Il Novecento - Storia
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Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 69

Umberto Eco

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Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 69

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In questo ebook si dispiega il variegato panorama del pensiero filosofico novecentesco, così complesso nella sua valutazione data la mancanza della distanza storica necessaria per filtrare con adeguata lucidità eventi, teorie e proposte di un secolo carico di drammatici eventi storici e profonde inquietudini: l'eredità dell'idealismo continua ancora quasi sino a metà secolo, e con particolare successo in Italia attraverso il pensiero di Croce e di Gentile, mentre contemporaneamente si sviluppa un'intensa rivisitazione del pensiero di Marx, da Gramsci alla Scuola di Francoforte, a Lukàcs fino al Diamat, ovvero a quella scolastica del materialismo dialettico che ha dominato per decenni la cultura sovietica. Difficile poi eleggere una corrente a modello della filosofia novecentesca quando si contendono la scena sin dall'inizio neokantismo, storicismo, fenomenologia, bergsonismo, psicoanalisi, neospiritualismo, esistenzialismo e nuova filosofia della scienza, ed è curioso notare che i pensatori più interessanti non sono filosofi ma fisici, come Einstein e Heisenberg. Questo ebook attraversa così tutto un universo ancora in movimento, un magma ancora vivo di riflessioni accese, in cui le differenti posizioni di Husserl e Whitehead, Heidegger e Adorno, Sartre e Habermas, Maritain e Foucault fanno conflagrare l'impropria contrapposizione tra filosofia analitica e continentale in un pulviscolo di pensieri che permeano e condizionano indiscutibilmente tutta la letteratura novecentesca e la percezione che l'uomo del Novecento ha di sé e del mondo.

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Information

Year
2014
ISBN
9788898828029

Panorama del secolo: gli Stati europei

L’Italia: dall’età giolittiana alla Repubblica
Elena Papadia

L’età giolittiana (1901-1914) è caratterizzata dalla democratizzazione del sistema politico liberale: l’apertura nei confronti dei socialisti e dei cattolici e la concessione del suffragio universale maschile mirano all’integrazione delle masse nella vita dello Stato. Nel dopoguerra, la conquista fascista dello Stato segna l’avvento di un regime reazionario che si fonda sulla mobilitazione delle masse, ma annulla le libertà politiche e sociali degli individui. La fine del ventennio fascista (1922-1943), seguita dalla sconfitta delle forze dell’Asse nella seconda guerra mondiale, apre anche in Italia una nuova era.

