Di padre in padre
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Di padre in padre

A. Coppola, De Vanna F., D'Elia L. Gigante

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A. Coppola, De Vanna F., D'Elia L. Gigante

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"Quello che vi accingete a leggere è un libro che può essere apprezzato da genitori, educatori e studiosi, ricco com'è di riflessioni ed esemplificazioni esposte in un linguaggio semplice e scorrevole." (dalla Prefazione di Fulvio Scaparro)Può un padre esprimere la propria vulnerabilità affettiva e la ricchezza delle sue tensioni emotive senza perdere la sua identità o rinunciare alla possibilità di proporre percorsi di vita per il figlio?E' il problema di fondo che emerge nelle nuove generazioni di padri, che sta portando con forza alla luce la questione "paternità", spesso oscurata dalla pratica e dalla retorica del ruolo paterno distinto, anzi opposto a quello materno. Un numero sempre maggiore di padri si è trovato a lottare per essere riconosciuto come genitore presente fin dal concepimento nella vita dei figli e in grado di assolvere anche ai compiti, doveri e responsabilità a torto creduti non tradizionali.Il maschio normativo sta scoprendo di avere caratteristiche affettive che erano, e purtroppo lo sono ancora, considerate un'esclusività femminile: dolcezza, rispetto, amore.E' lungo, molto lungo, il cammino che uomini e donne dovranno compiere per accettare le loro diversità e finalmente riconoscersi uguali almeno in questo: tutti noi vogliamo vivere come essere umani, cioè come cercatori e produttori di senso, come individui fertili. Ma non basta proclamarlo; occorre praticarlo in casa, a scuola, nel lavoro, ovunque. Una grande responsabilità educativa perchè i figli osservano e imparano dai rapporti tra padri e madri, tra uomini e donne.

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Information

Year
2011
ISBN
9788861532175

1.

