Profeta... abbastanza. Lettere sulla guerra che ritorna
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don Tonino Bello

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Profeta... abbastanza. Lettere sulla guerra che ritorna

don Tonino Bello

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É incandescente il fuoco dell'indignazione sprigionato da queste lettere. Bruciò don Tonino, nel momento più difficile della sua esperienza pastorale, ma consentì di illuminare, con straordinaria attualità, questo nostro tempo. Don Tonino vide che, proprio nel giorno seguito alle grandi speranze, l'utero della guerra restava ancora gravido e nutrito da silenzi, omissioni, complicità ma anche da insopportabili luoghi comuni.E noi sappiamo che, poi, quell'utero non ha smesso di partorire più e più volte, da allora. Anche in quella terra. Eppure la sua voce, accompagna ancora oggi, con straordinaria attualità, la strada dei tanti che sempre più si ostinano a credere che l'unico volto di Dio sia quello della misericordia, della riconciliazione e della pace. Non la spirale infinita della vendetta.

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Information

Year
2016
ISBN
9788861533523

Postfazione
Bussole per il XXI secolo

“Nessuno tocchi Caino”: con questa bussola Antonio Bello – don Tonino – si faceva strada e faceva luce nel tempo e nello spazio incogniti spalancati dal crollo del Muro.
Si chiudeva allora il secolo che uno storico celebrato, Eric J. Hobsbawm, ha voluto “breve”1: quel 900 che può essere tutto riassunto nell’ascesa e caduta del comunismo storico, tra gli estremi del ’14 e dell’89, tra lo scoppio della prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’URSS. S’avanzavano gli anni Novanta, gli ultimi del già fatale 900. Un decennio di incerta e dubbia paternità: prolungamento estenuato del XX secolo o anticipazione significativa e terribile del XXI e, assieme, del nuovo Millennio? Pronti dagli spalti vittoriosi d’Occidente nuovi profeti provavano a timbrare col sigillo di inediti paradigmi il corso di cose e di uomini, nel tentativo evidente di orientarne la direzione e di perpetuare dominii. E così all’insegna del post si cercava di tastare un incerto o indeterminato futuro, etichettandolo volta a volta come post-moderno, post-bipolare o post-eroico. Quando lo sguardo volgeva al passato, allora, si affidava al The End, la fine, dello “Stato-nazione”, del Lavoro, quando non della “Storia” stessa, come nel caso, fortunato assai, di Francis Fukuyama2.
La storia, invece, si vendicava riprendendo un galoppo sfrenato. Il crollo delle paratie entro cui il bipolarismo aveva tenuto serrato il mondo per quasi mezzo secolo liberava forze immense dai movimenti amplissimi e profondi. Come mercurio sfuggito alla rottura d’un termometro, miliardi di gocce si mettevano in moto in quell’89 fatale: mobilissime ma pronte ad agglutinarsi in configurazioni provvisorie e caduche, subito dissolte al primo urto o rilanciate a nuove avventure dalle spinte anche più modeste. La globalizzazione di stampo neoliberista l’aveva facilmente vinta, imponendosi fascinosa allo sguardo con lo scintillio di merci e capitali nel mondo ridotto a bazaar planetario. Altre, ben più angoscianti, vedute s’affermavano quando la vista si posava, piuttosto, sulle migrazioni e mescolanze di uomini e civiltà, troppe volte vissute come ansiosa e astiosa scoperta dell’“Altro”, quando non presagite e celebrate come “scontro di civiltà”3.
