Il Seicento - Letteratura e teatro
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Il Seicento - Letteratura e teatro

Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 55

Umberto Eco

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Il Seicento - Letteratura e teatro

Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 55

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Elemento comune del paesaggio verbale secentesco consiste nel barocco, ossia in quella sensibilità e tecnica espressiva che esaspera la raffinatezza sino all'ossessione dell'artificioso e fa della metafora il suo strumento fondamentale, il suo principio dinamico, con una radicalità e un'ampiezza ignote al Rinascimento. Sin dai primi anni del secolo la letteratura afferma e riflette un'ansia febbrile del nuovo; al pari dell'universo, muta anche la biblioteca del passato, mentre la tradizione viene assunta come una sorta di grande museo da esplorare e ricomporre secondo le ragioni del tempo moderno. Il genere romanzesco sale imperiosamente alla ribalta e si affianca a quello epico per rappresentare le peripezie dell'esistenza nelle strutture mobili e aperte della prosa, di cui Cervantes è da considerarsi il genio tutelare. Nella sua ricerca dell'inedito e del sorprendente, la poesia barocca dilata e modifica per almeno tre generazioni la tematica della tradizione lirica, dando piena paternità poetica a situazioni quotidiane eccentriche e a oggetti e manufatti curiosi, come l'orologio, il compasso, il telescopio, la fontana, l'automa, mentre dalla natura e dall'arte si ricava un repertorio di immagini canoniche alla base dei grandi cliché tra cui quello della vita come teatro e del mondo come libro. E sempre in questa sensibilità nasce il teatro moderno tra linguaggio tragico di chi affronta il proprio destino e la gestualità vitale della commedia dell'arte, coi suoi grandi artefici: da Shakespeare a Calderón de la Barca, da Gryphius a Vondel, da Corneille a Racine.Questo ebook esplora tutti le anime di una letteratura così ricca e varia, che ha lasciato un'eredità profonda alle letterature europee dei secoli a venire.

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Information

Year
2014
ISBN
9788897514879

Modi e luoghi del teatro secentesco

William Shakespeare
Carlo Pagetti

Considerato il più grande drammaturgo inglese, ovvero il più grande uomo di teatro della modernità, e perfino dall’influente critico americano Harold Bloom il sommo artista della tradizione letteraria occidentale, William Shakespeare appartiene sia all’epoca del Rinascimento inglese a cavallo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, sia alla nostra contemporaneità. Le sue opere, continuamente tradotte e spesso riscritte, rivisitate alla luce della sensibilità e degli interessi di ogni epoca, vengono recitate sui palcoscenici di tutto il mondo, mentre anche le altre forme letterarie e la stessa cultura di massa (dai telefilm ai fumetti, dalla pubblicità alle citazioni giornalistiche) attingono in modo incessante ai testi shakespeariani

Il “personaggio” Shakespeare

Lo stesso Shakespeare è diventato un personaggio popolare attraverso le ricostruzioni storiche o pseudo-storiche destinate a un vasto pubblico e le versioni cinematografiche sulla sua vita, che ne fanno una figura piena di slanci romantici (Shakespeare in Love di John Madden, 1998), o mettono in discussione la sua identità, addirittura vedendo in lui un mediocre prestanome, che avrebbe coperto l’attività di Edward de Vere, conte di Oxford (Anonymous di Roland Emmerich, 2011). Il dibattito sulla identità di Shakespeare ha coinvolto in passato anche studiosi di valore, alcuni seguaci della teoria che il vero autore delle opere di Shakespeare fosse il filosofo Francis Bacon; altri, guidati da una fantasia ancora più fervida, che il teatro di Shakespeare fosse in realtà ispirato dal drammaturgo Christopher Marlowe, erroneamente ritenuto morto nel 1593, a seguito di una rissa da taverna. Con buona pace di questa inesauribile vena in cui si mescolano disinvoltamente fact e fiction, siamo ragionevolmente sicuri dell’esistenza e dell’attività teatrale di Shakespeare, e possiamo affermare, come intitola il “Times Literary Supplement” del 23 aprile 2010 (il 23 aprile è indicata di solito come la data della nascita e della morte del drammaturgo), introducendo la recensione dello studio di James Shapiro Contested Will. Who wrote Shakespeare?: “Yes, Shakespeare wrote Shakespeare”; sì, è Shakespeare che ha scritto Shakespeare. Un peso sostanziale ha, invece, il dibattito sulla authorship shakespeariana, che, in questi ultimi anni, ha posto in rilievo il carattere collaborativo degli ambienti teatrali londinesi del Rinascimento inglese, non escludendo affatto interventi di alcuni contemporanei in alcune delle opere più significative di Shakespeare, ad esempio il Macbeth, rappresentato nel 1606, che, nelle versioni in cui ci è giunto, sarebbe da attribuire anche a Thomas Middleton.

