Non porsi limiti "la terza dimensione della disabilità"
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Non porsi limiti "la terza dimensione della disabilità"

Giuseppe Brancato

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Non porsi limiti "la terza dimensione della disabilità"

Giuseppe Brancato

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La ricerca continua di un qualcosa non preventivato, arricchisce di significato l'attesa nel vederlo realizzato, consci che l'eccezione non fa la regola, ma se ne trovassimo almeno una o più in ogni singola persona, saremo tutti ben lieti di agevolarne la diversa interpretazione.
In questo libro la parola racchiude il pensiero in un rapporto relazionale dove un sorriso, un incitamento, un'espressione del viso, un po' di sudorazione, un silenzio o semplicemente un balbettio, ci fa scoprire che la comunicazione verbale e non verbale, sono accumunate da un solo comun denominatore: l'emozione di poter dare, da parte loro, un contributo affinché accadimenti e tragedie riportate giorno dopo giorno dai mass media possano, attraverso le parole, svanire per sempre.
Ogni loro espressione di sentimento, risentimento, giudizio e ironia diventa per me un boccone amaro, difficile da ingoiare.

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Information

Publisher
Youcanprint
Year
2020
ISBN
9788831662611

COORDINARE LE EMOZIONI

“vo­ce al coor­di­na­to­re del cen­tro
L.I.N.A.R. on­lus”
Il rap­por­to con que­sta real­tà è sen­za dub­bio uno dei più ef­fi­ca­ci del­la mia esi­sten­za per­ché l'ha se­gna­ta pro­fon­da­men­te or­mai da mol­tis­si­mi an­ni.
In ef­fet­ti, per me non è mai sta­to "so­lo" un la­vo­ro; men­tre lo de­scri­vo, pro­vo da un la­to le sod­di­sfa­zio­ni am­pli­fi­ca­te ti­pi­che di quan­do le espe­rien­ze si fon­do­no con più par­ti del pro­prio Sé, e dall'al­tro as­sa­po­ro al­lo stes­so mo­do le ama­rez­ze dei fal­li­men­ti e le fa­ti­che del­le sa­li­te che in più di un'oc­ca­sio­ne ci so­no sta­te da af­fron­ta­re.
Nel cor­so de­gli an­ni, ov­via­men­te, so­no cam­bia­ta, sia co­me per­so­na sia co­me pro­fes­sio­ni­sta; an­che l'am­bien­te ester­no ha se­gui­to il cor­so del cam­bia­men­to, al qua­le fi­no­ra ho avu­to la for­tu­na di po­ter as­si­ste­re.
Ter­mi­na­to il cor­so di Lau­rea in Ser­vi­zio So­cia­le con una te­si di ri­cer­ca sul­le sto­rie rea­li di quin­di­ci pa­zien­ti psi­chia­tri­ci, se­gui­ti dal Ser­vi­zio So­cia­le Ter­ri­to­ria­le, do­ve eb­bi l'ono­re di fa­re il mio ti­ro­ci­nio più lun­go, ho col­la­bo­ra­to a più ri­pre­se e a va­rio ti­to­lo con l'Uni­ver­si­tà de­gli stu­di di Fi­ren­ze e per qual­che tem­po, con l'Or­di­ne Re­gio­na­le de­gli As­si­sten­ti So­cia­li co­me mem­bro del Con­si­glio Ter­ri­to­ria­le di Di­sci­pli­na, non ul­ti­mo, so­no di­ven­ta­ta la mam­ma di Giu­lia.
