Dallâinizio del secolo alla Grande Guerra
Il nuovo secolo si apre, in Italia, con un regicidio. Lâuccisione di Umberto I per mano dellâanarchico Gaetano Bresci (29 luglio 1900) rappresenta lâultimo atto della grave crisi politica e istituzionale iniziata due anni prima con la repressione manu militari dei moti per il caro viveri, a cui era seguito il tentativo â portato avanti dal governo Pelloux con il sostegno della corona â di limitare drasticamente quellâinsieme di libertĂ politiche e civili il cui riconoscimento aveva fatto sĂŹ che lâItalia potesse iscriversi a buon diritto nel novero degli Stati liberali.
Tuttavia, anzichè inasprire le tendenze autoritarie, la morte del re segna il definitivo fallimento della reazione. Le elezioni politiche di giugno avevano giĂ fatto registrare una consistente vittoria delle sinistre (socialisti, radicali, repubblicani), protagoniste di una strenua battaglia parlamentare contro le leggi âliberticideâ proposte da Pelloux (1839-1924); da parte sua Vittorio Emanuele III, salito al trono nellâagosto del 1900, si allontana dalla politica repressiva seguita dal padre. Ă, di fatto, lâinizio di un nuovo corso, in cui lâidea di un âritorno allo Statutoâ â ovvero il riferimento a un modello di monarchia costituzionale di stampo prussiano â viene accantonata in nome di un progetto assai diverso, mirante alla piena parlamentarizzazione del sistema politico e allâinserimento delle masse nella vita dello Stato; e questo progetto porta il nome di Giovanni Giolitti (1842-1928).
Contro la tendenza a reagire alle sollecitazioni provenienti dai ceti piĂš bassi della societĂ con âleggi reazionarieâ e âprepotenze di governoâ, contro lâidea che le tensioni sociali potessero essere gestite come un problema di ordine pubblico e che il governo dovesse ergersi a difensore degli interessi delle classi padronali, Giolitti propugna con luciditĂ e coerenza la completa neutralitĂ dello Stato nei conflitti tra capitale e lavoro e il carattere politicamente, economicamente, socialmente positivo dellâorganizzazione e dellâascensione delle classi popolari. Ministro dellâInterno nel governo guidato dal democratico Giuseppe Zanardelli (1826-1903) tra il 1901 e il 1903, Giolitti ne rappresenta la vera anima, e inaugura la sua lunga egemonia sulla vita politica italiana.
Naturali interlocutori di questo nuovo indirizzo politico devono essere â oltre naturalmente alle correnti liberali piĂš avanzate â coloro che si propongono come i rappresentanti dei diritti e degli interessi delle classi popolari, ovvero i socialisti. Nei confronti del Partito Socialista Italiano Giolitti abbandona la politica repressiva inaugurata qualche anno prima da Crispi (1818-1901) e tenta la via della collaborazione; una scelta, questa, che sembra essere favorita dai rapporti di forza che si sono delineati tra la corrente rivoluzionaria e la corrente riformista del partito. Nel settembre del 1900 il VI congresso del PSI aveva approvato, con un solo voto contrario, il âprogramma minimoâ proposto da Claudio Treves (1869-1933). Ampliamento del suffragio, legislazione sociale, decentramento amministrativo e riforma tributaria diventano gli obiettivi programmatici del partito, che abbandona â almeno temporaneamente â la prospettiva insurrezionale, concentrando le sue energie sulla modernizzazione e sulla democratizzazione del sistema capitalistico-liberale. Guidato da Filippo Turati (1857-1932), la cui fede socialista non si pone in contrasto con una forma mentis di ispirazione democratico-radicale, il Partito Socialista Italiano adotta nei confronti del governo Zanardelli-Giolitti la linea della valutazione caso per caso, la quale finisce per trasformarsi di fatto in un voto di fiducia.