Don Tonino non giungeva impreparato a quegli eventi. Per tempo, in Puglia, nell’estremo tacco dell’Italia protesa ad Oriente e nel Mediterraneo aveva colto – e contestato – i segni di una militarizzazione incipiente dell’Occidente, del Nord, dei padroni dello sviluppo. Conseguentemente ne aveva criticato premesse e ricadute. Da anni levava un grido accorato, perché gli sfreghi con l’Ortodossia e con l’Islam non si mutassero in nuovi assalti e scontri, in un rovesciamento della storia, nel ritorno della guerra tra le donne e gli uomini del pianeta. Da tempo era attivo nelle reti del nuovo pacifismo nato dalla contestazione degli euromissili, dal no a quell’estremo conato del militarismo bipolare. Da sempre si era obbligato all’incontro con l’Altro, vissuto come terrena incarnazione delle differenze che teologicamente si compongono nella Trinità. La sua era una teologia tanto sapiente quanto umanissima, improntata ad una massima di sorprendente apertura al mondo: che il “genere umano” possa “vivere sulla terra ciò che le tre persone divine vivono nel cielo, la convivialità delle differenze”.
Il suo sguardo non si smarriva nei nuovi spazi aperti dal tramonto del vecchio mondo. Semmai, pronto coglieva gli intrecci e le complicanze che i nuovi traffici tra Nord e Sud del mondo inducevano sulle vecchie rotte tra Est e Ovest e sulle ossessioni che vi erano allignate. S’allarmava, perciò, quando percepiva che i più antichi divieti, codificati nelle più moderne e avanzate Costituzioni e divenuti persino “diritto internazionale”, sbiadivano, stingevano a fronte dei nuovi conflitti. Pronto criticava le nuove geografie prive di segnali precisi e affollate da troppe insegne. E così denunciava la resa comoda, ma catastrofica alla scorciatoia della guerra, alla tentazione di affidare vecchi e nuovi nodi al filo della spada, piuttosto che all’opera tenace di mani pazienti e operose, ad uno sguardo attento all’insieme e ai suoi particolari, ad una volontà non avara di tempo e disponibilità.
Ecco perché viveva e impugnava il suo “Nessuno tocchi Caino” come una sorta di Articolo 11 – il “ripudio” della guerra sigillato nella Costituzione italiana – impresso nel DNA dell’umanità, come un marchio originario, resuscitato e celebrato in quel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite che promette e si impegna a “salvare le generazioni future dal flagello della guerra”, dal ritorno catastrofico del primo Novecento e dei suoi orrori. Di qui il suo “no alla guerra” comunque etichettata o benedetta, da chiunque impugnata. La sua documentata contestazione alle improbabili resurrezioni della “guerra giusta” o alle edulcorate e contorte elucubrazioni sulle “operazioni di polizia internazionale” vaccinava anzitempo rispetto al fantasioso, ma lugubre conio degli ossimori più arditi che avrebbe accompagnato, per tutto il corso degli anni Novanta, il nuovo bellicismo occidentale: “guerra umanitaria”, “guerra celeste”. Chissà con quanto sarcasmo avrebbe accolto la pretesa della nuova NATO di “fare il lavoro degli angeli”4 bombardando Belgrado. Sicuramente non avrebbe perdonato quella strana contabilità nascosta nel vanto, tutto occidentale e soprattutto yankee, della zero casualty war: la “guerra a zero morti”. Proprio a partire dalla Guerra del Golfo, infatti, gli alti gradi americani avrebbero preso a vantare, assieme alla guerra ipertecnologica, una nuova algebra, una contabilità particolarmente asimmetrica della morte in guerra, perché tutta risolta a prendersi naturalmente cura e carico del proprio campo, distratta o dimentica quanto alla conta delle perdite altrui, derubricate a “danni collaterali”, ovvero ad inintenzionale trabocco del conflitto nell’urbano, tra i civili. Vero è che tanta prosopopea non avrebbe resistito a lungo. A distanza di tempo gli elenchi sempre più fitti – e soprattutto pubblici – delle vittime da uranio impoverito, anche nelle proprie fila, avrebbero avuto ragione dei silenzi stampa, più o meno centralmente decisi e programmati, e di contabilità compiacenti, docile strumento dei vincitori d’ogni epoca e luogo.
