Capire i Balcani occidentali
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Capire i Balcani occidentali

Dagli accordi di Dayton ai giorni nostri

Giustina Selvelli, Giulio Crespi, Giorgio Fruscione, Alfredo Sasso, Marco Siragusa, Martina Napolitano

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Capire i Balcani occidentali

Dagli accordi di Dayton ai giorni nostri

Giustina Selvelli, Giulio Crespi, Giorgio Fruscione, Alfredo Sasso, Marco Siragusa, Martina Napolitano

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Sempre più spesso meta preferita dai turisti nella stagione estiva, i Balcani occidentali restano oggi uno spazio europeo per molti versi sconosciuto. I più ne ricordano le tragedie delle guerre degli anni Novanta, ma nei trent'anni ormai trascorsi dal loro scoppio nel 1991 poche volte questi paesi sono balzati nuovamente agli onori delle cronache. Gli autori di questo volume (ricercatori e giornalisti che da anni si occupano della penisola balcanica) provano dunque a tracciare una panoramica ricca e aggiornata delle caratteristiche e dei fenomeni (economia, ambiente, rotta balcanica, identità, memoria storica, cultura, gastronomia) che hanno caratterizzato (e continuano a farlo) Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Montenegro, Kosovo, Macedonia del Nord e Albania a partire dal 1995, l'anno in cui gli accordi di Dayton posero fine al conflitto di disgregazione della Repubblica socialista federale di Jugoslavia. Postfazione di Marina Lalovic.

