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I sentieri dell'anima

Ugo Campese

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I sentieri dell'anima

Ugo Campese

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Una finestra sulla vita in piccoli articoli, dal taglio diretto ed
originale, che affrontano i temi del suo poliforme divenire (società,
costume, diritto, politica, letteratura, cinema). Una lettura
interessante condita con leggera ironia.

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Information

Publisher
Youcanprint
Year
2021
ISBN
9791220333696
 
Il tempo sospeso.
Appunti in tema di Coronavirus
 
 
Ci risiamo.
Siamo saliti di nuovo sull’ottovolante del Covid-19. Anzi, non ne siamo mai scesi.
Data l’imbarazzante improvvisazione con cui il virus politico del governo (del Vis) Conte (Dimezzato) – Calvino docet – ha affrontato e continua ad affrontare la pandemia, era facile previsione quella di una nuova chiusura del paese o di gran parte dello stesso. Insomma, non ci voleva il mago Otelma.
Comunque andrà l’anno 2020 resterà negli annali della storia, come prolungato isolamento temporale, il c.d. lockdown: inglesismo entrato oramai a far parte dell’impoverita lingua italiana, che si protrarrà sicuramente nel 2021 (speriamo non oltre) e costituisce lo spartiacque di una vita nova.
Vita nova fatta non solo di mascherine e presìdi sanitari di contenimento fisico, ma di un pericoloso distanziamento sociale.
Distanziamento sociale dei giovani dagli anziani, con irreversibili danni di un tessuto familiare già fragile e lacerato. Rapporti che si dilatano nel tempo e nello spazio fino a sfociare, molte volte, in isolamento forzato con la cattiva compagnia della paura e della depressione.
Distanziamento sociale fra il lavoro pubblico e il lavoro privato, con l’aumentare di una incomprensibile disparità di condizione. Pagati e a casa, in lavoro agile (molto smart e poco working) i primi; se va bene, in cassa integrazione i secondi, a casa e con la effimera speranza di percepirla.
Distanziamento sociale fra i lavoratori subordinati e le c.d. partite Iva – la variegata galassia nella quale ruotano professionisti, artigiani, commercianti, imprenditori –, con i primi supportati, anche se male, e i secondi lasciati allo sbaraglio, senza aiuto e prospettiva, ma gratificati dal pagamento delle imposte, a volte solo rinviate.
Un rimescolarsi di carte che inevitabilmente lascerà cicatrici e costruirà una società diversa. Nulla sarà più come prima.
Quando finalmente scomparirà dalla circolazione la peste del terzo millennio (speriamo con la scoperta del vaccino), l’umanità si troverà innanzi al bivio: o imboccare la direzione di una tecnologia sempre più sfrenata e predominante, dal lavoro alle relazioni sociali; o imboccare la via di un nuovo umanesimo, con la riscoperta della Persona e di una Vita ispirata al bello che ci circonda.
In questo periodo sospeso, come equilibristi che camminano sulla fune, non dobbiamo guardare il baratro che è sotto di noi, ma volgere lo sguardo in avanti a quelle nobili Arti che da sempre hanno salvato l’uomo.
Un mio carissimo amico, quando era costretto a stare a casa in compagnia di un buon libro, diceva: “Mi sono chiuso nel mio splendido isolamento inglese”.
Ecco, la lezione: l’isolamento come opportunità, non come angosciante costrizione.
 
 
 