Dall’inizio del secolo alla Grande Guerra

Il nuovo secolo si apre, in Italia, con un regicidio. L’uccisione di Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci (29 luglio 1900) rappresenta l’ultimo atto della grave crisi politica e istituzionale iniziata due anni prima con la repressione manu militari dei moti per il caro viveri, a cui era seguito il tentativo – portato avanti dal governo Pelloux con il sostegno della corona – di limitare drasticamente quell’insieme di libertà politiche e civili il cui riconoscimento aveva fatto sì che l’Italia potesse iscriversi a buon diritto nel novero degli Stati liberali.
Tuttavia, anzichè inasprire le tendenze autoritarie, la morte del re segna il definitivo fallimento della reazione. Le elezioni politiche di giugno avevano già fatto registrare una consistente vittoria delle sinistre (socialisti, radicali, repubblicani), protagoniste di una strenua battaglia parlamentare contro le leggi “liberticide” proposte da Pelloux (1839-1924); da parte sua Vittorio Emanuele III, salito al trono nell’agosto del 1900, si allontana dalla politica repressiva seguita dal padre. È, di fatto, l’inizio di un nuovo corso, in cui l’idea di un “ritorno allo Statuto” – ovvero il riferimento a un modello di monarchia costituzionale di stampo prussiano – viene accantonata in nome di un progetto assai diverso, mirante alla piena parlamentarizzazione del sistema politico e all’inserimento delle masse nella vita dello Stato; e questo progetto porta il nome di Giovanni Giolitti (1842-1928).
Contro la tendenza a reagire alle sollecitazioni provenienti dai ceti più bassi della società con “leggi reazionarie” e “prepotenze di governo”, contro l’idea che le tensioni sociali potessero essere gestite come un problema di ordine pubblico e che il governo dovesse ergersi a difensore degli interessi delle classi padronali, Giolitti propugna con lucidità e coerenza la completa neutralità dello Stato nei conflitti tra capitale e lavoro e il carattere politicamente, economicamente, socialmente positivo dell’organizzazione e dell’ascensione delle classi popolari. Ministro dell’Interno nel governo guidato dal democratico Giuseppe Zanardelli (1826-1903) tra il 1901 e il 1903, Giolitti ne rappresenta la vera anima, e inaugura la sua lunga egemonia sulla vita politica italiana.
Naturali interlocutori di questo nuovo indirizzo politico devono essere – oltre naturalmente alle correnti liberali più avanzate – coloro che si propongono come i rappresentanti dei diritti e degli interessi delle classi popolari, ovvero i socialisti. Nei confronti del Partito Socialista Italiano Giolitti abbandona la politica repressiva inaugurata qualche anno prima da Crispi (1818-1901) e tenta la via della collaborazione; una scelta, questa, che sembra essere favorita dai rapporti di forza che si sono delineati tra la corrente rivoluzionaria e la corrente riformista del partito. Nel settembre del 1900 il VI congresso del PSI aveva approvato, con un solo voto contrario, il “programma minimo” proposto da Claudio Treves (1869-1933). Ampliamento del suffragio, legislazione sociale, decentramento amministrativo e riforma tributaria diventano gli obiettivi programmatici del partito, che abbandona – almeno temporaneamente – la prospettiva insurrezionale, concentrando le sue energie sulla modernizzazione e sulla democratizzazione del sistema capitalistico-liberale. Guidato da Filippo Turati (1857-1932), la cui fede socialista non si pone in contrasto con una forma mentis di ispirazione democratico-radicale, il Partito Socialista Italiano adotta nei confronti del governo Zanardelli-Giolitti la linea della valutazione caso per caso, la quale finisce per trasformarsi di fatto in un voto di fiducia.
L’attività riformatrice del governo Zanardelli (indebolita peraltro dal fallimento dei progetti più ambiziosi, quali la riforma tributaria e l’introduzione del divorzio), viene ripresa dai governi successivi, guidati da Giolitti in persona. Tra il 1903 e il 1913 vengono approvate la conversione della rendita (dal 5 percento al 3,5 percento), la nazionalizzazione delle ferrovie, la municipalizzazione dei servizi, la legislazione sul Mezzogiorno e poi, sul finire del decennio giolittiano, il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita e il suffragio universale maschile: tutti passi in avanti sulla via della trasformazione del “vecchio” Stato liberale in una moderna liberaldemocrazia, ma – agli occhi di molti osservatori – passi fin troppo cauti, che si risolvono in un riformismo pragmatico del caso per caso, incapace per sua natura di affrontare e di risolvere le questioni di fondo. Ciò che maggiormente viene rimproverato a Giolitti, però, è la supposta manomissione del meccanismo della rappresentanza politica: non solo a causa dell’intervento dei prefetti nelle elezioni (un intervento pesante soprattutto nel Sud, e che vale a Giolitti l’appellativo, coniato da Gaetano Salvemini (1873-1957), di “ministro della malavita”), ma soprattutto a causa del neotrasformismo cui il presidente del Consiglio sembra improntare i suoi rapporti con la Camera. In quella che gli avversari avrebbero definito la “dittatura giolittiana”, l’esistenza di una vasta maggioranza parlamentare, retta dal personale rapporto di dipendenza dei suoi membri dal presidente del Consiglio, sembra rendere di fatto impraticabile qualsiasi alternativa ispirata a un diverso orientamento politico. Se ne accorge, a sue spese, Sidney Sonnino (1847-1922): il suo tentativo di costituire un “grande” partito conservatore, in grado di promuovere dall’alto le riforme necessarie allo sviluppo e alla modernizzazione del paese senza cedere terreno ai “sovversivi”, non riesce a concretizzarsi, e i tentativi sonniniani di governo (due brevi parentesi, nel 1906 e nel 1910), falliscono anche per la mancanza di un partito in grado di sostenerli.