No­no­stan­te che va­rie e in­te­res­san­ti stra­de ab­bia­no in­trec­cia­to a più ri­pre­se la mia, è sem­pre ac­ca­du­to che il mio cuo­re e la mia te­sta mi ab­bia­no det­to di ri­tor­na­re al Li­nar (dal qua­le in se­di­ci an­ni - su 36 - non mi so­no mai real­men­te se­pa­ra­ta).
Per que­sto, sen­to di po­ter di­re che que­sto Cen­tro diur­no è la mia ci­fra (nel be­ne e nel ma­le) e che so­no io la sua, det­to na­tu­ral­men­te con tut­ta l'umil­tà pos­si­bi­le e il to­ta­le ri­spet­to e sti­ma per tut­te le al­tre per­so­ne che col­la­bo­ra­no con me.
Ho ri­co­per­to dap­pri­ma i ruo­li di ope­ra­tri­ce ge­ne­ri­ca, poi mi so­no av­vi­ci­na­ta all'area edu­ca­ti­va e, qual­che an­no do­po il con­se­gui­men­to dell'abi­li­ta­zio­ne, ho avu­to l'op­por­tu­ni­tà di po­ter­lo coor­di­na­re. Per espe­rien­za di­ret­ta e con­cre­ta quin­di pos­so di­re di co­no­scer­lo in lun­go e in lar­go e a 360°, sen­za pau­ra di es­se­re smen­ti­ta!
Cre­do che, scher­zi a par­te, que­st’aspet­to sia sta­to fon­da­men­ta­le per la mia for­ma­zio­ne pro­fes­sio­na­le e per l'ac­qui­si­zio­ne di un ruo­lo sem­pre più di orien­ta­men­to, com'è sta­to nel mio ca­so, per­ché è dif­fi­ci­le pen­sa­re di con­dur­re di­gni­to­sa­men­te e co­sì a lun­go qual­co­sa che si co­no­sce da un pun­to di vi­sta esclu­si­vo.
Il trat­to ca­rat­te­ri­sti­co del Cen­tro è che sia sem­pre sta­to com­po­sto di fa­mi­glia­ri.
Fin da­gli an­ni '70, in­fat­ti, un grup­po di fa­mi­glie all'avan­guar­dia, de­ci­se di por­ta­re fuo­ri dal­le quat­tro mu­ra del­le pro­prie ca­se i lo­ro fi­gli di­sa­bi­li per fa­vo­rir­ne l'in­se­ri­men­to nel­la so­cie­tà di al­lo­ra, que­sta scel­ta per quei tem­pi fu mol­to co­rag­gio­sa.
Co­sì se­guen­do l'iter le­gi­sla­ti­vo in di­ve­ni­re, al­la stre­gua dei tem­pi che cor­re­va­no e in se­gui­to agli ade­gua­men­ti ne­ces­sa­ri, le stes­se fa­mi­glie so­no ar­ri­va­te fi­no a og­gi, con sem­pre in men­te il pro­get­to più ca­ro al lo­ro cuo­re, da per­se­gui­re e per cui lot­ta­re.
Già, per­ché a vol­te può ca­pi­ta­re di per­de­re di vi­sta que­sta pre­ci­sa esi­gen­za, che è ciò che met­te in azio­ne da qua­rant'an­ni ogni gior­no nuo­vo al Cen­tro diur­no Li­nar.
Al­la fi­ne de­gli an­ni No­van­ta, il la­vo­ro del­le fa­mi­glie dell'As­so­cia­zio­ne Li­nar si è ar­ric­chi­to dell'ap­por­to tec­ni­co e del­le com­pe­ten­ze, nell'am­bi­to del­la di­ver­sa­bi­li­tà, del­la Coo­pe­ra­ti­va So­cia­le Ma­trix On­lus, con la qua­le es­sa con­di­vi­de la pro­get­ta­zio­ne e la rea­liz­za­zio­ne del­le at­ti­vi­tà edu­ca­ti­ve a fa­vo­re dei no­stri ospi­ti.
