PRIMA PARTE
Avventure
(1793-1800)
I bivacchi davanti al mare
Coriandoli di tabacco danzavano in leggiadro corteggio dinnanzi al bagliore dei bivacchi. Fumo su fumo e fumane di chiacchiere oziose. Smoccolante improperi, il tracagnotto cĂČrso arraffava pizzicate dâHerba Regina, gesticolando, e fierissimi starnuti contrappuntavano il crepitare dei ceppi sulle braci. «Non ischerzar collâorso, quando gli fuma il naso» lo canzonava il delfinese, sbeffeggiante allampanato, poco discosto. «Vedi di rammentarti che Urbano VII prescrisse scomunica per chi fiuta in chiesa» lo incalzava non senza trascurare il bastone di tabacco di Cospaia che lui stesso aspirava allegramente emettendo soffiate di fumaglia, grigiodensa.
Era una notte di tardo settembre, nellâanno SettecentonovantatrĂ©. Contro la parete scarnita dei calanchi, tra spelacchiati arbusti di ginepro e lentischio, garofanato mirto, rosmarino, blateravano i due, e attorno a loro la soldataglia stanca riposava. Blu era la notte e fonda, senza stelle; cupo a strapiombo il mare, in monotona risacca contro gli scogli. Allâorizzonte â ma giĂ a un tiro di schioppo, dritte e ratte â le luci di Tolone, stretta dâassedio.
Da mesi la canaglia reazionaria sâera inserrata nella cittĂ fortezza. Realisti e avanzi girondini, amici deâ preti, e ora le truppe inglesi, spalleggiate da ispanonapoletani e piemontesi. Non li aveva spauriti la caduta di Lione, la resa di Avignone, di Marsiglia. Gli ectoplasmi Ancien RĂ©gime si ostinavano a presidiare quellâultima trincea, a ragione o a torto stimata inafferrabile. Lâarmata repubblicana mordeva il freno, bloccata davanti ai forti sulle colline, impotente al cospetto della doppia rada dello scalo. La «piccola Gibilterra» faceva da pietra dâinciampo alla Rivoluzione.
«Stolide bestie»: cavalcioni sulla roccia, masticava amaro il fiutatabacco cĂČrso, inviperito. Il bel cocco di Barras e di Robespierre (cadetto), di Saliceti, pativa lâinazione di quei giorni, quel tempo fermo dâindugio, esitazione. Lâattesa â questo vuoto guardare verso la parte donde si crede debba arrivare persona o cosa â stonava con la sua indole smaniosa.
Meno incline allâatrabiliare foga del compare, il delfinese sâera levato in piedi e ora fissava oltre la baia le luminarie fioche dei bastioni di Tolone. Ove altri avvertiva confusione, avviluppo, contagioso entusiasmo o contrizione, lui discerneva soltanto schemi di sterile, elegante rigore, elusive figure da sciogliere in piane soluzioni, geometrizzanti, semplici forme di ritrosa bellezza (e senza vita). NĂ© gli sembrava diverso il rovello scabroso del momento, questo stallo dâarmate in faccia al mare. CâĂš un mondo dentro al mondo, o sotto il mondo, e ogni cosa cela un ordine suo, perĂČ cifrato, perso in sembianze e immagini di effervescente eccesso ma illusorio. Se il capitano cĂČrso sâarrovellava inquieto nellâattesa di un impeto violento quanto cieco, Serge Victor, il cartografo, soppesava le ordinate e le ascisse di un diagramma invisibile o un teorema. Non era il caso di bruciare dâardore, speso male.
«Vedi» si rivolgeva al cĂČrso col tono suo di sempre, finto svagato, «a pensarci non vâĂš cittĂ o radunanza dâuomini o urbana conventicola che sia davvero leggibile al di fuori di un vincolo esterno, di imposte circostanze e limiti segnati, definiti.»
Lâaltro sembrava poco propenso al cauto ragionare del delfinese: «Non ti capisco mica, che intendi dire?».
Quel che intendeva era: lâassedio. «Non farti ingannare da mura, porte, molti alti sul mare, massicciate; ogni cittĂ Ăš in sĂ© una cosa informe, molliccia, gelatinosa che trova la sua misura solo in frangenti speciali come questo. Le truppe che iniziano ad accerchiarla sono come le squadre o i righelli necessari per tracciare quel disegno che metta ordine dove Ăš solo vaghezza, imprecisione. Ben squadrata, misurata in scala, spogliata delle apparenze, semplificata, la cittĂ da enigma si fa puro cristallo, in trasparenza, alla fine capisci persino cosa fareâŠÂ»
«Sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire che prima viene la mappa, indi lâazione. Ma questo» e qui Serge allargava le braccia con fare teatrale, «questo lo sai da solo, Ăš naturale. Accostiamoci al fuoco, ti mostro che intendo.»
