VI. La stampa e gli intellettuali. Pro e contra.
1. Testate in guerra
Abbiamo precedentemente accennato al ruolo determinante che la stampa nazionale ricoprì nei mesi che precedettero la guerra libica e al modo in cui essa riuscì a farsi interprete di idee e stati d’animo già da tempo presenti nell’opinione pubblica ed evolutisi anche a seguito del forte impatto esercitato, nel mondo della cultura e della politica dal movimento nazionalista.
Se non può essere messa in discussione la verità di Salvemini, secondo il quale era “assai probabile che già nei primi mesi del 1911 l’impresa sia stata esplicitamente deliberata dai nostri uomini di governo per un tempo non lontano”, è altrettanto vero che i primi cenni alla Tripolitania ed ai rapporti italo-turchi iniziarono a circolare sui nostri giornali a partire dal 1910.
Prestigiose testate quali il “Corriere della Sera” e il “Secolo” diedero il via pubblicando per lo più semplici resoconti privi di commento su quanto accadeva dalla parte opposta del Mediterraneo.
“La Tribuna”, al contrario, divenne una quotidiana fonte di circostanziate notizie che spaziavano dagli incidenti che coinvolgevano cittadini italiani, alle polemiche sui giornali turchi, ai contratti catastali in zone agricole e minerarie. Venne soprattutto dato spazio all’episodio di cui era stato protagonista un sambuco eritreo di nome GENOVA fermato dalla marina ottomana a Hodeida perché sospettato di contrabbandare armi.
Con il nuovo anno la campagna di stampa era già in pieno svolgimento monopolizzata, da un certo momento in avanti, da due titoli in particolare: “la Tribuna”, appunto, e il “Giornale d’Italia”, il cui ininterrotto “botta e risposta” ci offre non solo un quadro del differente orientamento politico col quale venne seguita l’intera vicenda sino alla sua conclusione, ma dà anche la misura di quanto profonda si fosse fatta l’influenza della stampa nella conduzione degli affari di governo e nelle decisioni dei politici.
Nel mese di gennaio “la Tribuna” riferì che gli attacchi all’Italia da parte delle autorità ottomane presenti in Libia si erano molto intensificate; anzi, il minuzioso elenco di episodi citati venne progressivamente gonfiato ed esagerato nei contenuti in maniera da dare al lettore l’impressione che contro i nostri compatrioti si fosse scatenata un’autentica persecuzione. Il tutto accompagnato da contraddittori messaggi di amicizia alla Turchia e, insieme, a pressanti richieste di una politica più forte rivolte ai nostri governanti.
Vicino alle posizioni di Sidney Sonnino, il “Giornale d’Italia”, rincarò la dose accusando San Giuliano di non aver mostrato “l’energia necessaria per richiamare il governo di Costantinopoli alla dovuta considerazione degli interessi e del rango del nostro paese” ed aggiungeva l’intenzione di “stampare ciò che di grave sta succedendo in Tripolitania con evidente pericolo dei nostri interessi non solo coloniali ma interni. L’on. Di San Giuliano…ci ha certamente compresi al volo.”
Il 2 gennaio 1911 “la Tribuna” replicò sottolineando l’inopportuna “lezione” rivolta al ministro e ricordando che non solo l’Italia ma anche altre nazioni erano state costrette in più di un’occasione a mostrare pazienza e cautela nel trattare con la politica turca.
In un articolo del giorno seguente Sombrero continuava con lo stesso tono: “Non siamo coi sassi alle porte nemmeno a Tripoli…Se noi possiamo aver fede che la virtù temporeggiatrice della diplomazia impedirà che gli avvenimenti precipitino, taluno di questi avvenimenti appare dominato da leggi così fatali che lo Stato il quale si lasciasse cogliere impreparato dal loro epilogo si troverebbe privato del diritto di far sentire la sua voce nel mondo.”
Tra il 4 e il 6 gennaio il “Giornale d’Italia” tornò all’attacco descrivendo con minuzia di particolari le manovre poste in atto dal Vali di Tripoli per ostacolare il nostro progetto di penetrazione pacifica ed aggiungeva che, secondo voci accreditate, le logge massoniche italo-turche erano in procinto di mobilitarsi per appianare i contrasti tra i due paesi. Rinnovati attacchi alla classe dirigente italiana prendevano poi di mira tanto San Giuliano quanto Giolitti, abili solo a scaricare l’uno sull’altro le reciproche debolezze e inettitudini.
E mentre “la Tribuna” riportava il testo di un telegramma giunto da Costantinopoli nel quale la Porta si dichiarava disposta ad agevolare le operazioni economiche intraprese dall’Italia in Tripolitania e Cirenaica, il “Giornale” – dopo aver riassunto gli esiti della politica nazionale nel Mediterraneo – concludeva: “Rimane la Tripolitania: se la Turchia la chiudesse all’attività italiana e, peggio, la aprisse all’attività di altre potenze, i nostri interessi mediterranei sarebbero mortalmente feriti…Occorre una politica aperta e decisa.”
