologo, un mediatore di genitori separati). Egli può essere perlopiù un facilitatore, colui che crea le condizioni più favorevoli per il lavoro in classe.
Domande aperte2:
• Quali strumenti per sostare nella difficoltà e nel casino?
• E se invece di contenere e trasformare la situazione si aggrava?
• Se un giorno non si è al meglio, cosa conviene fare?
Evitare lo stile “dogmatico” da una parte e quello “amicone” dall’altro, non mette certo al riparo l’insegnante da rischi e difficoltà, ma è già un punto fermo. La facilitazione stessa può poi comportare anche degli svantaggi. Il punto che svilupperemo più avanti è tuttavia dato dalla calibrazione per esempio della conduzione della classe, che è bene che sia in forma direttiva e partecipativa, servono entrambi, così come occorre calibrazione nel presidiare il proprio punto di vista, alternandolo con il punto di vista dello studente e della classe.
Ma cosa può rappresentare il bandolo della matassa? Un punto da cui partire? È a nostro avviso dotarsi di una “linea metodologica”, assumendo criteri semplici e chiari, oltre che strumenti operativi applicabili, il senso più profondo del libro. Questa “linea” può aiutare l’insegnante a discernere la complessità, dosando meglio le proprie forze e le proprie esposizioni, non esagerando nelle fissità di ruoli e atteggiamenti, facendo bene e sbagliando, recuperando e riparando, sempre grazie a questa buona linea. Che può sembrare a tratti difficile, sì è vero, ma che può togliere un sacco di castagne dal fuoco e rendere le lezioni più sostenibili e significative.
Ci vuole più metodo,
da aggiungere alla genuinità
Assumere concetti e tecniche vuol dire agire secondo delle coordinate conoscitive, in materia di linguaggio, pensiero, emozioni, comportamenti, automatismi. L’insegnante è un mestiere ultrasociale, emblema delle capacità sociali, sia da incarnare in sé che da diffondere presso i ragazzi. I metodi all’inizio risultano un po’ forzati, ma nel tempo si metabolizzano anche grazie alle proprie risorse innate e personali, alla spontaneità individuale, che chiamiamo genuinità.
Domande aperte:
• I metodi sono d...

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