Lasciate le colline, lo portarono per difficili passi, pressoché
impraticabili, dove il nemico non osava avventurarsi, dove i
cavalli non erano più in testa, ma in coda.
Lo
misero su una barella per i feriti. Aveva voluto fare il viaggio
sulla sua cavallina nera. Cavalcava corrucciato, il capo reclinato,
il braccio sinistro come morto e,
poco dopo la cima Bacio del Cielo, era crollato.
Quando rinvenne e si trovò in
barella, cullato dal movimento ritmico dei portatori, si limitò a
guardarli e si astenne dal protestare. Per un giorno e una notte si
trascinarono sulle brulle erte dell’Hopei settentrionale. Era una
carovana silenziosa, ostinata, composta di uomini, cavalli, muli.
Di giorno il sole di novembre era come un grande occhio solitario
velato di lacrime, un sole che non si stancava di guardare fra
lembi di nuvole. Di notte le stelle, sospese sui dirupi quasi a
sfiorarli, rischiaravano il cammino con la loro fredda luce. E mai
cessava il rumore dell’artiglieria, un lontano rumore come di
tuono.
La carovana andava fra la polvere,
la nebbia (diffusa sugli anfratti, che somigliavano così a laghi
montani), attraverso sentieri scavati nella roccia, punti intricati
dove ogni passo era contrastato. E andò finché quelle montagne, che
non finivano mai, furono lasciate alle spalle. Allora Tung Yu Cian,
un tozzo individuo che guidava la carovana cavalcando la cavallina
nera, alzò una mano. Tutti si fermarono a guardare l’ampia vallata
che si stendeva ai loro piedi.
Fong ruppe il silenzio. «Là»,
disse, «c’è il villaggio di Pietra Gialla». Lo indicò con la mano.
E la carovana incominciò a discendere.
Per un’ora scesero lungo i tortuosi
fianchi della montagna, finché non videro distintamente le scure
case del villaggio e le minuscole figure degli abitanti, che
accorrevano dai campi vicini. Quando la carovana raggiunse il
piano, una gran folla era raccolta davanti alla porta
settentrionale di Pietra Gialla. La carovana si stava avvicinando e
allora dalla folla si levò un grido di gioia e per tutta la vallata
riecheggiò un nome: «Pei Ciu En! Pei Ciu En!».
Pronunciando quel nome, salutavano
festosamente e sorridevano. Ma quando la cavallina nera arrivò alla
porta del villaggio ed essi videro da vicino la carovana, tutti
tacquero e non sorridevano più. Guardarono turbati Fong,
ammucchiato sul davanti della sella, il capo curvo, gli occhi colmi
di dolore e disperazione. Si scostarono per lasciarlo passare e si
rivolgevano delle domande. Che ne era di Pei Ciu En? Perché tanto
silenzio? Perché i portatori non levavano gli occhi da terra?
Quando però videro la barella, che veniva fatta passare pian piano
attraverso la porta del villaggio, non sapevano se credere ai
propri occhi e sui volti si rifletteva un grande dolore.
Tung fermò la cavallina e la
carovana si arrestò. I portatori si inginocchiarono, posando
delicatamente la barella a terra. Tenevano la testa bassa, quasi
che si sentissero responsabili.
Gli abitanti del villaggio si
raccoglievano attorno alla barella. Sì, era proprio lui, Pei Ciu
En, lo straniero, il Bianco Gentile. Soltanto due settimane prima
era passato come un turbine attraverso Pietragialla, galoppando
fieramente in testa alla carovana. Due settimane soltanto erano
trascorse dal giorno in cui era partito per il fronte aldilà delle
colline. Ed eccolo ora lì disteso, la testa reclinata, gli occhi
chiusi, il pizzo in su. Lo guardavano sconcertati, silenziosi. Non
c’era dubbio, era lui, Pei Ciu En. Ma che cosa poteva averlo
ridotto in tali condizioni, che sembrava morto? Nei paesi liberati
egli aveva fatto prodigi. Come luce il suo volto risplendeva nello
Shansi. Quella luce si era diffusa per tutta la Cina. Nei territori
ancora occupati aveva fatto impazzire il nemico. Il suo nome era
stato come una spada sospesa sul nemico. Che cosa dunque era
avvenuto?
I loro occhi andavano da Tung, dal
quale attendevano un buon presagio, a Pei Ciu En. Se tanti prodigi
aveva fatto, poteva farne ancora uno per sé. Non c’era dubbio: ora
si sarebbe levato in piedi, forte, eretto, irresistibile come il
fuoco, la sua bianca criniera su tutti sovrastante, le braccia
amichevolmente distese, gli occhi di smeraldo sempre inclini al
sorriso. Ebbe invece uno spasimo e si strappò di dosso le coperte.