La me­to­do­lo­gia uti­liz­za­ta in que­sto sen­so at­tin­ge i suoi con­tri­bu­ti da più mo­del­li di ri­fe­ri­men­to e, do­po aver­ne ela­bo­ra­ta una sin­te­si con­di­vi­sa, de­ter­mi­na i trat­ti che con­trad­di­stin­guo­no i mo­di ope­ra­ti­vi del Cen­tro.
Ades­so po­trei scen­de­re nel me­ri­to di no­mi, ci­ta­zio­ni teo­ri­che o tec­ni­ci­smi va­ri ma non cre­do sia ciò che de­scri­va mag­gior­men­te quel­lo che vo­glio di­re.
Quan­do mi è sta­to chie­sto di rac­con­ta­re il Cen­tro, mi so­no su­bi­to ve­nu­te in men­te le per­so­ne. Per­ché lo­ro so­no il Cen­tro. Mi ven­go­no in men­te Lu­cia, Mau­ro, Sil­via, Chia­ra, Da­nie­le, An­drea, Fran­co, Pao­lo, Ma­ria Pia, Gian­ni, Tom­ma­so, Ga­brie­le, Sa­man­ta, Su­san­na, Fran­ce­sco, Mar­co, Sa­ra, An­to­nio e la So­ni­ta. Con an­che un po' d'emo­zio­ne.
E poi mi ven­go­no in men­te gli ope­ra­to­ri, i miei col­le­ghi: Mar­co e Mar­co, Roc­co e la Bar­ba­ra.
An­che ver­so di lo­ro, le sen­sa­zio­ni so­no vi­bran­ti.
Tut­ti i vo­lon­ta­ri che ne­gli an­ni, re­ga­lan­do­ci il lo­ro tem­po e la lo­ro pa­zien­za, han­no con­tri­bui­to a far­ci an­da­re avan­ti e rag­giun­ge­re sod­di­sfa­zio­ni che sen­za di lo­ro non avrem­mo mai po­tu­to rag­giun­ge­re (i fa­mo­si "ri­sul­ta­ti at­te­si", de­fi­ni­ti tec­ni­ca­men­te).
Giu­ro che lo di­co sen­za re­to­ri­ca. Sì, per­ché se c'è un pa­ra­dig­ma teo­ri­co di ri­fe­ri­men­to che poi di­ven­ta su­bi­to pra­ti­co al co­spet­to del­la real­tà, è il con­cet­to del mi­glio­ra­men­to qua­li­ta­ti­vo del­la vi­ta e con es­so quel­lo del­le per­so­ne con cui la­vo­ria­mo.
Que­sto è ciò cui tut­ti in­sie­me dob­bia­mo ten­de­re e que­sto si ma­ni­fe­sta in pic­co­li ge­sti e at­ten­zio­ni quo­ti­dia­ne che poi ac­qui­si­sco­no si­gni­fi­ca­ti enor­mi nel­le vi­te di al­tri.
Rin­gra­zio il Dot­tor Giu­sep­pe Bran­ca­to che, giac­ché Vi­ce Pre­si­den­te dell'As­so­cia­zio­ne Li­nar da Set­tem­bre 2018, bab­bo di Da­nie­le dal 1986, mi ha chie­sto di scri­ve­re que­ste ri­ghe, dan­do­mi l'op­por­tu­ni­tà di ri­leg­ge­re e di da­re un pe­so an­co­ra più spe­ci­fi­co ai pic­co­li e gran­di ri­sul­ta­ti cui in tut­ti que­sti an­ni ab­bia­mo avu­to la for­tu­na di po­ter la­vo­ra­re. E non mi ri­fe­ri­sco a tar­ghe o pre­mi o a ri­co­no­sci­men­ti ot­te­nu­ti di chis­sà qua­le fat­tu­ra! Mi ri­fe­ri­sco in­ve­ce all'op­por­tu­ni­tà di ri­cor­da­re quan­do Mau­ro uscì da ca­sa di se­ra per la pri­ma vol­ta, a ol­tre cin­quan­ta an­ni, per an­da­re a man­gia­re una piz­za (sua ma­dre ci chia­ma­va ogni mezz'ora, ma la se­ra­ta fu di­ver­ten­tis­si­ma e di­ven­ne la pri­ma di una lun­ga se­rie).
Rin­gra­zio per l'oc­ca­sio­ne di ri­flet­te­re su co­me si è svi­lup­pa­ta l'af­fet­ti­vi­tà di Pao­lo.