Padri al passato*


di Lazzaro Gigante

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1.1 PREMESSA

Al centro della piazza principale di Roma grandeggia una statua equestre. Rappresenta Marco Aurelio, un personaggio famoso di due millenni fa. Il fatto che Roma, per alcuni l’ombelico del mondo, gli dia gloria e onore vuol dire che egli, nonostante il tempo, resta una garanzia, per l’oggi come per il domani.
L’opera principale di quel saggio non è tanto dovuta al suo essere imperatore e filosofo, quanto pure grande ritrattista. Infatti, nella prima parte del suo libro, Ricordi, esprime la gratitudine verso coloro che lo hanno educato:
da Vero, mio nonno, ho appreso l’abitudine a essere gentile e a escludere ogni impeto d’ira. Dalla fama e dal ricordo di colui che mi ha dato la vita, pudore e comportamenti virili. […] Dal mio bisavolo l’aver avuto modo di non frequentare le scuole pubbliche; inoltre aver potuto far uso di buoni maestri chiamati in casa, e aver potuto comprendere che, a riguardo, abbiamo il dovere di affrontare ogni spesa senza risparmio. […] Da mio padre [di adozione], la mitezza e la decisa fermezza nelle decisioni già prese; l’indifferenza verso quelli che si ritengono onori; l’amore e l’assiduità al lavoro; inoltre la prontezza ad accogliere il consiglio di chi potesse contribuire all’utile comune; ancora, il senza riguardi distribuire a ciascuno secondo i suoi meriti; l’occhio esperto per distinguere i casi in cui è necessaria la severità oppure l’indulgenza1.
Marco Aurelio continua con una lunghissima serie di abilità, doti e capacità sviluppate in lui grazie al suo genitore.
Cosa si può dire oggi dei padri che ci hanno preceduto? Le pagine di questa prima parte cercano di dare qualche risposta. Esse risentono della difficoltà di presentare la “paternità”, perché è innumerevole la schiera di generazioni di padri e ognuno ha segnato a suo modo quel ruolo. Se i figli somigliano ai padri in qualche modo e ai nonni in una minima parte, vuol dire forse che anche i pronipoti conservano nel DNA qualcosa che li rende attuali e contemporanei ai propri ascendenti.
Ciò significa che quando si dice “c’erano una volta i padri…” si intende affermare che lo srotolarsi delle generazioni non è affatto tramontato e che per capirli è necessario ripercorrere la memoria del loro cammino. Per questa necessità di comprendere il presente e in qualche modo la gestazione del futuro, l’intendimento di questo primo capitolo non è di affrontare la complessa questione della storia della paternità2, ma di tracciare alcune, molto sommarie linee di riferimento. Così è più agevole riflettere sul senso e sulle direzioni della trasformazione del ruolo paterno.
Intanto, si può affermare che:
alle radici della paternità vi è un’antica realtà in cui il legame biologico con i figli da parte dell’uomo era sconosciuto. La scoperta del suo contributo genetico e un lungo travaglio culturale hanno dato vita alla moderna e tradizionale concezione […] La paternità non c’è in natura fin dall’inizio come la maternità, ma si costruisce sul modello di questa, attraverso l’estensione al padre di funzioni materne. Il padre diventa padre facendo quello che fa la madre3.
Per il momento conviene assumere tale affermazione come orientativa, data la prospettiva più complessa esposta nel terzo capitolo di questo volume. Per questo è sicuramente poco corretto e significativo l’approccio che fotografa il ruolo educativo paterno quasi fosse un oggetto o un’idea pura, universale, immutabile e astratta, in quanto ne collega le espressioni unicamente alla dimensione biologica e sessuata.
In questi anni si assiste, invece, a ripetute dichiarazioni che da un lato lamentano la crisi del ruolo tradizionale paterno e dall’altro confermano la nascita di un “nuovo” padre, tanto da chiedersi se ci troviamo di fronte a un processo di rinascita del padre4.
È prematuro avanzare conclusioni. Questa premessa serve solo a dire subito che è impossibile delineare un’unica tipologia di padre, indifferente all’evoluzione dei secoli. Peraltro, se solo ci fermassimo all’Ottocento, dovremmo anche chiederci: il padre di quale famiglia? Quella contadina, operaia, borghese?5 È vero che in tutte le famiglie c’era un padre, ma ogni singolo padre aveva peculiarità che lo distinguevano dagli altri. Per questo è veramente impossibile tracciare un identikit del padre “tradizionale”6. Il mondo paterno è diventato nel corso dell’ultimo secolo sempre meno un universo perché è realmente un pluriverso. Essere padre ha significato sempre più calibrarsi sulle diverse esigenze evolutive e sui gradienti di sviluppo del figlio in relazione agli ambienti che hanno avuto influenza su di lui e sul sistema familiare.
Perciò, nei capitoli che seguono vi è questa oscillazione tra l’individuazione di un tipo di padre che riassume nel suo ritratto una folla di suoi compagni più o meno appartenenti allo stesso stato sociale, periodo storico, occupazione, ecc. e l’analisi di dettaglio che fa emergere quelle peculiarità che indicano una crisi del livello di paternità raggiunto in precedenza e l’iniziale germinazione di un nuovo modo di essere.
Per l’economia di questo primo capitolo – che non è affatto storico, ma solo indicativo di alcuni assi di sviluppo della paternità– si privilegerà il ricorso a quadri sociali di quest’ultimo secolo e in particolare dei decenni più recenti, per meglio capire il travaglio del ruolo paterno.