Videro le bende e la pelle, che era, giù per le spalle, gonfia,
martirizzata. Eccoli allora tutti a terra e si lamentano e i
ragazzi si stringono ai più anziani e i portatori sembrano
atterriti.
Pei Ciu En aprì gli occhi. Era come
se si fosse svegliato dopo un lungo sonno. Si sollevò appoggiandosi
su un gomito e cercò con gli occhi Tung. Gli parlò brevemente in
una misteriosa lingua che solo Tung conosceva e ricadde giù
affaticato. Tung smontò da cavallo e parlò agli abitanti del
villaggio: «Dobbiamo fermarci qui», disse. Appariva triste, stanco.
«Veniamo dal fronte, abbiamo camminato un
giorno e una notte senza mai una sosta Egli non può più andare
avanti, deve restar qui, finché non abbia vinto il male che lo
tormenta».
Uno degli anziani si fece avanti.
Dinanzi alla barella s’inchinò cerimoniosamente secondo l’usanza
del luogo. Disse: «Lì per lì credemmo, vedendovi scendere dalla
montagna, che fosse il nemico ed eravamo inquieti. Quando scorgemmo
la cavallina nera e i portatori, ci sentimmo l’animo colmo di
gioia. Ora il dolore è nei nostri cuori. Meglio sarebbe stato il
nemico, meglio la terra bruciata, meglio veder le nostre case
distrutte e noi dispersi per le montagne, piuttosto che essere
testimoni di questo vostro ritorno così doloroso per tutti».
Pei Ciu En voltò la testa,
salutando debolmente con la mano.
Tung disse: «Ci occorre un posto
adatto, per il tempo che ci toccherà star qui». E l’anziano: «La
casa di Yu, il padrone della locanda: è la più bella casa del vil
laggio».
Si andò da Yu. Erano venuti anche
gli abitanti del villaggio, che attesero fuori, nel cortile.
C’erano anche i ragazzi. Sentivano, i ragazzi, che una grave
minaccia pesava sulla vallata, sulle montagne dello Hopei,
sull’intera Cina. Non sapevano spiegarsi perché una sciagura più
spaventosa del nemico stesse sospesa come un’ombra sul villaggio:
ma sentivano che era così e guardavamo gli adulti per cogliere sui
loro volti il riflesso degli avvenimenti. Una novità si ebbe nel
pomeriggio, sul tardi, quando arrivò un messo del Quartier
Generale. Si era avventurato in gran fretta per le montagne,
spedito dal generale Nie, non appena era giunta per telegrafo la
notizia. Aveva causato la più viva costernazione quella notizia e
subito era stato informato Mao Tse Tung, a Yenan. Immediata era
stata la risposta, tenere costantemente informati Ciu Te e Mao Tse
Tung sulla situazione e non risparmiare sforzo alcuno per
restituire Pei Ciu En sano e salvo al Quartier Generale. Il messo
era esausto per il lungo viaggio e aveva fame ma, ciò nonostante,
rifiutò il cibo che gli veniva offerto. Disse con impazienza: «Pei
Ciu En sta male e tutti attendono notizie e voi volete che io
mangi? Ma sapete che cosa è in gioco per noi tutti? Conducetemi da
lui, vi prego».
Fong lo contentò. Pensava che
sarebbe stato gradito a Pei Ciu En sapere che si vegliava non
soltanto qui vicino a lui, non soltanto nel villaggio e sulle
alture circostanti, dove era passata la triste carovana, ma in
tutto il territorio della Cina. La gente del villaggio stette a
lungo davanti alla casa di Yu in attesa di notizie. Poi, dato che
le ore passavano senza che nessuno venisse a comunicare qualcosa, a
uno a uno se ne andarono. Gli uomini tornarono ai loro campi,
voltandosi spesso verso
il
villaggio con aria preoccupata, una mano sugli occhi per
proteggerli dal riverbero. Quanto alle donne, esse saccheggiarono
le loro modeste provviste per portare sulla soglia della casa di
Yu, dove li lasciavano, polli, frittelle di miglio, uova, frutta e
verdura. Nelle strade i ragazzi giocando si dicevano l’un l’altro
che era necessario non fare baccano. A un dato momento arrivò Sciu,
un “diavoletto”
. Bussò alla porta di Pei Ciu En e non c’era modo di indurlo ad
andarsene. Tutto voleva sapere: chi era in casa, se si prevedeva
che Pei Ciu En sarebbe stato in grado il giorno dopo di partire, se
era lecito portare un po’ di cibo, se Pei Ciu En avrebbe gradito un
po’ di cibo.
