La Mappa
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Vittorio Giacopini

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Monti, laghi, colline, forre, fortilizi e contrafforti, borghi, strade, slarghi: vedere tutto, comese si fosse per aria, e tutto rappresentare in unamappa, con dettagli minuti, badando a distanze, rilievi, proporzioni: squadrare il mondo, illuminarlo, dargli ordine.È questo l'obiettivo di Serge Victor, ingegnere-cartografo al seguito di Napoleone durante laCampagna d'Italia. Figlio esemplare dei Lumi, nemico di fole balzane e superstizioni, adeptodell'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert – alle cuiparole si aggrappa con una devozione non lontanadal fi deismo che la Rivoluzione si era incaricatadi smantellare –, Serge Victor riceve l'ordine dalGenerale in persona di riprodurre i corsi e i ricorsidella Campagna, di fermare su carta e nel tempo inuovi confini d'Italia, che il demiurgo Napoleone, N., l'Imperatore, va ridisegnando e riplasmando, sempre più a suo piacimento. Così, mentre il còrsoconquista la penisola e, non pago, invade l'Egitto, Serge lavora alla sua magnum opus, in compagniadi uno scalcinato poeta tutto sdegno e fervore edell'ammaliatrice Zoraide, la sua Maga, che dellaragione rappresenta il doppio, il sonno, e prefigural'assedio portato ai Lumi dalle sotterranee pulsioniche, nella Storia come nell'animo dell'uomo, non conoscono sopore.Da questo assedio – più cruento di ogni battagliascatenata da Napoleone, più spietato di ognirivoluzione –, l'Illuminismo uscirà pesto e zoppicante, come Serge stesso, che nell'erebo ghiacciatodi Russia dovrà dire addio alla giovinezza e allaforza, ma soprattutto alla fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell'umanità. A capitolarenon è però solo un uomo o un'epoca, ma un interogenere letterario, il romanzo storico: perché LaMappa, di là dallo sfarzo di una prosa immaginifica e di una struttura narrativa monumentale, lasciapresagire un'aria di disfacimento, e sanciscel'irriducibilità del reale nella forma-romanzo, el'arbitrarietà di ogni pretesa del contrario.

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2015
ISBN
9788865764084

PRIMA PARTE

Avventure
(1793-1800)

I bivacchi davanti al mare

Coriandoli di tabacco danzavano in leggiadro corteggio dinnanzi al bagliore dei bivacchi. Fumo su fumo e fumane di chiacchiere oziose. Smoccolante improperi, il tracagnotto còrso arraffava pizzicate d’Herba Regina, gesticolando, e fierissimi starnuti contrappuntavano il crepitare dei ceppi sulle braci. «Non ischerzar coll’orso, quando gli fuma il naso» lo canzonava il delfinese, sbeffeggiante allampanato, poco discosto. «Vedi di rammentarti che Urbano VII prescrisse scomunica per chi fiuta in chiesa» lo incalzava non senza trascurare il bastone di tabacco di Cospaia che lui stesso aspirava allegramente emettendo soffiate di fumaglia, grigiodensa.
Era una notte di tardo settembre, nell’anno Settecentonovantatré. Contro la parete scarnita dei calanchi, tra spelacchiati arbusti di ginepro e lentischio, garofanato mirto, rosmarino, blateravano i due, e attorno a loro la soldataglia stanca riposava. Blu era la notte e fonda, senza stelle; cupo a strapiombo il mare, in monotona risacca contro gli scogli. All’orizzonte – ma già a un tiro di schioppo, dritte e ratte – le luci di Tolone, stretta d’assedio.
Da mesi la canaglia reazionaria s’era inserrata nella città fortezza. Realisti e avanzi girondini, amici de’ preti, e ora le truppe inglesi, spalleggiate da ispanonapoletani e piemontesi. Non li aveva spauriti la caduta di Lione, la resa di Avignone, di Marsiglia. Gli ectoplasmi Ancien Régime si ostinavano a presidiare quell’ultima trincea, a ragione o a torto stimata inafferrabile. L’armata repubblicana mordeva il freno, bloccata davanti ai forti sulle colline, impotente al cospetto della doppia rada dello scalo. La «piccola Gibilterra» faceva da pietra d’inciampo alla Rivoluzione.