Risolto l’incidente di Hodeida parve che gli animi si calmassero per qualche tempo, ma presto se ne verificò un altro, giudicato più grave.
Era avvenuto che a Tripoli il giornalista di origine argentina Carlo Guzman avesse pubblicato un foglio antitaliano e fosse quindi stato espulso su pressione del nostro consolato. Egli aveva tuttavia fatto ritorno il Libia malgrado le proteste dell’ambasciatore italiano, fatto che aveva scatenato una ridda di nuove, violente polemiche.
Non mancavano, però, novità più positive quali la prossima apertura della prima filiale del Banco di Roma in Libia opportunamente annunciata dalla “Tribuna” assieme a considerazioni sulla complessa situazione politica della Turchia.
A tale proposito Sombrero sottolineò l’aggressiva impudenza con la quale il Vali seguitava ad osteggiare gli italiani permettendosi, nei loro confronti, un comportamento che mai avrebbe osato infliggere ai cittadini di altre nazioni. E rammentava che anche a Costantinopoli esisteva da tempo un’agenzia del Banco, prova dell’onesta volontà dell’Italia di cercare solo opportune occasioni di investimento e sviluppo. Scongiurava, inoltre, la rinuncia a inutili prove di forza (la partenza, intorno al 25 gennaio, di alcune navi da guerra italiane alla volta del Mediterraneo orientale) poiché, malgrado l’indubbia tensione, i sentimenti della Turchia nei nostri confronti seguitavano ad essere animati da sincera amicizia.
Nel mese di febbraio il quotidiano riportò la partenza di Guzman dalla Libia dichiarando chiuso l’incidente. Commentava le dicerie che lo volevano diretto in Tunisia per aprire un oleificio in concorrenza con analoghe imprese italiane dichiarando che ciò era evidentemente legato all’aumentata presenza tedesca in quel particolare settore dell’Africa, segno che l’Italia urtava contro interessi non sempre limpidi e che le ripercussioni internazionali dei contrasti con la Turchia avrebbero richiesto dal governo maggiore attenzione verso i nostri diritti, specie nel campo delle concessioni minerarie. Dello stesso parere era il “Giornale d’Italia”.
Questo, tra il 16 1 il 17 febbraio, riferì le allarmanti voci in merito all’occupazione francese dell’oasi di Ghadames enfatizzando la crescente atmosfera di pericolo in cui versavano i nostri compatrioti a Tripoli. Pareva, inoltre, che all’interno del governo si ventilasse la possibile dimissione di San Giuliano nei confronti del quale venivano ribadite le dure critiche già in precedenza espresse.
Ripetendo le proprie considerazioni sui timori dei turchi circa l’espansione economica dell’Italia, secondo il prodromo dell’occupazione militare, la “Tribuna” del 26 febbraio consigliava alla stampa italiana di non imitare la controparte turca nell’aizzare risentimento e diffidenza.
Annunciava, tuttavia, l’apertura a Tripoli di un ambulatorio tedesco dopo il rifiuto opposto ai nostri medici di creare un dispensario mentre sembrava che i francesi fossero in lizza per l’appalto di costruzione del porto; dal canto suo il Banco di Roma si era visto impedire l’azionamento dei mulini da esso finanziati e le cave di pietra prese di recente in affitto gli erano state sottratte per essere convertite in zona militare.
Il 28 i toni si fecero più minacciosi. Ricordando i reiterati appelli per la destituzione del Vali, Sombrero diceva: “L’Italia rifugge da misure estreme, preferisce la persuasione alla violenza; ma la diplomazia turca non interpreti erroneamente la paziente condotta dell’Italia e non consideri come organica mancanza di energia ciò che non è se non l’effetto di una elevata considerazione dei rapporti internazionali. Se l’atteggiamento turco non mutasse, il problema potrebbe per fatalità d’eventi perdere il carattere economico che ha attualmente per assumere un carattere politico; e in questo caso la parola difficilmente potrebbe rimanere alla diplomazia. L’Italia non ammette di essere svillaneggiata e non può consentire che all’attività e ai capitali italiani venga illegalmente sbarrata la via, né che le si impedisca di assumere essa lo sfruttamento di terreni zolfiferi in Tripolitania.”
Di questo passo la campagna andò via via rafforzandosi, sotto la spinta impressa dal governo agli appelli per rimuovere il Vali dalla sua carica.
Con l’uscita del primo numero de “L’Idea Nazionale” (1° marzo 1911) le acque della stampa nazionale vennero ulteriormente agitate.