Quan­do ar­ri­vai al Cen­tro, nei pri­mi an­ni 2000, era inav­vi­ci­na­bi­le. Se al­za­vi una ma­no per pre­pa­rar­ti a una ca­rez­za, lui le al­za­va tutt'e due per di­fen­der­si per­ché pen­sa­va che stes­se per ar­ri­var­gli uno schiaf­fo.
Og­gi non so­lo si la­scia ab­brac­cia­re, ma spes­so è lui a pren­de­re l'ini­zia­ti­va di co­mu­ni­ca­re il suo af­fet­to ver­so qual­cu­no.
E, co­me non es­se­re gra­ti per la pos­si­bi­li­tà, di es­se­re sta­ti il tra­mi­te per­ché il so­gno di Ga­brie­le po­tes­se ave­re di nuo­vo una for­ma con­cre­ta; o per­ché ab­bia­mo ac­com­pa­gna­to Lu­cia ad ac­qui­si­re sem­pre più fi­du­cia in se stes­sa da ar­ri­va­re a smet­te­re di ma­ni­po­la­re il mon­do e ad au­to­de­ter­mi­nar­si a tal pun­to da riu­sci­re a ge­sti­re con una lu­ci­di­tà in­vi­dia­bi­le una si­tua­zio­ne che sa­reb­be sta­ta dif­fi­ci­lis­si­ma per chiun­que vi si fos­se tro­va­to da­van­ti.
Que­ste im­por­tan­ti me­te non so­no sta­te rag­giun­te in vir­tù di una ma­gia o di un mi­ra­co­lo o ap­pli­can­do una ri­cet­ta se­gre­ta del­la qua­le so­lo noi co­no­scia­mo gli in­gre­dien­ti. Ab­bia­mo po­tu­to re­ga­la­re ai ra­gaz­zi del­le sod­di­sfa­zio­ni per­ché li ab­bia­mo guar­da­ti dav­ve­ro. Per­ché, co­me di­cia­mo sem­pre, ci pia­ce ve­de­re la per­so­na, pri­ma del­la car­roz­zi­na. Per­ché ab­bia­mo sem­pre ascol­ta­to e da­to spa­zio, an­che a ri­schio spes­so e vo­len­tie­ri di sem­bra­re cao­ti­ci o po­co or­ga­niz­za­ti. È ac­ca­du­to per­ché ab­bia­mo sem­pre ri­te­nu­to che il con­cet­to di re­la­zio­ne fos­se lo stru­men­to cen­tra­le da adot­ta­re nel no­stro la­vo­ro e che fos­se im­por­tan­te aiu­tar­li a espri­me­re lo­ro stes­si e le lo­ro iden­ti­tà, sen­za pre­clu­sio­ni o li­mi­ti.
Ec­co­lo qui un al­tro si­gni­fi­ca­to che per il Cen­tro Li­nar ha sem­pre ac­qui­si­to un va­lo­re se­con­da­rio.
Par­la­re di li­mi­ti, in­fat­ti, e di "li­mi­ta­zio­ni" non fa par­te né del no­stro lin­guag­gio, né del no­stro pen­sie­ro e quin­di non crea la pro­spet­ti­va dal­la qua­le guar­dia­mo. Tant'è che ciò che ha sem­pre mos­so il la­vo­ro del Cen­tro è sta­ta l'idea di ac­com­pa­gna­re i ra­gaz­zi nel lo­ro per­cor­so di cam­bia­men­to, pic­co­lo o gran­de che fos­se, sen­za por­re li­mi­ti. In que­sto ca­so, con "li­mi­te" in­ten­do "im­mo­bi­li­tà". Da qual­che tem­po, quel­lo che ha mos­so da sem­pre il la­vo­ro edu­ca­ti­vo al Cen­tro Li­nar e la pre­sa in ca­ri­co del­le per­so­ne che es­so ospi­ta da par­te dell'equi­pe edu­ca­ti­va mul­ti­di­sci­pli­na­re, è sta­to non dar spa­zio all'im­mo­bi­li­tà del non cam­bia­men­to, e del di­re "Va beh, tan­to que­sto è co­sì e più in là non ci ar­ri­ve­rà mai". At­tra­ver­so l'ascol­to, la re­la­zio­ne e lo sguar­do uma­no sul­le co­se che, pos­so di­re, da sem­pre ci con­trad­di­stin­guo­no, sia­mo fe­li­ci di aver pro­ce­du­to in­sie­me al­le fa­mi­glie dei ra­gaz­zi che ospi­tia­mo nel­la di­re­zio­ne del su­pe­ra­men­to dei li­mi­ti e del­lo svi­lup­po dell'in­clu­sio­ne so­cia­le, ve­ra.