Egemonia politica e discredito culturale procedono dunque di pari passo. Particolarmente acceso è l’antigiolittismo degli intellettuali, a cui il pragmatismo empirico e l’attitudine spiccatamente antiretorica dell’uomo politico piemontese non appaiono certo doti, ma anzi il segno di un grave deficit ideale, confermato e aggravato dalla corruzione della vita politica e dal cinismo nella gestione del potere. Nell’ultimo scorcio dell’età giolittiana questo accumulo di tensioni ideali fa vacillare l’equilibrio politico, tendendo a far emergere correnti ideologicamente radicali e indisponibili al compromesso e al gradualismo giolittiani. La guerra contro la Turchia per la conquista della Libia (1911-1912) rende più aggressivo il movimento nazionalista che, costituitosi in associazione nel 1910, si va caricando in quegli anni di accenti sempre più marcatamente imperialistici e antiliberali, e favorisce la vittoria della corrente massimalista all’interno del Partito Socialista, la quale, specularmente, comincia in quel momento a costruire le proprie fortune su un antimilitarismo non privo di esibite venature antipatriottiche. Le elezioni dell’autunno del 1913, le prime a suffragio universale maschile, segnano una consistente avanzata dei socialisti; se i liberali reggono l’urto è soprattutto grazie al contributo degli elettori cattolici, che la sospensione del non expedit libera dall’obbligo dell’astensione. Il “patto” siglato in vista delle elezioni da Giolitti con il conte Ottorino Gentiloni, presidente dell’Unione Elettorale Cattolica, può sembrare un successo della strategia giolittiana basata sull’inclusione di quelle masse – cattoliche come socialiste – che fino a quel momento erano state estranee od ostili al progetto liberale di governo. In realtà, l’elettorato cattolico è portatore di una propria cultura politica, diversa – talvolta molto diversa – da quella liberale. L’emergere del nazionalismo, del socialismo rivoluzionario, del cattolicesimo politico mostra così il principale limite del “trasformismo” giolittiano, ovvero il suo isolamento culturale. “Una mediocre combinazione parlamentare, nata tra i corridoi e l’aula”: così viene considerata, nel giudizio dei nuovi alfieri dell’ideale, l’Italia giolittiana. Ma quell’Italia – prosegue nel 1913 il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola (1873-1959) – non esiste più: “esiste un’Italia cattolica, esiste un’Italia socialista, esiste un’Italia imperialista: non esiste un’Italia giolittiana”.
In quest’ultima parte, il giudizio coglie nel segno; ma c’è da aggiungere che, insieme all’Italia giolittiana, è in profonda crisi l’Italia liberale stessa. L’ampio discredito di cui la classe dirigente liberale è diventata oggetto si riverserà, di lì a poco, anche sulle istituzioni liberali, e in particolare sul Parlamento. L’antiparlamentarismo, a dire il vero, godeva già da tempo di un’ampia circolazione nell’opinione pubblica del Paese. Tuttavia, una cosa è la denuncia, da parte di giornalisti e intellettuali, delle “patologie” e delle disfunzioni del sistema rappresentativo; altro è l’esercizio, da parte della piazza, di una violenta pressione sul Parlamento, fino a scavalcare la volontà di una maggioranza democraticamente eletta. Proprio questo è ciò che accade nella primavera del 1915, quando, in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale, una minoranza interventista – composta per lo più da nazionalisti, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari – riesce a imporsi con una campagna violenta e intimidatoria sulla maggioranza neutralista rappresentata in Parlamento. Il 20 maggio 1915 quest’ultimo si piega, votando a scrutinio segreto la concessione dei pieni poteri al governo; il 23 maggio, a nome dell’Italia, il governo Salandra (il liberal-conservatore Antonio Salandra, (1853-1931), aveva sostituito Giolitti alla presidenza del Consiglio nel marzo del 1914: l’età giolittiana era davvero finita) dichiara guerra all’Austria.
Le modalità con cui l’Italia entra in guerra provocano spaccature e lacerazioni che il conflitto, invece di sanare, avrebbe esacerbato, e immettono nella vita politica del Paese i germi di una nuova politica fondata sull’appello diretto alle masse (Mussolini e D’Annunzio erano stati i campioni delle piazze interventiste), sulla denuncia del “nemico interno”, sulla contrapposizione della nazione al Parlamento. Nell’arroventato clima politico del dopoguerra, miti e riti della nuova politica spazzeranno via le ultime resistenze del vecchio mondo e della vecchia mentalità liberali, già messe a dura prova dal prolungato sforzo bellico. La guerra, infatti, si rivela molto diversa dal previsto: non il rapido conflitto immaginato da Salandra e dal suo ministro degli Esteri Sonnino, bensì un’estenuante guerra di logoramento. Le azioni offensive ordinate dal comandante in capo Luigi Cadorna (concentrate principalmente sul fronte del Carso e dell’Isonzo) falliscono ripetutamente di fronte alle trincee austriache. Mantenuta caparbiamente e contro ogni evidenza fino alla sconfitta di Caporetto, l’impostazione offensiva, di cui la realtà della guerra di trincea aveva presto mostrato l’inefficacia, ha un costo altissimo in termini di vite umane: l’abbondanza di “carne da cannone” deve supplire all’impreparazione tecnica, all’improvvisazione strategica, all’inferiorità negli equipaggiamenti. Alla noncuranza nei confronti del sacrificio di vite umane, si unisce in Cadorna l’applicazione di metodi disciplinari di stampo terroristico, con ricorso frequente alla decimazione e alle esecuzioni sul campo; e anche questo non cambia fino a che, nell’ottobre del 1917, l’esercito italiano non va incontro alla più disastrosa sconfitta della sua storia con le truppe austro-tedesche che, con la tattica dell’infiltrazione, riescono a sfondare le linee italiane e ad arrivare fino al Piave. L’invasione da parte del nemico dei propri confini, la perdita di molti dei territori conquistati con fatica nelle guerre del Risorgimento, viene percepita dal Paese (ma non dalla sua popolazione agricola, desiderosa in qualche caso che arrivasse qualcuno, fossero pure “i Tedeschi”, pronto a tagliare la testa “ai signori che avevano voluto la guerra”) come una prova di vita o di morte. Destituito Cadorna, il nuovo comandante in capo Armando Diaz (1861-1928) stabilisce un rapporto di collaborazione con ...

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