LâattivitĂ riformatrice del governo Zanardelli (indebolita peraltro dal fallimento dei progetti piĂš ambiziosi, quali la riforma tributaria e lâintroduzione del divorzio), viene ripresa dai governi successivi, guidati da Giolitti in persona. Tra il 1903 e il 1913 vengono approvate la conversione della rendita (dal 5 percento al 3,5 percento), la nazionalizzazione delle ferrovie, la municipalizzazione dei servizi, la legislazione sul Mezzogiorno e poi, sul finire del decennio giolittiano, il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita e il suffragio universale maschile: tutti passi in avanti sulla via della trasformazione del âvecchioâ Stato liberale in una moderna liberaldemocrazia, ma â agli occhi di molti osservatori â passi fin troppo cauti, che si risolvono in un riformismo pragmatico del caso per caso, incapace per sua natura di affrontare e di risolvere le questioni di fondo. Ciò che maggiormente viene rimproverato a Giolitti, però, è la supposta manomissione del meccanismo della rappresentanza politica: non solo a causa dellâintervento dei prefetti nelle elezioni (un intervento pesante soprattutto nel Sud, e che vale a Giolitti lâappellativo, coniato da Gaetano Salvemini (1873-1957), di âministro della malavitaâ), ma soprattutto a causa del neotrasformismo cui il presidente del Consiglio sembra improntare i suoi rapporti con la Camera. In quella che gli avversari avrebbero definito la âdittatura giolittianaâ, lâesistenza di una vasta maggioranza parlamentare, retta dal personale rapporto di dipendenza dei suoi membri dal presidente del Consiglio, sembra rendere di fatto impraticabile qualsiasi alternativa ispirata a un diverso orientamento politico. Se ne accorge, a sue spese, Sidney Sonnino (1847-1922): il suo tentativo di costituire un âgrandeâ partito conservatore, in grado di promuovere dallâalto le riforme necessarie allo sviluppo e alla modernizzazione del paese senza cedere terreno ai âsovversiviâ, non riesce a concretizzarsi, e i tentativi sonniniani di governo (due brevi parentesi, nel 1906 e nel 1910), falliscono anche per la mancanza di un partito in grado di sostenerli.
Egemonia politica e discredito culturale procedono dunque di pari passo. Particolarmente acceso è lâantigiolittismo degli intellettuali, a cui il pragmatismo empirico e lâattitudine spiccatamente antiretorica dellâuomo politico piemontese non appaiono certo doti, ma anzi il segno di un grave deficit ideale, confermato e aggravato dalla corruzione della vita politica e dal cinismo nella gestione del potere. Nellâultimo scorcio dellâetĂ giolittiana questo accumulo di tensioni ideali fa vacillare lâequilibrio politico, tendendo a far emergere correnti ideologicamente radicali e indisponibili al compromesso e al gradualismo giolittiani. La guerra contro la Turchia per la conquista della Libia (1911-1912) rende piĂš aggressivo il movimento nazionalista che, costituitosi in associazione nel 1910, si va caricando in quegli anni di accenti sempre piĂš marcatamente imperialistici e antiliberali, e favorisce la vittoria della corrente massimalista allâinterno del Partito Socialista, la quale, specularmente, comincia in quel momento a costruire le proprie fortune su un antimilitarismo non privo di esibite venature antipatriottiche. Le elezioni dellâautunno del 1913, le prime a suffragio universale maschile, segnano una consistente avanzata dei socialisti; se i liberali reggono lâurto è soprattutto grazie al contributo degli elettori cattolici, che la sospensione del non expedit libera dallâobbligo dellâastensione. Il âpattoâ siglato in vista delle elezioni da Giolitti con il conte Ottorino Gentiloni, presidente dellâUnione Elettorale Cattolica, può sembrare un successo della strategia giolittiana basata sullâinclusione di quelle masse â cattoliche come socialiste â che fino a quel momento erano state estranee od ostili al progetto liberale di governo. In realtĂ , lâelettorato cattolico è portatore di una propria cultura politica, diversa â talvolta molto diversa â da quella liberale. Lâemergere del nazionalismo, del socialismo rivoluzionario, del cattolicesimo politico mostra cosĂŹ il principale limite del âtrasformismoâ giolittiano, ovvero il suo isolamento culturale. âUna mediocre combinazione parlamentare, nata tra i corridoi e lâaulaâ: cosĂŹ viene considerata, nel giudizio dei nuovi alfieri dellâideale, lâItalia giolittiana. Ma quellâItalia â prosegue nel 1913 il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola (1873-1959) â non esiste piĂš: âesiste unâItalia cattolica, esiste unâItalia socialista, esiste unâItalia imperialista: non esiste unâItalia giolittianaâ.
