Postfazione
Bussole per il XXI secolo
âNessuno tocchi Cainoâ: con questa bussola Antonio Bello â don Tonino â si faceva strada e faceva luce nel tempo e nello spazio incogniti spalancati dal crollo del Muro.
Si chiudeva allora il secolo che uno storico celebrato, Eric J. Hobsbawm, ha voluto âbreveâ1: quel 900 che puĂČ essere tutto riassunto nellâascesa e caduta del comunismo storico, tra gli estremi del â14 e dellâ89, tra lo scoppio della prima guerra mondiale e la dissoluzione dellâURSS. Sâavanzavano gli anni Novanta, gli ultimi del giĂ fatale 900. Un decennio di incerta e dubbia paternitĂ : prolungamento estenuato del XX secolo o anticipazione significativa e terribile del XXI e, assieme, del nuovo Millennio? Pronti dagli spalti vittoriosi dâOccidente nuovi profeti provavano a timbrare col sigillo di inediti paradigmi il corso di cose e di uomini, nel tentativo evidente di orientarne la direzione e di perpetuare dominii. E cosĂŹ allâinsegna del post si cercava di tastare un incerto o indeterminato futuro, etichettandolo volta a volta come post-moderno, post-bipolare o post-eroico. Quando lo sguardo volgeva al passato, allora, si affidava al The End, la fine, dello âStato-nazioneâ, del Lavoro, quando non della âStoriaâ stessa, come nel caso, fortunato assai, di Francis Fukuyama2.
La storia, invece, si vendicava riprendendo un galoppo sfrenato. Il crollo delle paratie entro cui il bipolarismo aveva tenuto serrato il mondo per quasi mezzo secolo liberava forze immense dai movimenti amplissimi e profondi. Come mercurio sfuggito alla rottura dâun termometro, miliardi di gocce si mettevano in moto in quellâ89 fatale: mobilissime ma pronte ad agglutinarsi in configurazioni provvisorie e caduche, subito dissolte al primo urto o rilanciate a nuove avventure dalle spinte anche piĂč modeste. La globalizzazione di stampo neoliberista lâaveva facilmente vinta, imponendosi fascinosa allo sguardo con lo scintillio di merci e capitali nel mondo ridotto a bazaar planetario. Altre, ben piĂč angoscianti, vedute sâaffermavano quando la vista si posava, piuttosto, sulle migrazioni e mescolanze di uomini e civiltĂ , troppe volte vissute come ansiosa e astiosa scoperta dellââAltroâ, quando non presagite e celebrate come âscontro di civiltĂ â3.
Don Tonino non giungeva impreparato a quegli eventi. Per tempo, in Puglia, nellâestremo tacco dellâItalia protesa ad Oriente e nel Mediterraneo aveva colto â e contestato â i segni di una militarizzazione incipiente dellâOccidente, del Nord, dei padroni dello sviluppo. Conseguentemente ne aveva criticato premesse e ricadute. Da anni levava un grido accorato, perchĂ© gli sfreghi con lâOrtodossia e con lâIslam non si mutassero in nuovi assalti e scontri, in un rovesciamento della storia, nel ritorno della guerra tra le donne e gli uomini del pianeta. Da tempo era attivo nelle reti del nuovo pacifismo nato dalla contestazione degli euromissili, dal no a quellâestremo conato del militarismo bipolare. Da sempre si era obbligato allâincontro con lâAltro, vissuto come terrena incarnazione delle differenze che teologicamente si compongono nella TrinitĂ . La sua era una teologia tanto sapiente quanto umanissima, improntata ad una massima di sorprendente apertura al mondo: che il âgenere umanoâ possa âvivere sulla terra ciĂČ che le tre persone divine vivono nel cielo, la convivialitĂ delle differenzeâ.
Il suo sguardo non si smarriva nei nuovi spazi aperti dal tramonto del vecchio mondo. Semmai, pronto coglieva gli intrecci e le complicanze che i nuovi traffici tra Nord e Sud del mondo inducevano sulle vecchie rotte tra Est e Ovest e sulle ossessioni che vi erano allignate. Sâallarmava, perciĂČ, quando percepiva che i piĂč antichi divieti, codificati nelle piĂč moderne e avanzate Costituzioni e divenuti persino âdiritto internazionaleâ, sbiadivano, stingevano a fronte dei nuovi conflitti. Pronto criticava le nuove geografie prive di segnali precisi e affollate da troppe insegne. E cosĂŹ denunciava la resa comoda, ma catastrofica alla scorciatoia della guerra, alla tentazione di affidare vecchi e nuovi nodi al filo della spada, piuttosto che allâopera tenace di mani pazienti e operose, ad uno sguardo attento allâinsieme e ai suoi particolari, ad una volontĂ non avara di tempo e disponibilitĂ .