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Information

Year
2021
ISBN
9791280219251
CAPITOLO 1: IDENTITÀ, NAZIONI, CONFINI
di Marco Siragusa
Affrontare il tema delle identità nei Balcani è sempre complicato e pericoloso. Nel prendere in esame l’argomento si corrono in primo luogo due rischi: da un lato, quello di trattare la regione come un luogo in cui identità reciprocamente escludenti si scontrano tra loro, dall’altro, si rischia al contrario di presentarla come un unicum, andando inevitabilmente a semplificare e appiattire storie e culture.
Che le questioni identitarie siano state in molte occasioni tra i motori storici della regione è fuor di dubbio. Probabilmente una facile soluzione è riconoscere che non esiste un’unica, né tanto meno omogenea, “identità balcanica”, evitando però di sfruttare in maniera strumentale diversità e contrapposizioni, come nel rimarcare, ad esempio, la superiorità di un popolo rispetto a un altro. Se, da un lato, è necessario saper riconoscere l’eredità delle diverse culture che hanno caratterizzato la regione, dall’altro esse non devono venire utilizzate quali elementi fondanti e giustificatori di uno scontro tra popoli.
Insieme a ciò bisogna però ammettere che le eredità storiche lasciano ancora oggi aperte tante questioni, prima fra tutte quella delle rivendicazioni territoriali. Ciononostante, c’è stato (almeno) un periodo in cui il tema identitario ha assunto caratteri diversi. L’esperimento della Jugoslavia socialista infatti non si basava più tanto sull’idea di nazione, come accaduto fino alla prima metà del Novecento, bensì sull’abbattimento delle discriminazioni tra classi sociali. Sorto dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, questo stato ha provato a superare la questione nazionale inserendola nella più ampia lotta in nome di una società senza divisioni. L’esperienza, tuttavia, dopo aver garantito pace e prosperità per quasi cinque decenni (dal 1945 al 1992), è notoriamente implosa su se stessa anche per la mancata risoluzione definitiva del problema nazionale.
Oggi, a completare il quadro, vi è la presenza di una nuova forma di identità, che del tutto “nuova” poi non è. Si tratta dell’identità europea, incarnata idealmente dall’Unione Europea, ed equivalente all’insieme di valori e istituzioni che oggi rappresentano, almeno a parole, l’orizzonte privilegiato della regione balcanica. Un’identità, l’unica dai tempi dell’esperienza jugoslava, che potrebbe permettere il superamento dei particolarismi, ma che purtroppo si rivela troppo spesso poco più di uno specchietto per le allodole capace, nella migliore delle ipotesi, di mantenere uno status quo controproducente o, nelle ipotesi peggiori, di aggravare le distanze tra stati e popoli.
In Europa ci si domanda con sempre più insistenza se abbia ancora senso definirsi italiani, tedeschi o francesi, o se valga la pena cominciare a immaginarsi e definirsi come “europei”. Per i popoli dei Balcani occidentali essere “europeo” equivale a essere accettati nel club dei grandi, uscire da quella condizione di perenne subalternità e pregiudizio che li ha travolti loro malgrado per secoli.
Il capitolo è suddiviso secondo aree tematiche che tengono in considerazione le questioni identitarie che più hanno influenzato le relazioni tra i popoli della regione. Tra queste, l’identità religiosa, le differenze etniche, l’appartenenza di classe nel sistema socialista, i nazionalismi, le rivendicazioni territoriali e come queste abbiano continuamente modificato i confini statali. Emergerà in maniera evidente come le diatribe odierne legate alle questioni identitarie, nazionali e territoriali risalgano in larga misura a traumi ed eventi storici dalle radici tanto antiche quanto recenti (del Novecento, in primo luogo). Oggi si stagliano e si intersecano tuttavia su un nuovo piano europeo e globale, facendosi talvolta riflesso ed espressione di tendenze rintracciabili anche in altri macro-contesti meno strettamente regionali.
La religione
Uno degli elementi fondamentali da tenere in considerazione quando si parla di Balcani occidentali è sicuramente costituito dalla religione, capace di agire contemporaneamente sia come collante interno alle comunità, sia come fattore disgregante verso l’esterno. I Balcani presentano un puzzle religioso estremamente variegato, risultato dell’eredità storica delle lunghe dominazioni che hanno caratterizzato la storia della regione.