 
1° novembre 2020
I Dialoghi con “Santo Panaro”:
la sentenza
Nel percorrere il Viale dei Rettori, all’altezza della torre longobarda (che longobarda non è) lo sguardo si è posato, come sempre, sul bassorilievo romano in essa inglobato, raffigurante un uomo con in mano un paniere.
Si tratta, se non sbaglio, del mensor frumentarius, un soldato specializzato che provvedeva all’approvvigionamento dell’esercito romano, o di un agrimensore addetto alla misurazione del terreno.
Ma per il volgo beneventano è da sempre “Santo Panaro”, dal paniere che stringe in mano. Personaggio popolare, aspirazione di affrancazione dalla miseria; infatti, il paniere è sinonimo di abbondanza, a prescindere dal contenuto. È un popolano vicino al popolino che attacca l’immobile potere costituito, sempre in altre faccende affaccendato.
Ho pensato di risvegliarlo dal letargo secolare – accostandolo all’irriverente Pasquino, statua ai cui piedi si depositavano anonime satire in versi (le c.d. pasquinate) –, per criticare ciò che non va e sfogarmi degli affanni quotidiani.
Lo vado a trovare nella torre longobarda (ma non troppo) di Viale dei Rettori. Mi vede arrivare e il dialogo sorge spontaneo.
Santo Panaro (S.P.): “Avvocà ti sei fermato finalmente. Passi sempre di corsa. Uno sguardo e via. Dove corri in auto che Benevento è piccola. Poi ti lamenti che non sei in forma. Vergognati! Ai miei tempi, si doveva camminare, il cavallo era un lusso per signori”.
Io, l’Avvocato (A.): “Vedo che i secoli non hanno scalfito l’innata simpatia e il sottile, si fa per dire, sarcasmo. Se cominciamo così, me ne vado”.
S.P.: “E come siamo permalosi questa sera. Prima mi cerchi, poi fai il prezioso. Conosco quella faccia in… bronciata. Sputa il rospo”.
A.: “Sono anni che frequento il mondo del diritto, ma non capisco perché spesso, molto spesso, vada al rovescio”.
S.P.: “Spiegati. Mi sembri la sibilla cumana. Da secoli vivo in questa città e ne ho viste di tutti i colori. Il pendolarismo politico di questi giorni è la plastica rappresentazione dell’homus beneventanus. S.P.Q.B.: Solo Politica Quanto Basta per sé e i propri cari”.
A.: “Stavolta non parlo di politica. Quella latita da un pezzo. Parlo del ius dicere nostrano. Del giudice che spesso predica bene e razzola male”.
S.P.: “Questi avvocati. Sono capaci di non farti capire niente. Sempre a lamentarsi dei giudici. Non si può generalizzare. Che vuoi dire?”.
A.: “Hai ragione. Mi spiego. Ho difeso una società in un complesso contenzioso innanzi al tribunale. La causa è durata cinque anni e, quando finalmente è stata decisa, le mie ragioni sono state accolte integralmente”.
S.P.: “Allora di cosa ti lamenti? Sei vanitoso. Vuoi che ti faccia i complimenti urbi et orbi?”.
A.: “No. Qui si tratta di vile pecunia, del frutto del mio lavoro. Infatti, nell’articolata sentenza il giudice, alla fine, decide che le competenze della causa vadano integralmente compensate tra le parti (cioè: ognuna si paga le sue) ‘alla luce della notevole difficoltà della vicenda, in fatto ed in diritto’”.
S.P.: “Che significa?”.
A.: “Significa che la mia assistita ha avuto ragione. Deve avere un riconoscimento economico importante ma deve pagarmi il compenso di avvocato, per ‘la notevole difficoltà della vicenda, in fatto ed in diritto’”.
S.P.: “Scusa, ma non ho capito. La parte da te assistita ha vinto la causa ma deve pagarti il compenso di avvocato? Ma che dici?”.
A.: “Quello che senti. Ho dovuto spiegare alla parte assistita – che con una frase efficace, colorita e tagliente mi ha detto: ‘Avvocà, abbiamo vinto la battaglia e ho perso la guerra’ (dovendo pagarmi l’onorario, seppure da me richiesto in misura molto ridotta per non aggiungere al danno la beffa) – che sul punto la decisione viola le norme della Tariffa Professionale Forense, che il giudice ha l’obbligo di applicare, la quale, nell’ipotesi di riconosciuta complessità delle questioni di diritto e di fatto trattate, prevede addirittura un aumento dei compensi professionali in favore della parte vittoriosa. Giammai la compensazione”.
S.P.: “Ma non puoi impugnarla?”.
A.: “In teoria, sì. In pratica è difficile, se non impossibile, perché la parte da me assistita (il mio cliente, almeno… spero ancora) dovrebbe anticipare ulteriori costi per il giudizio di appello che durerà, quanto meno, altri tre o quattro...

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