Fong rimase vicino all’ammalato per
tutta la notte. Quando infine uscì, sembrava estraneo a tutto.
Corse via che si sarebbe detto fuggisse. Tung lo trovò all’entrata
del villaggio, seduto su una pietra, gli occhi fissi all’orizzonte
senza interesse. Tung si acquattò vicino a lui, senza dire una
parola e incominciò a tracciare nella polvere dei segni con un
bastoncino. Il sole non si era ancora affacciato dalle cime dei
monti. La vita nel villaggio stava riprendendo.
Tung chiese senza alzare gli occhi:
«Come sta?».
Fong si prese la testa fra le mani.
Disse: «Ero contento pensando che sarei stato in grado di curare il
maestro. Ora invece è come se avessi una pietra al posto del cuore.
Pei Ciu En è molto ammalato e io non ho più alcuna speranza». Alzò
il capo: «E ora che cosa diremo al generale Nie e a Mao Tse
Tung?».
«Mi chiamava il suo alter ego»,
disse Tung, «e in verità è come se ora anch’io fossi in fin di
vita. Andiamo da lui, vieni: non dobbiamo lasciarlo morire».
Giunti nel cortile, Tung prese una
panca, la pose sotto la finestra della stanza di Pei Ciu En, guardò
dentro e di lì non si mosse più.
A sera un’ombra penetrò nel
cortile. Chiese: «È questa la casa dove è ricoverato Pei Ciu
En?».
«Sì», e Tung si voltò e vide un
giovane con l’abito azzurro di cotone dei partigiani.
Il partigiano spiegò: «Siamo un
distaccamento dell’Esercito Popolare. Stavamo transitando in questa
zona, allorché ci venne comunicata, dalla gente del luogo, la
dolorosa notizia. E così in nome di Pei Ciu En abbiamo deciso di
fare qualcosa. Tutti noi, non appena saremo al fronte, ci offriremo
per compiere le missioni più rischiose, fino al supremo sacrificio,
se sarà necessario. Dovreste dirlo a Pei Ciu En». «Glielo dirò»,
assicurò Tung.
Il partigiano salutò e scomparve
nella notte. A questo punto Fong venne a sedersi vicino a Tung.
Chiese: «Ha chiamato?».
«No, non ha chiamato. È a letto
tranquillo. Solo una volta si è levato e sedutosi al tavolo, ha
cominciato a scrivere».
«Strano che abbia ancora la forza
di alzarsi e mettersi a un tavolo a scrivere». Fong non sapeva che
pensare. Guardò nella stanza rischiarata dal fuoco del camino: «Che
cosa potrà scrivere? Che cosa mai c’è nella sua testa? Vorrei
proprio saperlo».
«Forse», disse Tung, «c’è tutta
l’amarezza dei ricordi. Vedi in cielo quante stelle, è una di
quelle notti che piacevano a lui: ebbene mi sono stati confidati da
lui tanti ricordi quante stelle sono in cielo. Sulle montagne,
quando di notte la volta celeste sembrava un tempio di Buddha
scintillante di gemme, egli mi diceva: “Mio alter ego, qui è come
quando io ero ragazzo al mio paese”. Sempre mi diceva così: mio
alter ego… E ora c’è qui un’unità partigiana e gli uomini sono
decisi a sacrificarsi in nome di Pei Ciu En. Essi pure sono dunque
i suoi alter ego».
«Io, tu, essi… Ma sarà meglio
entrare… Non dobbiamo lasciarlo solo». Tung cominciò a piangere,
silenziosamente, senza vergogna: «Sì, ora entriamo… Scusa questa
mia debolezza. Son lacrime che presto asciugheranno. Vedi: per lui
è più amaro che per tutti gli altri uomini che ho conosciuto. Se
ora muore, sarà per la seconda volta. E ha soltanto quarantanove
anni. Quarantanove anni, capisci? Ogni uomo muore, tanti dei nostri
sono morti: ma ciascuno di noi ha soltanto una vita e soltanto una
morte, mentre egli ha avuto più vite e questa è la sua seconda
morte. Lo capisci? Questa è la seconda volta che muore e non vi
sono lacrime abbastanza in tutta la Cina per piangere su questa
sciagura».
Fong si levò in piedi. «In tutta la
Cina… No, compagno Tung, non vi sono lacrime abbastanza in tutto il
mondo».