Novecento (film del 1976 diretto da Bernardo Bertolucci) è un formidabile affresco dell’Italia. La dimensione ideologica di questo film è sicuramente corposa, ma non limita la sostanziale correttezza interpretativa di molte vicende che hanno caratterizzato il secolo scorso, nelle quali è possibile intravedere molti ritratti di padri con le caratteristiche della loro generazione. È la storia di due ragazzi, di due famiglie, di due classi, di due mondi dentro un universo tutto sommato coeso. I due ragazzi sono amici pur essendo l’uno figlio di latifondisti e l’altro di contadini. I loro giochi non sembrano risentire della conflittualità esistente tra le due classi, quella dei servi e quella dei padroni, almeno fin quando la loro gioventù non polarizzerà la diversità delle radici e degli sviluppi della vita, certamente differenti tra i due, almeno a partire dalla Grande Guerra, combattuta soltanto dal più povero. Uno diventerà padrone della fattoria e l’altro capo dei braccianti. Il primo sarà connivente dei fascisti, l’altro il suo antagonista e giudice alla fine della dittatura. La trama così riassunta non rende ragione della bellezza e profondità di alcune sequenze, dove la forte connotazione dei padri corazza le identità dei figli, tanto da renderli comunque capaci di fronteggiare gli sconvolgimenti del secolo senza arrendersi al tramonto di una civiltà, che non viene avvertito, tanto resta profonda la nostalgia di essa. Non per nulla i ragazzi sono nati nello stesso giorno e nella stessa pianura emiliana, e con loro permane, nonostante le avversità personali e collettive, l’omogeneità di un universo solidale.
Non altrettanto può dirsi del quadro sociale che realisticamente emerge da La meglio gioventù (film del 2003 diretto da Marco Tullio Giordana), dove due fratelli vivono le vicende degli ultimi decenni del Novecento a partire dall’alluvione di Firenze e dal Sessantotto, per giungere agli anni di piombo, all’omicidio di Giovanni Falcone e a Tangentopoli. Anche qui la storia viene vista attraverso la progressiva differenziazione delle condizioni di vita dei fratelli (uno psichiatra, l’altro poliziotto), accomunati dal diventare una generazione profondamente diversa da quella dei loro genitori.
Per facilitare l’analisi dei tratti dei differenti padri di quest’ultimo periodo si tracciano di seguito alcune sommarie indicazioni.
Gli anni Cinquanta sono caratterizzati dall’America, che è la superpotenza economica più ricca del mondo e può permettersi un tenore di vita che gli europei, a causa della guerra, soltanto si sognano. I giovani inseguono i miti del selvaggio con la moto e il giubbotto di pelle per assomigliare a Marlon Brando (Il selvaggio, 1954), oppure imitano James Dean con la sua spettacolare Porsche Spider 550 (l’automobile che l’attore stava guidando quando morì nel 1955), per scrollarsi di dosso il rispetto scrupoloso dei doveri e la miseria dei propri genitori. Ma Hollywood costruisce un nuovo idolo: Elvis Presley. Con lui i giovani padri di quel tempo si distinguono per l’esibizione ritmata dei movimenti pelvici, i capelli a banana, le lunghe basette, i giacconi di pelle, i jeans. Elvis di fatto rappresenta quella che fu definita la prima generazione di giovani: non un periodo di vita tra l’infanzia e l’età adulta, con tutte le differenze derivanti dall’etnia di appartenenza, ma un modo di essere trasversale ai gruppi sociali. Anche l’Italia è affascinata dal mondo opulento d’oltre oceano: basti ricordare il sogno di Alberto Sordi in Un americano a Roma (1954). Tuttavia, la vita di quei padri continua a essere dominata dal trinomio lavorochiesa-famiglia. Il mondo privato e quello pubblico si valorizzano reciprocamente anche a livello morale. In questo paese ordinato e orientato allo sviluppo economico7, i giovani certamente entrano in conflitto con i loro genitori, ma solo perché questi non si adeguano alla modernità incalzante. Se pure hanno più soldi da spendere, sono tuttavia anticonformisti nei consumi, ma conformisti dal punto di vista etico e valoriale.
Negli anni Sessanta emerge la rivendicazione di nuovi diritti e stili di vita in lotta contro la cultura tradizionale, orientata appunto allo sviluppo consumistico. La controcultura giovanile vuole il rinnovamento della morale, ritenuta ipocrita. Essere giovani significa assumere un impegno sociale e politico capace di trasformare le relazioni interpersonali, la religione, la politica, il lavoro e la scuola grazie al privato che diventa pubblico, cioè ai nuovi spazi di libertà che devono ridefinire le vecchie regole e istituzioni. L’obbedienza non è più una virtù.
Questo processo non è così omogeneo nel mondo. In America i figli dei fiori, gli hippies, desiderano evadere dalla cultura occidentale, avere una vita semplice e improntata a un comunismo individualistico, un’espansione delle capacità personali anche attraverso la droga. In Inghilterra nasce il beat. La canzone My Generation nel 1963 segna l’inizio non solo di una rivoluzione musicale, ma soprattutto dell’antagonismo contro gli adulti al grido di “Spero di morire prima di diventare vecchio” (The Who).
L’Italia, pienamente coinvolta nei processi di industrializzazione e nel boom economico, nella seconda metà degli anni Sessanta è preoccupata dai fermenti di contestazione. Il mondo della scuola è scosso dalla richiesta di rinnovamento della Lettera a una professoressa di don Milani. La gioventù, sedotta dalla nuova compagnia della tv, risponde a modo suo, suggestionata da una parte dalle ballate folk di Dylan, che parlano di pace e libertà, dall’altra dal più spensierato beat inglese. Però i Nomadi cantano Dio è morto di Guccini, che viene censurata dalla RAI.
In particolare negli anni Settanta, in Italia, la contestazione sta gradualmente variando il significato dell’etica (cosa è bene? Cosa è male?) e imponendo modifiche alle tradizionali regole, gerarchie e strutture. La fine degli anni Settanta è caratterizzata dalla ricerca di stili di vita individualizzati, che enfatizzano la vita privata e svalutano quella pubblica. Poiché tramonta il sogno di trasformare la società, il volontariato, cioè lo sforzo individuale, diventa il sostituto della politica.
Molti giovani cercano il disimpegno, visto il tramonto degli ideali del Sessantotto, e sono trascinati dal riflusso. Come reazione all’ipocrisia di una società che ha rincorso la filosofia individualista degli hippies, comodamente fuggiti nei paradisi della droga, emerge il punk, che vuole distruggere tutto e denunciare con rancore la condizione dei ragazzi delle borgate e delle periferie. Rapato a zero o con capelli irti dai colori appariscenti, dichiara la sua identità provocatoria insieme al disprezzo della società dei consumi, causa di tante sofferenze. N...

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