Per oltre sei secoli (1109-1797) gran parte della costa adriatica, specialmente nelle aree dell’Istria, della Dalmazia, del Montenegro e dell’Albania, è stata amministrata dalla Repubblica di Venezia. Le zone interne subirono invece la dominazione delle altre grandi potenze dell’area. Da un lato, Austria e Ungheria, nelle loro varie forme e denominazioni, che tra il 1102 e il 1918 occuparono l’area corrispondente alle odierne Slovenia, Croazia e il nord-ovest della Bosnia ed Erzegovina. Dall’altro lato, l’Impero Ottomano, che tra il XIV secolo e l’inizio del XX secolo occupò il territorio che si estende dalla Bosnia centro-meridionale fino all’Albania.
Questa divisione ha avuto ripercussioni anche in termini religiosi. Nelle aree che si trovavano sotto il controllo austro-ungarico si diffuse maggiormente, sebbene non in maniera esclusiva, il cattolicesimo. Non a caso i paesi della regione a maggioranza cattolica sono Slovenia (70%) e Croazia (86%). Curioso è il dato, registrato dall’Eurobarometro nel 2019, relativo alle persone che si dichiarano atee o agnostiche in Slovenia: rispettivamente il 14% e il 4%. Un dato che deriva da una più profonda secolarizzazione delle istituzioni slovene.
Ben diversa invece la presenza della religione nella società in Croazia: il paese è infatti fortemente legato alla Chiesa cattolica romana, la quale non ha mancato di garantire il proprio sostegno nelle varie fasi della lotta per la creazione di uno stato croato. Durante la Seconda guerra mondiale, si distinse la figura del noto cardinale Alojzije Viktor Stepinac, accusato di collaborazionismo con i nazisti; nel conflitto degli anni Novanta, invece, ricordiamo il supporto di papa Giovanni Paolo II all’indipendenza dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Un altro aspetto che sottolinea la volontà di distinguersi dagli altri popoli slavi è il mantenimento dell’alfabeto glagolitico, in alternativa a quello cirillico, in ambito religioso e, ancora oggi, in molti monumenti dall’afflato nazionale.
La dominazione ottomana riguardò invece la parte centro-meridionale dei Balcani ed ebbe inizio con la storica battaglia di Kosovo Polje (Piana dei Merli) del 1389 che vide contrapporsi l’esercito imperiale e un’alleanza di principi locali cristiani guidata dal serbo Lazar Hrebeljanović. Nonostante la sconfitta, l’evento è considerato dai serbi come un momento eroico della propria storia in cui vi si autorappresentano come strenui difensori della cristianità contro l’avanzata islamica in Europa. La battaglia viene così utilizzata quale elemento fondativo dell’identità serba e su essa poggiano anche le attuali rivendicazioni sul territorio del Kosovo, considerato di conseguenza la culla della cultura serba.
Uno dei lasciti più evidenti della dominazione ottomana è la presenza di ampie aree a maggioranza musulmana: oggi la Bosnia ed Erzegovina (51% della popolazione), l’Albania (56,7%) e il Kosovo (95%) sono gli unici paesi europei con una maggioranza non cristiana della popolazione. A questi territori si aggiungono le regioni del Sangiaccato serbo, nel sud del paese, e quella del Polog in Macedonia del Nord al confine con Albania e Kosovo. In Bosnia ed Erzegovina il puzzle religioso ricalca quello etnico con la presenza di circa un 30% di ortodossi e di un 15% di cattolici. In Albania il 13,7% della popolazione si dichiara atea o agnostica, un lascito evidente del lungo periodo comunista, mentre il 10% si confessa cattolico e il 6,7% ortodosso.
Nonostante l’Islam “balcanico” sia sempre stato di stampo moderato e lontano dalla rigidità tipica di alcuni paesi arabi, tanto da conoscere ampie forme di sincretismo con le altre religioni e usanze tradizionali, negli ultimi anni si sono manifestati significativi segnali di radicalizzazione. Un fenomeno reso evidente dall’alto numero, comparato alla popolazione totale, di combattenti partiti per partecipare a fianco dello Stato Islamico nella guerra in Siria. Secondo l’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence (ICSR), tra il 2012 e il 2015 sono stati circa 330 i foreign fighters partiti dalla Bosnia e, secondo stime governative, circa 300 quelli provenienti dal Kosovo.
Il terzo grande nucleo religioso dei Balcani è rappresentato infine dai cristiani ortodossi. Questi sono la maggioranza in Serbia (84,6%), Montenegro (72%) e Macedonia del Nord (69,6%). In questi ultimi due paesi l’Islam è professato rispettivamente dal 19% e dal 28% della popolazione.