In questâultima parte, il giudizio coglie nel segno; ma câè da aggiungere che, insieme allâItalia giolittiana, è in profonda crisi lâItalia liberale stessa. Lâampio discredito di cui la classe dirigente liberale è diventata oggetto si riverserĂ , di lĂŹ a poco, anche sulle istituzioni liberali, e in particolare sul Parlamento. Lâantiparlamentarismo, a dire il vero, godeva giĂ da tempo di unâampia circolazione nellâopinione pubblica del Paese. Tuttavia, una cosa è la denuncia, da parte di giornalisti e intellettuali, delle âpatologieâ e delle disfunzioni del sistema rappresentativo; altro è lâesercizio, da parte della piazza, di una violenta pressione sul Parlamento, fino a scavalcare la volontĂ di una maggioranza democraticamente eletta. Proprio questo è ciò che accade nella primavera del 1915, quando, in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale, una minoranza interventista â composta per lo piĂš da nazionalisti, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari â riesce a imporsi con una campagna violenta e intimidatoria sulla maggioranza neutralista rappresentata in Parlamento. Il 20 maggio 1915 questâultimo si piega, votando a scrutinio segreto la concessione dei pieni poteri al governo; il 23 maggio, a nome dellâItalia, il governo Salandra (il liberal-conservatore Antonio Salandra, (1853-1931), aveva sostituito Giolitti alla presidenza del Consiglio nel marzo del 1914: lâetĂ giolittiana era davvero finita) dichiara guerra allâAustria.
Le modalitĂ con cui lâItalia entra in guerra provocano spaccature e lacerazioni che il conflitto, invece di sanare, avrebbe esacerbato, e immettono nella vita politica del Paese i germi di una nuova politica fondata sullâappello diretto alle masse (Mussolini e DâAnnunzio erano stati i campioni delle piazze interventiste), sulla denuncia del ânemico internoâ, sulla contrapposizione della nazione al Parlamento. Nellâarroventato clima politico del dopoguerra, miti e riti della nuova politica spazzeranno via le ultime resistenze del vecchio mondo e della vecchia mentalitĂ liberali, giĂ messe a dura prova dal prolungato sforzo bellico. La guerra, infatti, si rivela molto diversa dal previsto: non il rapido conflitto immaginato da Salandra e dal suo ministro degli Esteri Sonnino, bensĂŹ unâestenuante guerra di logoramento. Le azioni offensive ordinate dal comandante in capo Luigi Cadorna (concentrate principalmente sul fronte del Carso e dellâIsonzo) falliscono ripetutamente di fronte alle trincee austriache. Mantenuta caparbiamente e contro ogni evidenza fino alla sconfitta di Caporetto, lâimpostazione offensiva, di cui la realtĂ della guerra di trincea aveva presto mostrato lâinefficacia, ha un costo altissimo in termini di vite umane: lâabbondanza di âcarne da cannoneâ deve supplire allâimpreparazione tecnica, allâimprovvisazione strategica, allâinferioritĂ negli equipaggiamenti. Alla noncuranza nei confronti del sacrificio di vite umane, si unisce in Cadorna lâapplicazione di metodi disciplinari di stampo terroristico, con ricorso frequente alla decimazione e alle esecuzioni sul campo; e anche questo non cambia fino a che, nellâottobre del 1917, lâesercito italiano non va incontro alla piĂš disastrosa sconfitta della sua storia con le truppe austro-tedesche che, con la tattica dellâinfiltrazione, riescono a sfondare le linee italiane e ad arrivare fino al Piave. Lâinvasione da parte del nemico dei propri confini, la perdita di molti dei territori conquistati con fatica nelle guerre del Risorgimento, viene percepita dal Paese (ma non dalla sua popolazione agricola, desiderosa in qualche caso che arrivasse qualcuno, fossero pure âi Tedeschiâ, pronto a tagliare la testa âai signori che avevano voluto la guerraâ) come una prova di vita o di morte. Destituito Cadorna, il nuovo comandante in capo Armando Diaz (1861-1928) stabilisce un rapporto di collaborazione con ...