«Stolide bestie»: cavalcioni sulla roccia, masticava amaro il fiutatabacco còrso, inviperito. Il bel cocco di Barras e di Robespierre (cadetto), di Saliceti, pativa l’inazione di quei giorni, quel tempo fermo d’indugio, esitazione. L’attesa – questo vuoto guardare verso la parte donde si crede debba arrivare persona o cosa – stonava con la sua indole smaniosa.
Meno incline all’atrabiliare foga del compare, il delfinese s’era levato in piedi e ora fissava oltre la baia le luminarie fioche dei bastioni di Tolone. Ove altri avvertiva confusione, avviluppo, contagioso entusiasmo o contrizione, lui discerneva soltanto schemi di sterile, elegante rigore, elusive figure da sciogliere in piane soluzioni, geometrizzanti, semplici forme di ritrosa bellezza (e senza vita). Né gli sembrava diverso il rovello scabroso del momento, questo stallo d’armate in faccia al mare. C’è un mondo dentro al mondo, o sotto il mondo, e ogni cosa cela un ordine suo, però cifrato, perso in sembianze e immagini di effervescente eccesso ma illusorio. Se il capitano còrso s’arrovellava inquieto nell’attesa di un impeto violento quanto cieco, Serge Victor, il cartografo, soppesava le ordinate e le ascisse di un diagramma invisibile o un teorema. Non era il caso di bruciare d’ardore, speso male.
«Vedi» si rivolgeva al còrso col tono suo di sempre, finto svagato, «a pensarci non v’è città o radunanza d’uomini o urbana conventicola che sia davvero leggibile al di fuori di un vincolo esterno, di imposte circostanze e limiti segnati, definiti.»
L’altro sembrava poco propenso al cauto ragionare del delfinese: «Non ti capisco mica, che intendi dire?».
Quel che intendeva era: l’assedio. «Non farti ingannare da mura, porte, molti alti sul mare, massicciate; ogni città è in sé una cosa informe, molliccia, gelatinosa che trova la sua misura solo in frangenti speciali come questo. Le truppe che iniziano ad accerchiarla sono come le squadre o i righelli necessari per tracciare quel disegno che metta ordine dove è solo vaghezza, imprecisione. Ben squadrata, misurata in scala, spogliata delle apparenze, semplificata, la città da enigma si fa puro cristallo, in trasparenza, alla fine capisci persino cosa fare…»
«Sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire che prima viene la mappa, indi l’azione. Ma questo» e qui Serge allargava le braccia con fare teatrale, «questo lo sai da solo, è naturale. Accostiamoci al fuoco, ti mostro che intendo.»
Tornati al bivacco, il delfinese cacciò fuori dalla tasca della lercia redingote una carticella spiegazzata. Sul foglio, schizzati alla buona, i tratti della costa, le insenature, i rilievi attorno a Tolone, le sedi dei fortilizi, i corsi d’acqua. Curvo sul brogliaccio, il giovane còrso cominciava a intuire. «Per paradosso» gli faceva l’altro segnando a dito quanto reputava di maggior momento «gli ostacoli apparenti si rivelano occasioni, la soluzione…»
Nel suo ragionare, i giochi di guerra mutavano in rebus matematici, algebrici indovinelli o scioglilingua. «Togliti dalla testa l’assalto o la presa per fame: son bambinate. Il caso va analizzato valutando semplici campi di forze, moti assiali elementari, perfette incognite. La presenza dei vascelli britannici in rada grande, per dire, può trasformarsi da fastidioso spauracchio in arma letale. Basta costringerli a ripiegare all’interno della rada minore, e trappolarli. Ma senza muovere un uomo; be’, più o meno.»