I corrispondenti da Tunisi calcarono la mano sulla violenta propaganda xenofoba scatenata dai quotidiani libici e sulla rottura dei rapporti tra il nostro console e il rappresentante ottomano, ennesimo segnale d’allarme su una situazione pericolosamente lesiva del prestigio italiano, sistematicamente dileggiato.
In quegli stessi giorni l’intervento di Giolitti sulla riforma elettorale scatenò una crisi di governo che fu composta dalla formazione del quarto mandato conferito allo statista piemontese.
Non si trattò dell’unico tema affrontato dalla “Tribuna” nei suoi editoriali, meno cauti rispetto a quelli delle precedenti settimane, sebbene non virulenti quanto gli attacchi del “Giornale d’Italia”.
Si scagliava, comunque, contro il fanatismo degli arabi, non estraneo all’uccisione di un cittadino statunitense a Derna, rinfocolato dal “Giornale di Tripoli” che proferiva grottesche minacce all’Italia ricordando l’antico terrore suscitato dalla flotta turca e riferendosi con ironia alla sconfitta di Adua.
L’assassinio dell’americano offrì al “Giornale d’Italia” il pretesto per riepilogare gli incidenti italo-turchi susseguitisi negli ultimi mesi e “la Tribuna” dedicò ampio spazio alla vergogna degli schiavi in Tripolitania nonché alle difficoltà incontrate dalla nostra missione mineraria, impossibilitata a partire a causa degli ostacoli posti dal Vali.
Ne rammentò l’importanza economica scevra da qualunque intento politico allorché le venne finalmente accordato il permesso di recarsi in Libia e ripeté le assicurazioni di amicizia alla Turchia, a patto che essa cessasse le sue provocazioni.
Nel frattempo, anche “la Stampa” aveva iniziato a interessarsi alla Tripolitania che vi inviò, in qualità di inviato speciale, Giuseppe Bevione reso celebre dai suoi reportage dall’Argentina e ritenuto esperto in materia di emigrazione.
Il suo primo articolo, considerato il capostipite delle cosiddette “fandonie tripoline” (ossia notizie false o montate ad arte), comparve il 9 aprile, seguito da un editoriale su Giolitti che riportava le critiche dei suoi avversari.
Successivamente sia “la Tribuna” che “la Stampa” si dedicarono a celebrare la missione mineralogica e le ripercussioni che avrebbe esercitato sull’economia nazionale la scoperta degli auspicati giacimenti di zolfo. Altro fattore di incivilimento, sottolineato da entrambe le testate, era rappresentato dalle scuole italiane sulle quali la stampa arabo-turca aveva sempre volutamente taciuto a dispetto dell’opera di progresso da esse svolto.
A maggio il corrispondente del “Giornale” si spostò in Cirenaica dove, intanto, la Deutsche Levant Linie aveva inaugurato un regolare servizio fra Tripoli, la Cirenaica e l’Egitto danneggiando la linea di navigazione istituita dal Banco di Roma.
“La Tribuna” fece inoltre intervenire uno studioso, molto controverso negli ambienti accademici specializzati in storia antica e che si era creato una notevole fama di economista: Guglielmo Ferrero.
In un articolo del 25 maggio egli trattò con particolare risalto il tema della valorizzazione delle “terre vergini” nel Mediterraneo sottolineando come “la maggior parte delle popolazioni che vi abitano non sono in grado di sfruttare intensamente e razionalmente i territori su cui pure ha albeggiato l’aurora della civiltà nostra. Le uniche regioni non povere sono quelle in cui affluiscono i capitali europei, e quella fra le nazioni che ne soffre maggiormente è forse l’Italia, il cui avvenire dipende dai destini del Mediterraneo.”
Prosegue affermando che imprese quali la ripresa economica del continente africano, proprio per l’estrema difficoltà di realizzazione, possono apparire “inutili alla generazione che le compie, ma devono essere fatte perché l’Africa è destinata ad essere nell’avvenire la grande riserva e la grande colonia d’Europa…I territori che più potranno sull’avvenire sono quelli in cui Roma dominò…Tali nazioni hanno il dovere di affrontare i rischi e il diritto di goderne i benefici ed è opera vasta e difficile quanto basta perché in essa ci sia posto per tutte.” Pur mancando ogni esplicito accenno alla Libia, Ferrero rimarca che l’Italia non ha intenzione di rinunciare a quanto per diritto le spetta.
Nei giorni seguenti gli inviati della “Tribuna” e del “Giornale d’Italia” tornarono ancora a parlare della protratta concorrenza austro-tedesca, sollecitando il rapido invio in Libia di agricoltori italiani per rinsaldare la nostra presenza e cercando nuovi argomenti tesi a stimolare l’interesse dell’opinione pubblica. In realtà si tratta della fedele ripetizione di notizie già note relative alla difficile situazione della missione mineralogica ed alle violenze scatenate dalla polizia c...