Ma di questi sviluppi – della tragica epopea segnata dalla morte nel XX secolo, iniziata in trincea, tra i militari, e finita col mieter vittime quasi esclusivamente tra civili – don Tonino Bello era critico avvertito. Il suo pacifismo era dolce, ma s’era straordinariamente aguzzato grazie ad una vasta cultura, ad una larga e profonda penetrazione della storia novecentesca. Era figlio di quella nuova età della storia iniziata ad Hiroshima, all’ombra di quel fungo fatale che – come olocausto nucleare – prometteva di non fare prigionieri, di non lasciare superstiti. L’assassinio antico di Abele solo adesso diveniva compiutamente fratricidio: quando l’arma nuova minacciava direttamente tutte le donne e gli uomini del pianeta, affratellati ora fatalmente in umanità, serrati in una identica ma tragica “comunità di destino”, come amava dire Albert Einstein5. Solo ora la guerra – pervertita paradossalmente in possibile suicidio dell’umanità tutta – si costituiva, con buona pace di Carl von Clausewitz, non più come continuazione della politica, ma in sua totale negazione. Qual era ora la posta del gioco mortale? E quale il guadagno di un ipotetico vincitore, avviato anch’egli a dissolversi con la civiltà e il mondo? In quel lampo livido, che riduceva il conflitto a minaccia, a quella perversa e strana forma di ordine segnata dall’ossimoro della “guerra fredda”, don Tonino sapeva scavare a fondo. Vi scorgeva lucidamente il corso della violenza nella storia, fin da quella prima fatale moltiplicazione che dopo Caino immediatamente rilanciò la vendetta per “settanta e sette volte” e rese “la terra corrotta e piena di violenza”.
Sulle orme di Einstein e Gandhi, forte delle conquiste segnate dal Concilio Vaticano II, don Tonino avvertiva che “il lampo di Hiroshima” riclassificava tutta la storia precedente a preistoria: “Nulla può esser più come prima. Ogni guerra è divenuta iniqua perché destinata a travolgere nell’apocalisse drago e cavaliere”. Di questa acuta consapevolezza si nutriva la sua testarda e preveggente difesa dell’art. 11 della Costituzione, il suo no all’invio delle truppe nel Golfo. Ma di lì muoveva anche la sua acutissima percezione della nuova dimensione e potenza che ora acquisiva la mobilitazione pacifista, la carica dirompente della disobbedienza nonviolenta, del no al despota che straccia le carte più sacre, che si sottrae a regole e patti. Il pacifismo che, nel febbraio del 2003, ha celebrato nelle piazze del mondo e sulle colonne del New York Times i suoi fasti come “seconda superpotenza”6, trova nelle pagine di questo volume anticipazioni fulminanti ma anche piste per provare a durare oltre il semplice giorno di festa. Perché di questo oggi esso ha bisogno: d’affermarsi stabilmente come forza costituente del secolo nuovo, portatrice di una utopia realista radicalmente altra dalla distopia della “guerra preventiva”, impugnata dai neo-conservatori di Bush II come rimedio ai mali del mondo.
Don Tonino dispiegava la sua profezia in tempi di rottura e mutamento straordinari. Non solo della politica e degli assetti internazionali intesi nel senso più tradizionale. Osservatori attenti pronosticavano controcorrente, rispetto alla presunta “morte delle ideologie”, la “rivincita di Dio”7, il ritorno delle fedi e dei fondamentalismi: che si trattasse di una seconda evangelizzazione degli USA o d’Europa, o del tentativo di islamizzare la modernità, in risposta ai fallimenti delle sue ideologie e utopie secolari o ai nuovi vuoti della società post-moderna. Il deserto di un mondo ridotto a mercato sospingeva fino alle più radicali conseguenze il tentativo degli uomini di riacquistare controllo, misura e contezza della propria vita, di ridarle senso e valore. Di qui la ricerca di un Dio troppo spesso vissuto come...

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