Il cartografo illustrava il suo piano infervorandosi. Prendere la collina del Caire, in faccia a Tolone, e da lì calare sui forti di l’Aiguillette e de la Balaguier, per espugnargli.
«E a quel punto cannonare le navi?»
«Proprio così. Se vanno a infilarsi in rada piccola sono fottuti (e lo so che questa è voce che tra persone costumate non s’adopra). Questione di giorni o settimane, al massimo un mese, e dovranno sloggiare, alzare le vele.»
«La fai facile…»
«È facile.»
«Effettivamente…»
Quando s’erano conosciuti, giorni addietro, il delfinese gli aveva fatto poca impressione. Se l’era ritrovato appoggiato bel bello all’affusto di una bombarda, aria sorniona, mentre acquerellava certe piante rachitiche d’olivo che s’intestardivano a metter radici corte tra le rocce cavando sostentamento da zolle di terra asciutta, rosso brunita. «Tenente Victor», «capitano Buonaparte», e trallallero (le solite formali presentazioni, cerimoniose). Poi avevano preso a parlare, intrattenersi, tanta era la noia dell’assedio. Ora, invece, le astruse sofisticherie del delfinese gli apparivano meno inani, più concrete. Quel suo disumanare la guerra, tanto stitico e falòtico, spiazzante, aveva una sua raison d’être, per quanto oscura. Avrebbe dovuto proporre il «piano» al commissario politico mandato da Parigi, a Saliceti; se restavano ad aspettare quel poltrone del general Carteaux stavano freschi. Del resto, nemmeno era una novità, a pensarci bene.
Costretto dal tedio di quei giorni tutti uguali tra loro e senza eventi, il capitano còrso inciampava nei ricordi, malvolentieri. Era un «metodo» anche quello, a conti fatti. Così ripensava alla scuola d’artiglieria di Auxonne, in Côte-d’Or. Il vecchio barone du Teil portava i suoi ufficialetti in piena campagna per assurde manovre senza truppe, un esperimento. Stivali infangati e mappe alla mano, si trovavano a simulare chissà quali battaglie immaginarie. Come prendere un villaggio o come salvarlo; come guadagnare postazioni sicure sulle colline. Esercizi mentali; astrazioni. Era solo questione di calcolo e finzione, di raziocinio. Il nodo era il controllo del territorio, un algoritmo. Carta alla mano, non è che il delfinese dicesse cose poi tanto diverse. Avrebbe mostrato quel piano a Saliceti. Era sensato.
*
Diversamente dal còrso, militare di carriera, uomo d’azione, spesso il cartografo si domandava cosa ci stesse a fare su quelle smunte rocce davanti al mare. Quale appello l’aveva reclamato tra le milizie intruppate tutt’attorno a Tolone interrompendo il suo autoimposto esilio di stralunata pace tra gli alpeggi? Fedele al suo usato costume, si esaminava; coerente con se stesso, si interrogava. Uomo dei Lumi (così amava pensarsi e si definiva), non tollerava l’alea dell’incertezza, nessun azzardo o abborracciato caso, le imprecisioni. Se la sua vita si faceva «romanzo», sdolcinato, voleva ridargli senza ritardo e indugio una ragione. Neanche a vent’anni, già era lì a stilare bilanci e consuntivi, provvisori. Si vive, ragionava, di fredde decisioni, di insofferenze, ma vivere non basta, occorre pensarsi.
La sua infanzia sciupata a Grenoble, tra incenso e preci, bisbigli di provincia, piccinerie; la sua infanzia confinata in un angolo, riottosa. Precoci memorie di penombra, in chiaroscuro, senza un segno marcato, prive di lampi. La tirannia dei nomi, una sorta di sottile condanna topografica, gli rinviava adesso un messaggio beffardo, per metà ancora oscuro, da decrittare, e per metà anche sin troppo limpido, palese. Targhe eloquenti e mogi interni foderati di mormore mestizia e pregiudizio. Rue des Vieux-Jésuites, Rue de Grenelle, palazzi di intonaco grigioazzurro, infissi verde lavanda, stucchi bianchi e, quattro strade appresso, le rive dell’Isère, bruno fluente tra pareti d’ardesia nerofumo e casupole marce, imbarcaderi. Sole le Alpi lontano, svettanti all’orizzonte, gli davano emozione e conforto, quasi gioia (anni più tardi, quanto l’avrebbe deluso il piattume attorno a Parigi, inaspettato).