Que­st'ul­ti­mo aspet­to si può fa­cil­men­te evin­ce­re dal fat­to che “per for­tu­na “ tut­ti ci ri­co­no­sco­no, che una del­le ca­rat­te­ri­sti­che prin­ci­pa­li del Cen­tro è che es­so sia un Cen­tro aper­to.
È no­stra abi­tu­di­ne, in­fat­ti, in­te­ra­gi­re di­ret­ta­men­te con mol­te real­tà del ter­ri­to­rio, che ci co­no­sco­no e con la qua­le col­la­bo­ria­mo già da mol­ti an­ni. Sia­mo noi spes­so a usci­re e ad aprir­ci all'ester­no, sia fi­si­ca­men­te sia at­tra­ver­so at­ti for­ma­li che ci met­to­no in co­mu­ni­ca­zio­ne con real­tà isti­tu­zio­na­li o for­ma­ti­ve o di mol­ti al­tri ti­pi.
Se da una par­te lo fac­cia­mo apren­do con­ven­zio­ne con le prin­ci­pa­li Uni­ver­si­tà del­la cit­tà e con i mag­gio­ri isti­tu­ti su­pe­rio­ri, dall'al­tra ac­co­glia­mo poi fi­si­ca­men­te ti­ro­ci­nan­ti, stu­den­ti e pra­ti­can­ti a va­rio ti­to­lo. Sem­pre in te­ma di pre­sen­za all'ester­no, da un pa­io di an­ni, par­te­ci­pia­mo a un blog on li­ne, co­me com­men­ta­to­ri del­le no­ti­zie, che so­no più ap­pro­fon­di­te nell'at­ti­vi­tà quo­ti­dia­na di let­tu­ra del gior­na­le e sia­mo sem­pre pron­ti ad ac­co­glie­re e fa­vo­ri­re espe­rien­ze nuo­ve e di­ver­se dal­le con­sue­te, de­cli­na­te sul­la ba­se del­le at­ti­tu­di­ni di ogni sin­go­la per­so­na e del grup­po. Per que­sto, con­sta­ta­to che Lu­cia ha una pas­sio­ne per i ca­val­li, spes­so an­dia­mo a vi­si­ta­re un ma­neg­gio; al­lo stes­so mo­do, Fran­co è un pa­ti­to di sport, ap­pe­na c'è l'oc­ca­sio­ne, an­dia­mo a un even­to dal vi­vo di sport o a vi­si­ta­re un mu­seo o una mo­stra che trat­ti di que­sto. Da­to che Sil­via ama fa­re shop­ping e gi­ra­re per i mer­ca­ti­ni, spes­so il grup­po la ac­com­pa­gna in que­sto di­ver­ten­te pas­sa­tem­po e co­sì via. E poi­ché il ra­gio­na­men­to è per pro­ces­si, non pos­so a que­sto pun­to, non ri­le­va­re che l'équi­pe del Cen­tro diur­no Li­nar, in­sie­me all'As­so­cia­zio­ne omo­ni­ma, ha sem­pre avu­to da­van­ti, co­me li­nea di­ret­tri­ce da se­gui­re a tut­ti i co­sti, il te­ma del­la per­so­na­liz­za­zio­ne de­gli in­ter­ven­ti.
Poi­ché ognu­no è di­ver­so dall'al­tro e poi­ché par­tia­mo dall'as­sun­to di ba­se che sia fon­da­men­ta­le va­lo­riz­za­re le ri­sor­se e i pun­ti di for­za che ogni per­so­na ha, tra­sfor­man­do co­sì le dif­fi­col­tà in ru­mo­ri im­per­cet­ti­bi­li, ab­bia­mo sem­pre te­so a vo­ler da­re ri­spo­ste in­di­vi­dua­liz­za­te ai bi­so­gni di ogni sin­go­lo ospi­te.
Trop­po spes­so pur­trop­po ha do­vu­to fa­re i con­ti con fat­to­ri le­ga­ti a...

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