Sulle tracce di un’incerta biografia

Rimangono oscuri, piuttosto, alcuni passaggi della biografia di Shakespeare, proveniente da una famiglia borghese di Stratford upon Avon, arrivato a Londra tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del Cinquecento, subito inserito in una delle compagnie teatrali dell’epoca, protette dalla nobiltà di corte (e, dopo la morte di Elisabetta I, nel 1603, direttamente dal successore Giacomo I), come attore discreto e autore prolifico, presto apprezzato dal pubblico. Il ritorno a Stratford, avvenuto attorno al 1609, inaugura un ultimo periodo, conclusosi con la morte nel 1616, solo in parte documentato, in cui Shakespeare continuò comunque la sua attività teatrale, come dimostra la rappresentazione a corte de La tempesta, nell’inverno 1611-12. Solo nel 1623, la pubblicazione delle sue opere, divise in Comedies, Histories, Tragedies, nel grande volume (il cosidetto primo in-quarto) curato da John Heminge e Henry Condell, due attori che avevano lavorato con lui nella compagnia dei Chamberlain’s Men (dal 1603 King’s Men) sancisce il carattere fuori dalla norma della sua carriera teatrale, anche se occorrerà attendere, all’inizio dell’Ottocento, la riscoperta dei romantici tedeschi e inglesi perché Shakespeare diventi un genio universale, il vate ispiratore della letteratura moderna, accanto a Omero e a Dante, ovvero il “Cigno di Avon”, il Bardo che esalta e celebra l’identità della nazione britannica.

Un corpus “fluido”

William Shakespeare

Sonetto CXLVII
Sonetto CXLVII

Il mio amore è una febbre, e avidamente chiede
Solo ciò che più a lungo ne alimenta il male;
E a compiacere il malfermo, malsano appetito si nutre
Solo di ciò che meglio favorisce il morbo.
Medico del mio amore, la ragione è offesa
Che le sue prescrizioni non vengano seguite,
E perciò mi abbandona, così che disperato ormai convengo
Che il desiderio è morte, avendo escluso
Ogni medicamento. Ora che la ragione è incontrollabile
Io non ho più speranza, e con perenne affanno
Delìro come un pazzo, e pensieri e parole sono identici
A quelli di un demente, e vaneggiano, e parlano
Inutili e sconnessi, troppo lontani dalla verità.
Perché avevo giurato che eri bella, e ti pensavo chiara,
Tu che sei nera al pari dell’inferno o a una notte di tenebra.
W. Shakespeare, Venticinque sonetti, trad. it. di R. Sanesi, Milano, Severgnini, 1985
In realtà, anche l’in-folio del 1623, uscito sette anni dopo la morte di Shakespeare, si basa sulla raccolta di materiali eterogenei (copioni teatrali; manoscritti dello stesso autore, di cui non ci è rimasta traccia; copie una volta definite pirata, i cosidetti bad quartos, stampati forse senza l’approvazione del drammaturgo), che non consentono di giungere alla definizione di un testo definitivo. Se, in qualche caso – per esempio per il Giulio Cesare e per La Tempesta – abbiamo solo la versione dell’in-folio, in altri casi gli studiosi che dal Settecento si sono occupati di pubblicare utilizzando criteri filologici il canone shakespeariano si sono trovati di fronte a versioni differenti e tra di loro molto diverse. Così accade per opere famose come l’Amleto, l’Othello, il Re Lear. L’Amleto fu pubblicato nel 1603 in una prima versione tagliata e semplificata (il cosidetto primo in-quarto, o Q1), nel 1604 in una versione notevolmente più ampliata, forse tratta da un copione teatrale (Q2), e poi, con considerevoli varianti e con un paio di drastici tagli, nell’in-folio del 1623. Nel caso dell’Othello, l’edizione dell’in-folio si distingue da quella precedente, apparsa nel 1622, soprattutto per la mancanza delle espressioni blasfeme, che pure caratterizzano l’opera e soprattutto il linguaggio di Jago. Secondo gli studiosi, la differenza consisterebbe nel fatto che la prima versione risale in realtà all’epoca in cui l’opera era stata rappresentata (tra il 1604 e il 1605). Nel 1606 una legge che puniva le bestemmie pronunciate in scena dagli attori, il Profanity Act, avrebbe costretto Shakespeare a revisionare il dramma di Otello e Desdemona. Infine, il Re Lear è sopravvissuto in due edizioni a stampa talmente diverse tra di loro, da suggerire a qualche studioso di considerarle testi autonomi, da ripubblicare l’uno accanto all’altro. La prima versione risale all’in-quarto del 1608, e la seconda all’in-folio...

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