Giorni stirati come sbadigli, notti solinghe e tutta una litania di devozioni cadenzavano la sua vita già tramortita da un tedioso breviario di ubbidienze. Attorno a lui, figure di famiglia, desolanti, e pochi o punti amici: gli eran vietati. La madre, defunta nel darlo alla luce, poteva anche idolatrarla in astrazione ma restava un’immagine di sogno, evanescente. All’indole delfinese, vivace, ostinata, ragionatrice («Per chi ci vede chiaro, la musica, i paesaggi e i romanzi dovrebbero cambiare ogni tre gradi di latitudine» annoterà molto più tardi in uno dei suoi rari scritti autobiografici), suo padre accoppiava la grettezza dell’avaro di tre cotte combinata con un certo orgoglio codino, malriposto. Non meno molesta era la falsocortese e arcigna zia materna, legata a filo doppio al genitore («Due diavoli erano scatenati contro la mia povera fanciullezza, la zia Séraphie e mio padre, che dal 1781 divenne suo schiavo»). Memorabile a suo modo anche l’abate precettore, il torvo Raillane, «una vera canaglia nel senso più completo della parola». In questo soggetto, perfetta espressione del meschino complotto ziesco-paterno, si compendiava tutta l’anima gesuitica repressa che, nonostante il bando, ancora alitava attorno le sue ipocrite fiatate ricattatrici. Serge quasi si esaltava rievocando l’aspetto e i tratti morali del gaglioffo: «Magro, molto manierato, il colorito verdognolo, lo sguardo falso con un sorriso odioso… quest’uomo per scaltrezza, per educazione o istinto di prete era nemico giurato della logica e di ogni retto ragionamento».
Consolarlo, poteva consolarlo magari il nonno, il solo forse che l’amasse d’amore sincero. Illuminista in cuor suo, pur sotto mentite spoglie di baciapile, il vecchio viveva il transito dei tempi incuriosito e la sua casa, il vasto appartamento in Rue de Grenelle (all’angolo della Grande Rue, la casa dava sulla più bella piazza della città, coi suoi due caffè rivali a fronteggiarsi), era stata per Serge un porto amico, l’unico approdo in quel mare di noia. Di lui rammentava le caramelle al rabarbaro, amarissime, che quegli era sempre fiero di donare, e la singolare mise Ancien Régime. Con la scusa di assistere il vegliardo e fare con lui ripasso di latino, sgattaiolava via da Rue des Vieux-Jésuites sempre più spesso. L’antenato l’attendeva nello studiolo affacciato sulla terrazza fiorita. Una lunga fuga di corridoi stipati di severo, ingombrante, mobilio, culminava nel bizzarro camerino pentagonale. Davanti allo scrittoio troneggiava un busto di Voltaire, marmolucente.
Dottore in medicina, il nonno portava sempre una parrucca incipriata, tondeggiante, adornata da tre file di riccioli, e aveva il vezzo di tenerla in bella mostra, con ogni tempo, essendosi fatto un principio di non indossare mai il cappello in testa. Così se ne stava sempre col copricapo triangolare sotto il braccio, impettito come un merluzzo o un soldatino (nell’altra mano teneva sempre la canna da passeggio, un bastoncino col pomo in radice di bosso ornato di tartaruga). Chirurgo militare, veterano delle guerre di successione – era stato all’Assietta con Belle-Isle – il vecchio Henry viveva allora di glorie passate e arguti pettegolezzi grenoblesi però senza trascurare le novazioni e a testimoniarlo (oltre al busto di Voltaire, naturalmente) stavano i tomi infiniti dell’Encyclopédie in bell’ordine allineati sugli scaffali. Altra cosa notevole, che Serge ritrovava adesso affiorante nei ricordi con l’intensità elusiva di un presagio, una grande carta del Delfinato, larga ben quattro piedi e attaccata al muro splendida e sbilenca. Nei tratti, era in fondo un lavoro seicentesco e ancora ci scorgevi minute figure umane, malcelate, e vari disegni incongrui, ingenue icone. Ma il nonno ne andava fiero, ci teneva, e il bambino ci si perdeva, conquistato.