Divenuta autocefala nel 1219 sotto la guida di san Sava, la Chiesa ortodossa serba ha giocato un ruolo centrale nella politica del paese sin dalla sua nascita. Lo stesso Sava era figlio di Stefan Nemanja, il primo che riuscì a riunire i serbi in un unico stato nel 1168. Nei secoli la Chiesa ha spesso agito come entità politica parallela a quella statale, acquisendo un peso significativo nelle vicende regionali. Appoggiò dapprima il Regno di Jugoslavia instaurato nel 1929 da re Alessandro e collaborò poi, durante la Seconda guerra mondiale, con la fazione filo-monarchica dei čet­nici. Inizialmente sostenitrice di Slobodan Milošević e dell’idea di una Grande Serbia, nelle guerre degli anni Novanta la Chiesa ortodossa locale appoggiò le azioni di pulizia etnica dei gruppi paramilitari guidati da Radovan Karadžić, Ratko Mladić e Željko Ražnatović, noto come Arkan.
Più recentemente, nell’autunno 2019, dopo l’approvazione di una contestata legge sulle proprietà religiose da parte del governo montenegrino, la Chiesa ortodossa serba è stata in prima linea nella grande mobilitazione che ha contribuito, un anno dopo, alla sconfitta elettorale di Milo Đukanović, da trent’anni al potere.
Si intuisce allora come nei Balcani occidentali l’appartenenza religiosa risulti essere un elemento ancora fondamentale nell’identificazione nazionale.
L’etnonazionalismo di inizio Novecento
Se l’elemento religioso ha contribuito a distinguere tra diverse identità nella regione, l’aspetto etnico e quello nazionale hanno avuto conseguenze importanti sui confini e sull’organizzazione statale dei popoli. Le lotte per il riconoscimento di una propria entità statale indipendente hanno scandito le evoluzioni e le trasformazioni politiche della regione soprattutto negli ultimi due secoli.
Il dominio dei grandi imperi cominciò a esser messo in seria discussione all’inizio dell’Ottocento. A partire dal 1804 in Serbia scoppiarono dure rivolte contro l’Impero Ottomano, considerate come la fase preparatoria di un più ampio e completo processo di indipendenza e “deottomanizzazione” della regione. Le rivoluzioni europee del 1848 e i processi di unificazione tedesco e italiano contribuirono alla diffusione di sentimenti nazionalisti cui seguirono importanti scontri militari, come la rivolta in Bosnia ed Erzegovina del 1875. Tre anni dopo, nel 1878, il Congresso di Berlino riconobbe l’autonomia del Montenegro e l’indipendenza della Serbia. La Bosnia ed Erzegovina continuò a rimanere formalmente territorio ottomano, ma venne posta sotto la tutela austro-ungarica fino al 1908, anno in cui venne definitivamente annessa a Vienna. A differenza di quanto avvenuto negli anni Novanta del secolo scorso, molto spesso le lotte nazionali dell’Ottocento non avevano un carattere esclusivo, tendente alla creazione di stati etnicamente omogenei. Ne è dimostrazione la diffusione delle prime idee di carattere compiutamente jugoslavista già a metà del secolo, portate avanti soprattutto da due preti cattolici croati: Josip Juraj Strossmayer (1815-1905) e Franjo Rački (1828-1894).
È tuttavia nei primi anni del Novecento che la questione nazionale raggiunge il suo culmine. Il momento di svolta è rappresentato dalle due guerre balcaniche del 1912 e del 1913. La prima vide contrapporsi i regni di Montenegro, Serbia, Bulgaria e Grecia, riuniti nella Lega Balcanica, contro l’Impero Ottomano. La vittoria della Lega venne sancita dal Trattato di Londra del 1913 che riconobbe l’indipendenza dell’Albania, ma non riuscì a trovare una soluzione soddisfacente per la Macedonia, contesa tra Serbia, Bulgaria e Grecia. Proprio lo scontro su questo punto portò alla Seconda guerra balcanica, che vide la Bulgaria attaccare gli ex alleati uscendo, però, sconfitta dopo appena due mesi di combattimenti. La pace di Bucarest garantì alla Grecia parte della zona meridionale della Macedonia, fino a Bitola. Il resto del territorio venne annesso alla Serbia, che si candidava così ad assurgere al ruolo di paese guida nell’unificazione dei popoli slavi meridionali.
Fu proprio l’idea della liberazione dei popoli slavi dalle dominazioni imperiali e la formazione di un’unica nazione jugoslava (letteralmente, degli “slavi del sud” da jug, sud) a spingere il giovane Gavrilo Princip ad assassinare l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia il 28 giugno 1914 sul ponte Latino di Sarajevo. Come è noto, l’evento rappresentò il casus belli della Prima guerra mondiale, alla conclusione della quale nacque, il 1o dicembre 1918, la prima esperienza jugoslava: prese forma allora il Regno di Sloveni, Croati e Serbi sotto la guida di re Pietro I e di suo figlio Alessandro Karađorđević. Per la prima volta i popoli slavi meridionali si ritrovavano dunque riuniti in un’...

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