Tornati al bivacco, il delfinese cacciĂČ fuori dalla tasca della lercia redingote una carticella spiegazzata. Sul foglio, schizzati alla buona, i tratti della costa, le insenature, i rilievi attorno a Tolone, le sedi dei fortilizi, i corsi dâacqua. Curvo sul brogliaccio, il giovane cĂČrso cominciava a intuire. «Per paradosso» gli faceva lâaltro segnando a dito quanto reputava di maggior momento «gli ostacoli apparenti si rivelano occasioni, la soluzioneâŠÂ»
Nel suo ragionare, i giochi di guerra mutavano in rebus matematici, algebrici indovinelli o scioglilingua. «Togliti dalla testa lâassalto o la presa per fame: son bambinate. Il caso va analizzato valutando semplici campi di forze, moti assiali elementari, perfette incognite. La presenza dei vascelli britannici in rada grande, per dire, puĂČ trasformarsi da fastidioso spauracchio in arma letale. Basta costringerli a ripiegare allâinterno della rada minore, e trappolarli. Ma senza muovere un uomo; beâ, piĂč o meno.»
Il cartografo illustrava il suo piano infervorandosi. Prendere la collina del Caire, in faccia a Tolone, e da lĂŹ calare sui forti di lâAiguillette e de la Balaguier, per espugnargli.
«E a quel punto cannonare le navi?»
«Proprio cosĂŹ. Se vanno a infilarsi in rada piccola sono fottuti (e lo so che questa Ăš voce che tra persone costumate non sâadopra). Questione di giorni o settimane, al massimo un mese, e dovranno sloggiare, alzare le vele.»
«La fai facileâŠÂ»
«à facile.»
«EffettivamenteâŠÂ»
Quando sâerano conosciuti, giorni addietro, il delfinese gli aveva fatto poca impressione. Se lâera ritrovato appoggiato bel bello allâaffusto di una bombarda, aria sorniona, mentre acquerellava certe piante rachitiche dâolivo che sâintestardivano a metter radici corte tra le rocce cavando sostentamento da zolle di terra asciutta, rosso brunita. «Tenente Victor», «capitano Buonaparte», e trallallero (le solite formali presentazioni, cerimoniose). Poi avevano preso a parlare, intrattenersi, tanta era la noia dellâassedio. Ora, invece, le astruse sofisticherie del delfinese gli apparivano meno inani, piĂč concrete. Quel suo disumanare la guerra, tanto stitico e falĂČtico, spiazzante, aveva una sua raison dâĂȘtre, per quanto oscura. Avrebbe dovuto proporre il «piano» al commissario politico mandato da Parigi, a Saliceti; se restavano ad aspettare quel poltrone del general Carteaux stavano freschi. Del resto, nemmeno era una novitĂ , a pensarci bene.
Costretto dal tedio di quei giorni tutti uguali tra loro e senza eventi, il capitano cĂČrso inciampava nei ricordi, malvolentieri. Era un «metodo» anche quello, a conti fatti. CosĂŹ ripensava alla scuola dâartiglieria di Auxonne, in CĂŽte-dâOr. Il vecchio barone du Teil portava i suoi ufficialetti in piena campagna per assurde manovre senza truppe, un esperimento. Stivali infangati e mappe alla mano, si trovavano a simulare chissĂ quali battaglie immaginarie. Come prendere un villaggio o come salvarlo; come guadagnare postazioni sicure sulle colline. Esercizi mentali; astrazioni. Era solo questione di calcolo e finzione, di raziocinio. Il nodo era il controllo del territorio, un algoritmo. Carta alla mano, non Ăš che il delfinese dicesse cose poi tanto diverse. Avrebbe mostrato quel piano a Saliceti. Era sensato.
*
Diversamente dal cĂČrso, militare di carriera, uomo dâazione, spesso il cartografo si domandava cosa ci stesse a fare su quelle smunte rocce davanti al mare. Quale appello lâaveva reclamato tra le milizie intruppate tuttâattorno a Tolone interrompendo il suo autoimposto esilio di stralunata pace tra gli alpeggi? Fedele al suo usato costume, si esaminava; coerente con se stesso, si interrogava. Uomo dei Lumi (cosĂŹ amava pensarsi e si definiva), non tollerava lâalea dellâincertezza, nessun azzardo o abborracciato caso, le imprecisioni. Se la sua vita si faceva «romanzo», sdolcinato, voleva ridargli senza ritardo e indugio una ragione. Neanche a ventâanni, giĂ era lĂŹ a stilare bilanci e consuntivi, provvisori. Si vive, ragionava, di fredde decisioni, di insofferenze, ma vivere non basta, occorre pensarsi.