Ecco perchĂ© viveva e impugnava il suo âNessuno tocchi Cainoâ come una sorta di Articolo 11 â il âripudioâ della guerra sigillato nella Costituzione italiana â impresso nel DNA dellâumanitĂ , come un marchio originario, resuscitato e celebrato in quel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite che promette e si impegna a âsalvare le generazioni future dal flagello della guerraâ, dal ritorno catastrofico del primo Novecento e dei suoi orrori. Di qui il suo âno alla guerraâ comunque etichettata o benedetta, da chiunque impugnata. La sua documentata contestazione alle improbabili resurrezioni della âguerra giustaâ o alle edulcorate e contorte elucubrazioni sulle âoperazioni di polizia internazionaleâ vaccinava anzitempo rispetto al fantasioso, ma lugubre conio degli ossimori piĂč arditi che avrebbe accompagnato, per tutto il corso degli anni Novanta, il nuovo bellicismo occidentale: âguerra umanitariaâ, âguerra celesteâ. ChissĂ con quanto sarcasmo avrebbe accolto la pretesa della nuova NATO di âfare il lavoro degli angeliâ4 bombardando Belgrado. Sicuramente non avrebbe perdonato quella strana contabilitĂ nascosta nel vanto, tutto occidentale e soprattutto yankee, della zero casualty war: la âguerra a zero mortiâ. Proprio a partire dalla Guerra del Golfo, infatti, gli alti gradi americani avrebbero preso a vantare, assieme alla guerra ipertecnologica, una nuova algebra, una contabilitĂ particolarmente asimmetrica della morte in guerra, perchĂ© tutta risolta a prendersi naturalmente cura e carico del proprio campo, distratta o dimentica quanto alla conta delle perdite altrui, derubricate a âdanni collateraliâ, ovvero ad inintenzionale trabocco del conflitto nellâurbano, tra i civili. Vero Ăš che tanta prosopopea non avrebbe resistito a lungo. A distanza di tempo gli elenchi sempre piĂč fitti â e soprattutto pubblici â delle vittime da uranio impoverito, anche nelle proprie fila, avrebbero avuto ragione dei silenzi stampa, piĂč o meno centralmente decisi e programmati, e di contabilitĂ compiacenti, docile strumento dei vincitori dâogni epoca e luogo.
Ma di questi sviluppi â della tragica epopea segnata dalla morte nel XX secolo, iniziata in trincea, tra i militari, e finita col mieter vittime quasi esclusivamente tra civili â don Tonino Bello era critico avvertito. Il suo pacifismo era dolce, ma sâera straordinariamente aguzzato grazie ad una vasta cultura, ad una larga e profonda penetrazione della storia novecentesca. Era figlio di quella nuova etĂ della storia iniziata ad Hiroshima, allâombra di quel fungo fatale che â come olocausto nucleare â prometteva di non fare prigionieri, di non lasciare superstiti. Lâassassinio antico di Abele solo adesso diveniva compiutamente fratricidio: quando lâarma nuova minacciava direttamente tutte le donne e gli uomini del pianeta, affratellati ora fatalmente in umanitĂ , serrati in una identica ma tragica âcomunitĂ di destinoâ, come amava dire Albert Einstein5. Solo ora la guerra â pervertita paradossalmente in possibile suicidio dellâumanitĂ tutta â si costituiva, con buona pace di Carl von Clausewitz, non piĂč come continuazione della politica, ma in sua totale negazione. Qual era ora la posta del gioco mortale? E quale il guadagno di un ipotetico vincitore, avviato anchâegli a dissolversi con la civiltĂ e il mondo? In quel lampo livido, che riduceva il conflitto a minaccia, a quella perversa e strana forma di ordine segnata dallâossimoro della âguerra freddaâ, don Tonino sapeva scavare a fondo. Vi scorgeva lucidamente il corso della violenza nella storia, fin da quella prima fatale moltiplicazione che dopo Caino immediatamente rilanciĂČ la vendetta per âsettanta e sette volteâ e rese âla terra corrotta e piena di violenzaâ.
Sulle orme di Einstein e Gandhi, forte delle conquiste segnate dal Concilio Vaticano II, don Tonino avvertiva che âil lampo di Hiroshimaâ riclassificava tutta la storia precedente a preistoria: âNulla puĂČ esser piĂč come prima. Ogni guerra Ăš divenuta iniqua perchĂ© destinata a travolgere nellâapocalisse drago e cavaliereâ. Di questa acuta consapevolezza si nutriva la sua testarda e preveggente difesa dellâart. 11 della Costituzione, il suo no allâinvio delle truppe nel Golfo. Ma di lĂŹ muoveva anche la sua acutissima percezione della nuova dimensione e potenza che ora acquisiva la mobilitazione pacifista, la carica dirompente della disobbedienza nonviolenta, del no al despota che straccia le carte piĂč sacre, che si sottrae a regole e patti. Il pacifismo che, nel febbraio del 2003, ha celebrato nelle piazze del mondo e sulle colonne del New York Times i suoi fasti come âseconda superpotenzaâ6, trova nelle pagine di questo volume anticipazioni fulminanti ma anche piste per provare a durare oltre il semplice giorno di festa. PerchĂ© di questo oggi esso ha bisogno: dâaffermarsi stabilmente come forza costituente del secolo nuovo, portatrice di una utopia realista radicalmente altra dalla distopia della âguerra preventivaâ, impugnata dai neo-conservatori di Bush II come rimedio ai mali del mondo.
Don Tonino dispiegava la sua profezia in tempi di rottura e mutamento straordinari. Non solo della politica e degli assetti internazionali intesi nel senso piĂč tradizionale. Osservatori attenti pronosticavano controcorrente, rispetto alla presunta âmorte delle ideologieâ, la ârivincita di Dioâ7, il ritorno delle fedi e dei fondamentalismi: che si trattasse di una seconda evangelizzazione degli USA o dâEuropa, o del tentativo di islamizzare la modernitĂ , in risposta ai fallimenti delle sue ideologie e utopie secolari o ai nuovi vuoti della societĂ post-moderna. Il deserto di un mondo ridotto a mercato sospingeva fino alle piĂč radicali conseguenze il tentativo degli uomini di riacquistare controllo, misura e contezza della propria vita, di ridarle senso e valore. Di qui la ricerca di un Dio troppo spesso vissuto come...