Ordine, eleganza, una sobria misura di curiosità. Tutto a casa del nonno trasudava intelligenza, anzi attenzione, l’esatto contrario dei suoi giorni da recluso ai Vieux-Jésuites. Lì soltanto discipline mortuarie, contrizioni, ciance mandate a memoria, parole false (e il trillo dei dannati canarini dell’abate, reclusi anch’essi in una povera gabbietta in fil di ferro, starnazzanti all’alba molesti, silenti il giorno: «Quei diavoli d’uccelli» ricorderà «mi svegliavano sul far del giorno, subito dopo sentivo il rumore della paletta dell’abate che attizzava il fuoco con una cura che ho riconosciuto più tardi essere tipica dei gesuiti»). Più che normale che cercasse la rotta, un’evasione, ogni pretesto per lasciare Grenoble.
Vedi, che l’Alma mia in fuga è mossa
per li nemici miei acerbi e duri…
Antichi versi lo chiamavano a cercarsi un altrove, per rinnovarsi.
Così s’era rifugiato nei pascoli del disegno, un passatempo, o sulle pareti di roccia della matematica. Alla trivialità di familiari, pettegoli grenoblesi, preti e suore, contrapponeva la grazia precaria di sgorbi con la grafite o all’acquerello o la severità di computi perfetti, aride operazioni mentali tutta logica. In quella disciplina tirannica e cristallina, finto-sterile («la science qui a pour objet les propriétés de la grandeur entant qu’elle est calculable ou mesurable» sentenziavano gli onniscienti enciclopedisti di suo nonno), trovava l’alternativa perfetta alle sue gran bestie nere – il «vago» e l’«Ipocrisia» – e un contromondo che poteva controllare a piacimento, e dominare. Era un modo per sfuggire, restando fermo. Attorno a lui, la triste commedia sociale diradava e restavano soltanto numeri e segni.
Numeri e segni: così gli appariva il cosmo, in quei momenti: un ordine rigoroso, senza ombre, inutili smagliature, contrattempi. Tutto era complesso e semplice, calcolabile; nulla era dovuto al caso, o alla passione. Tra disegno e matematica, traduceva in geometria ogni apparenza. Nell’Encyclopédie aveva trovato la chiave di volta per leggere l’universo, denudandolo:
Così, con successive operazioni e astrazioni della nostra mente, noi spogliamo la materia di quasi tutte le sue proprietà sensibili, per non considerare per così dire che il suo fantasma.
Ma allontanarsi da fermo non gli bastava. La mediocre congiura degli affetti obbligati, di circostanza, il solito ballo in maschera delle convenzioni – un minuetto – poteva sospenderle per un attimo, non abolirle, e tra se stesso e Grenoble voleva scavare un solco, andando lontano. Del suo esilio a Sallanches, sulle alture, conservava un ricordo preciso, sbigottito. Ai piedi del Monte Bianco aveva cercato l’improbabile guarentigia di una pace assoluta, immacolata, ma qualcosa era andato storto e s’era imbattuto in altre leggende o fole, inaspettate. Bisbigliavano anche i monti, visibilmente. Il suo romitaggio in grezze pietre di fiume mal sbozzate – un vetusto essiccatoio per le castagne – pareva abitato da gnomi, fantasticanti. Il suo metodo razionale, la sua vocazione all’ordine, i suoi rigorosi piani, le sue gelide smanie geometrizzanti parevano smentiti dal ciarlare dei contadini, dal bofonchiare rozzo dei montanari. Se sui monti inseguiva l’esattezza, paesaggi raggelati e scarni, limpide traspa...

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