La sua infanzia sciupata a Grenoble, tra incenso e preci, bisbigli di provincia, piccinerie; la sua infanzia confinata in un angolo, riottosa. Precoci memorie di penombra, in chiaroscuro, senza un segno marcato, prive di lampi. La tirannia dei nomi, una sorta di sottile condanna topografica, gli rinviava adesso un messaggio beffardo, per metĂ ancora oscuro, da decrittare, e per metĂ anche sin troppo limpido, palese. Targhe eloquenti e mogi interni foderati di mormore mestizia e pregiudizio. Rue des Vieux-JĂ©suites, Rue de Grenelle, palazzi di intonaco grigioazzurro, infissi verde lavanda, stucchi bianchi e, quattro strade appresso, le rive dellâIsĂšre, bruno fluente tra pareti dâardesia nerofumo e casupole marce, imbarcaderi. Sole le Alpi lontano, svettanti allâorizzonte, gli davano emozione e conforto, quasi gioia (anni piĂč tardi, quanto lâavrebbe deluso il piattume attorno a Parigi, inaspettato).
Giorni stirati come sbadigli, notti solinghe e tutta una litania di devozioni cadenzavano la sua vita giĂ tramortita da un tedioso breviario di ubbidienze. Attorno a lui, figure di famiglia, desolanti, e pochi o punti amici: gli eran vietati. La madre, defunta nel darlo alla luce, poteva anche idolatrarla in astrazione ma restava unâimmagine di sogno, evanescente. Allâindole delfinese, vivace, ostinata, ragionatrice («Per chi ci vede chiaro, la musica, i paesaggi e i romanzi dovrebbero cambiare ogni tre gradi di latitudine» annoterĂ molto piĂč tardi in uno dei suoi rari scritti autobiografici), suo padre accoppiava la grettezza dellâavaro di tre cotte combinata con un certo orgoglio codino, malriposto. Non meno molesta era la falsocortese e arcigna zia materna, legata a filo doppio al genitore («Due diavoli erano scatenati contro la mia povera fanciullezza, la zia SĂ©raphie e mio padre, che dal 1781 divenne suo schiavo»). Memorabile a suo modo anche lâabate precettore, il torvo Raillane, «una vera canaglia nel senso piĂč completo della parola». In questo soggetto, perfetta espressione del meschino complotto ziesco-paterno, si compendiava tutta lâanima gesuitica repressa che, nonostante il bando, ancora alitava attorno le sue ipocrite fiatate ricattatrici. Serge quasi si esaltava rievocando lâaspetto e i tratti morali del gaglioffo: «Magro, molto manierato, il colorito verdognolo, lo sguardo falso con un sorriso odioso⊠questâuomo per scaltrezza, per educazione o istinto di prete era nemico giurato della logica e di ogni retto ragionamento».
Consolarlo, poteva consolarlo magari il nonno, il solo forse che lâamasse dâamore sincero. Illuminista in cuor suo, pur sotto mentite spoglie di baciapile, il vecchio viveva il transito dei tempi incuriosito e la sua casa, il vasto appartamento in Rue de Grenelle (allâangolo della Grande Rue, la casa dava sulla piĂč bella piazza della cittĂ , coi suoi due caffĂš rivali a fronteggiarsi), era stata per Serge un porto amico, lâunico approdo in quel mare di noia. Di lui rammentava le caramelle al rabarbaro, amarissime, che quegli era sempre fiero di donare, e la singolare mise Ancien RĂ©gime. Con la scusa di assistere il vegliardo e fare con lui ripasso di latino, sgattaiolava via da Rue des Vieux-JĂ©suites sempre piĂč spesso. Lâantenato lâattendeva nello studiolo affacciato sulla terrazza fiorita. Una lunga fuga di corridoi stipati di severo, ingombrante, mobilio, culminava nel bizzarro camerino pentagonale. Davanti allo scrittoio troneggiava un busto di Voltaire, marmolucente.
Dottore in medicina, il nonno portava sempre una parrucca incipriata, tondeggiante, adornata da tre file di riccioli, e aveva il vezzo di tenerla in bella mostra, con ogni tempo, essendosi fatto un principio di non indossare mai il cappello in testa. CosĂŹ se ne stava sempre col copricapo triangolare sotto il braccio, impettito come un merluzzo o un soldatino (nellâaltra mano teneva sempre la canna da passeggio, un bastoncino col pomo in radice di bosso ornato di tartaruga). Chirurgo militare, veterano delle guerre di successione â era stato allâAssietta con Belle-Isle â il vecchio Henry viveva allora di glorie passate e arguti pettegolezzi grenoblesi perĂČ senza trascurare le novazioni e a testimoniarlo (oltre al busto di Voltaire, naturalmente) stavano i tomi infiniti dellâEncyclopĂ©die in bellâordine allineati sugli scaffali. Altra cosa notevole, che Serge ritrovava adesso affiorante nei ricordi con lâintensitĂ elusiva di un presagio, una grande carta del Delfinato, larga ben quattro piedi e attaccata al muro splendida e sbilenca. Nei tratti, era in fondo un lavoro seicentesco e ancora ci scorgevi minute figure umane, malcelate, e vari disegni incongrui, ingenue icone. Ma il nonno ne andava fiero, ci teneva, e il bambino ci si perdeva, conquistato.
Ordine, eleganza, una sobria misura di curiositĂ . Tutto a casa del nonno trasudava intelligenza, anzi attenzione, lâesatto contrario dei suoi giorni da recluso ai Vieux-JĂ©suites. LĂŹ soltanto discipline mortuarie, contrizioni, ciance mandate a memoria, parole false (e il trillo dei dannati canarini dellâabate, reclusi anchâessi in una povera gabbietta in fil di ferro, starnazzanti allâalba molesti, silenti il giorno: «Quei diavoli dâuccelli» ricorderà «mi svegliavano sul far del giorno, subito dopo sentivo il rumore della paletta dellâabate che attizzava il fuoco con una cura che ho riconosciuto piĂč tardi essere tipica dei gesuiti»). PiĂč che normale che cercasse la rotta, unâevasione, ogni pretesto per lasciare Grenoble.
Vedi, che lâAlma mia in fuga Ăš mossa
per li nemici miei acerbi e duriâŠ
Antichi versi lo chiamavano a cercarsi un altrove, per rinnovarsi.
CosĂŹ sâera rifugiato nei pascoli del disegno, un passatempo, o sulle pareti di roccia della matematica. Alla trivialitĂ di familiari, pettegoli grenoblesi, preti e suore, contrapponeva la grazia precaria di sgorbi con la grafite o allâacquerello o la severitĂ di computi perfetti, aride operazioni mentali tutta logica. In quella disciplina tirannica e cristallina, finto-sterile («la science qui a pour objet les propriĂ©tĂ©s de la grandeur entant quâelle est calculable ou mesurable» sentenziavano gli onniscienti enciclopedisti di suo nonno), trovava lâalternativa perfetta alle sue gran bestie nere â il «vago» e lâ«Ipocrisia» â e un contromondo che poteva controllare a piacimento, e dominare. Era un modo per sfuggire, restando fermo. Attorno a lui, la triste commedia sociale diradava e restavano soltanto numeri e segni.
Numeri e segni: cosĂŹ gli appariva il cosmo, in quei momenti: un ordine rigoroso, senza ombre, inutili smagliature, contrattempi. Tutto era complesso e semplice, calcolabile; nulla era dovuto al caso, o alla passione. Tra disegno e matematica, traduceva in geometria ogni apparenza. NellâEncyclopĂ©die aveva trovato la chiave di volta per leggere lâuniverso, denudandolo:
CosĂŹ, con successive operazioni e astrazioni della nostra mente, noi spogliamo la materia di quasi tutte le sue proprietĂ sensibili, per non considerare per cosĂŹ dire che il suo fantasma.
Ma allontanarsi da fermo non gli bastava. La mediocre congiura degli affetti obbligati, di circostanza, il solito ballo in maschera delle convenzioni â un minuetto â poteva sospenderle per un attimo, non abolirle, e tra se stesso e Grenoble voleva scavare un solco, andando lontano. Del suo esilio a Sallanches, sulle alture, conservava un ricordo preciso, sbigottito. Ai piedi del Monte Bianco aveva cercato lâimprobabile guarentigia di una pace assoluta, immacolata, ma qualcosa era andato storto e sâera imbattuto in altre leggende o fole, inaspettate. Bisbigliavano anche i monti, visibilmente. Il suo romitaggio in grezze pietre di fiume mal sbozzate â un vetusto essiccatoio per le castagne â pareva abitato da gnomi, fantasticanti. Il suo metodo razionale, la sua vocazione allâordine, i suoi rigorosi piani, le sue gelide smanie geometrizzanti parevano smentiti dal ciarlare dei contadini, dal bofonchiare rozzo dei montanari. Se sui monti inseguiva lâesattezza, paesaggi raggelati e scarni, limpide traspa...